diff --git "a/C014/Y01396.json" "b/C014/Y01396.json" new file mode 100644--- /dev/null +++ "b/C014/Y01396.json" @@ -0,0 +1,3 @@ +[ +{"source_document": "", "creation_year": 1396, "culture": " Italian\n", "content": "Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed\nmade available by Editore Laterza and the Biblioteca\nItaliana at\n SCRITTORI D'ITALIA\n GIUS. LATERZA & FIGLI\n TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI\n PROPRIET\u00c1 LETTERARIA\nCAPITOLO I\nCome all'autore apparve Cupido, e questi lo condusse nel regno di Diana,\nove a' preghi del medesimo fer\u00ed la ninfa Filena.\n La dea, che 'l terzo ciel volvendo move,\n avea concorde seco ogni pianeto\n congiunta al Sole ed al suo padre Iove.\n La sua influenza tutto 'l mondo lieto\n 5 esser faceva e d'aspetto benegno,\n da caldo e freddo e da venti quieto.\n E Febo il viso chiaro avea nel segno,\n che fu sortito in cielo ai duo fratelli,\n ond'ebbe Leda d'uovo il ventre pregno,\n 10 E tutti i prati e tutti gli arboscelli\n eran fronduti, ed amorosi canti\n con dolci melodie facean gli uccelli.\n E gi\u00e1 il cor de' giovinetti amanti\n destava Amore e 'l raggio della stella,\n 15 che 'l sol vagheggia or drieto ed or davanti,\n quando il mio petto di fiamma novella\n acceso fu, onde angoscioso grido\n ad Amor mossi con questa favella:\n --Se tu se' cosa viva, o gran Cupido,\n 20 come si dice, e figlio di colei,\n ch'amore accese tra Enea e Dido;\n se tu se' un del numer delli d\u00e8i,\n e se tu porti le saette accese,\n esaudisci alquanto i desir miei.\n 25 I' priego te che mi facci palese\n la forma tua e 'l tuo benigno aspetto,\n il qual si dice ch'\u00e8 tanto cortese.--\n Appena questo priego avea io detto,\n quand'egli apparve a me fresco e giocondo\n 30 in un giardino, ov'io stava soletto,\n di mirto coronato el capo biondo,\n in forma pueril con s\u00ed bel viso,\n che mai pi\u00fa bel fu visto in questo mondo.\n I' creso arei che su del paradiso\n 35 fosse il suo aspetto: tanto era sovrano;\n se non che, quando a lui mirai fiso,\n vidi ch'avea un arco ornato in mano,\n col quale Achille ed Ercole percosse,\n e mai, quando saetta, getta invano.\n 40 Sopra le vestimenta ornate e rosse\n di penne tanto adorne avea duo ali,\n che cos\u00ed belle mai uccel non mosse.\n Nella faretra al fianco avea gli strali\n d'oro e di piombo e di doppia potenza,\n 45 colli qua' fere a d\u00e8i ed a mortali.\n Quando ch'i'l vidi avanti a mia presenza,\n m'inginocchiai e, come a mio signore,\n li feci onore e fe'li riverenza,\n dicendo a lui:--O gentilesco Amore,\n 50 se a venire al priego mio se' mosso,\n colla tua forza e col tuo gran valore\n aiuta me, il quale hai s\u00ed percosso\n e s\u00ed infiammato col tuo sacro foco,\n ch'io, lasso me! pi\u00fa sofferir non posso.--\n 55 Allor rispose, sorridendo un poco:\n --Dall'alto seggio mio i' son venuto\n mosso a piat\u00e1 del tuo piatoso invoco.\n Degno \u00e8 ch'io ti soccorra e diati aiuto,\n da che ferventemente tu mi chiame,\n 60 e ch'io sovvenga al cor, ch'i' ho feruto.\n Sappi che in oriente \u00e8 un reame\n tra lochi inculti e tra ombrosi boschi,\n ch'\u00e8 pien di ninfe d'amorose dame.\n E quelle selve e quelli lochi foschi\n 65 son governati dalla dea Diana,\n la qual voglio che veggi e la conoschi.\n E bench\u00e9 sia la via molto lontana\n e sia scogliosa e sia di molta asprezza,\n io la far\u00f2 parer soave e piana.\n 70 Io son l'Amor, che dono ogni fortezza\n ne' gravi affanni e, mentre altrui affatico,\n gli fo la pena portar con dolcezza.\n In questo regno, del quale io ti dico,\n \u00e8 una ninfa chiamata Filena\n 75 con bell'aspetto e con volto pudico.\n La selva \u00e8 ben di mille ninfe piena;\n ma dea Diana, quando va alla caccia,\n pi\u00fa presso questa che null'altra mena.\n Costei s\u00ed bella e con pudica faccia\n 80 io ferir\u00f2 per te d'un dardo d'oro,\n quantunque io creda che a Diana spiaccia.\n Tu vedra' delle ninfe il sacro coro\n insieme con Diana lor maestra,\n e belle s\u00ed, ch'i', Amor, me n'innamoro.\n 85 E portan l'arco fier nella sinestra,\n ed al comando della lor signora\n cacciando van per la contrada alpestra.\n --O dio Cupido, tanto m'innamora,\n --risposi a lui--il ben che m'hai promesso,\n 90 che al venire mi pare un anno ogn'ora.--\n Allor si mosse, ed io andai con esso;\n alfin venimmo per la lunga via\n in un boschetto, ch'avea un piano appresso.\n La dea Diana a caso fatta av\u00eda\n 95 una gran caccia e dalla parte opposta\n con pi\u00fa di mille ninfe in gi\u00fa ven\u00eda.\n E discendeano al pian su d'una costa\n inverso una fontana d'acqua pura,\n qual era in mezzo della valle posta,\n 100 non fatta ad arte, ma sol per natura;\n ed era d'acqua chiara e s\u00ed abbondante,\n che un fiumicel facea 'n quella pianura.\n E poi ch'al fonte funno tutte quante,\n corseno a rinfrescarsi alle chiare onde,\n 105 ponendo in elle le mani e le piante.\n Ed alcun'altre stavan su le sponde\n del fiumicello; e delli fiori c\u00f2lti\n facean grillande alle sue trecce bionde.\n Ed alcun'altre specchiavan lor volti\n 110 nelle chiare acque, ed altre su pel prato\n givan danzando per que' lochi incolti.\n Cupido, ed io con lui, stava in aguato\n dentro al boschetto, e ben vedevam quelle,\n ed elle noi non vedean d'alcun lato.\n 115 Poscia ben cento di quelle donzelle\n sciolson le trecce della lor regina,\n le trecce bionde mai viste s\u00ed belle.\n S\u00ed come tra' vapor, su la mattina,\n ne mostra i suoi capelli il chiaro Apollo,\n 120 e nella sera quando al mar dechina;\n cos\u00ed Diana avea capelli al collo,\n cos\u00ed splendea ed era bella tanto,\n che a vagheggiarla mai l'occhio \u00e8 satollo.\n E poi ch'ell'ebbon fatta festa alquanto,\n 125 tennon silenzio tutte, se non due,\n che alla sua loda comincionno un canto.\n Delle due cantatrici l'una fue\n Filena bella, che m'avea promessa\n il dolce Amor con le parole sue.\n 130 E quando egli mi disse:--Quella \u00e8 essa,--\n pensa s'io m'infiammai, che la speranza\n tanto pi\u00fa accende quanto pi\u00fa s'appressa.\n Ond'io all'Amor:--Se quella a me per 'manza\n hai conceduta, percuoti col dardo\n 135 costei, che in belt\u00e1 ogn'altra avanza.\n Ahi quanto piace a me quando la sguardo!\n E cosa desiata, se si aspetta,\n tanto pi\u00fa affligge quanto pi\u00fa vien tardo.--\n Allor Cupido scelse una saetta\n 140 ed infocolla e posela nell'arco\n per saettare a quella giovinetta.\n E come cacciator si pone al varco\n tacito e lieto, aspettando la fera,\n e sta in aguato col balestro carco;\n 145 tal fe' Cupido e la saetta fiera\n poscia scocc\u00f2, e, inver' Filena mossa,\n il manto sol tocc\u00f2 lenta e leggera.\n Quando le ninfe sentir la percossa\n e nostra insidia a lor fu manifesta,\n 150 tutte fuggir con tutta la lor possa.\n S\u00ed come i cervi fan nella foresta,\n quando sono assaliti, o' capriuoli,\n se cani o altra fera li molesta,\n che vanno a schiera, e alcun dispersi e soli,\n 155 e per paura corron tanto forte,\n che pare a chi li vede ch'ognun voli;\n cos\u00ed le ninfe timidette e smorte\n fuggiro insieme, ed alcuna smarrita,\n quando si furon di Cupido accorte.\n 160 Filena bella non ser\u00eda fuggita,\n se non che la sua dea la man gli porse:\n tanto pel colpo ell'era sbegottita.\n L'Amore, ed io con lui, al fonte corse,\n dove le sacre ninfe eran sedute,\n 165 quando la polsa insino a lor trascorse.\n Io non trovai se non ch'eran cadute\n alle due cantatrici le grillande\n de' belli fior, che in testa avieno avute.\n Per\u00f2 a Cupido dissi:--Ov'\u00e8 la grande\n 170 virt\u00fa dell'arco tuo, che tanto puote?\n E 'l fuoco ov'\u00e8, che tanto incendio spande?\n Se l'arco tuo giammai invan percuote,\n perch\u00e9 ingannato m'hai colle promesse,\n che m'han condutto in le selve remote?--\n 175 Non potei far che questo io non dicesse\n col volto irato, e pi\u00fa mi mosse ad ira\n che del mio scorno parve ch'ei ridesse.\n Poscia rispose:--Ov'io posi la mira,\n quivi percossi, e quivi il colpo giunse\n 180 dell'arco mio, che mai invan si tira.--\n E quel che segue, col parlar, soggiunse.\nCAPITOLO II\nNel quale l'Amore prova per molti esempli che nessuno pu\u00f2 far\nresistenza a lui ed alle sue saette.\n --N\u00e9 ciel, n\u00e9 mar, n\u00e9 aer mai, n\u00e9 terra\n pot\u00earo al foco mio far resistenza,\n n\u00e9 all'arco dur, che mai ferendo egli erra.\n Dall'alta sede della sua eccellenza\n 5 fatt'ho discender pi\u00fa fiate Iove\n colle saette della mia potenza.\n E lui mutai in cigno ed anco in bove,\n ed in altre figur bugiarde e false,\n senza mostrar le mie ultime prove.\n 10 Nettunno freddo in mar tra l'acque salse\n accese tanto il mio fuoco sacrato,\n che l'Oce\u00e1no estinguer non gli valse.\n Ma come fortemente innamorato\n della fiera Medusa, che a lui piacque,\n 15 e di cui 'l viso tanto gli fu grato,\n gridava:--Io ardo tra le gelid'acque;--\n perch\u00e9 ammortar non potea in s\u00e9 l'ardore\n merc\u00e9 chiamando, a me soggetto giacque.\n Pluton d'inferno, ove non fu ma' amore,\n 20 infiammai tanto col mio caldo foco,\n che 'l feci innamorar col mio valore.\n Proserpina, che stava in balli e gioco,\n fei che rap\u00edo e feila far regina\n del tristo inferno e dell'opaco loco.\n 25 A Febo l'arte della medicina\n niente valse contra l'arco mio,\n n\u00e9 sapienza, n\u00e9 virt\u00fa divina;\n ch\u00e9, bench' e' fosse saggio e fosse dio,\n correndo il feci andar dietro a colei,\n 30 la qual nel bello all\u00f2r si convert\u00edo.\n Ahi quanti sono stati quelli d\u00e8i,\n ch'i' ho feriti, e quante le persone,\n ch'i' ho domate con li dardi miei!\n Ercole forte, che vinse il lione\n 35 e che all'idra sette teste estinse,\n Cerbero prese e mozz\u00f2e Gerione;\n in scambio della spada poi si cinse\n la rocca e 'l fuso per la bella Iole:\n tanto la fiamma e mia saetta il vinse.\n 40 Per pi\u00fa piacer, di fiori e di viole,\n esperta all'elmo, adornava sua testa,\n come dalle donzelle far si suole.\n Tosto vedrai e tosto manifesta\n sar\u00e1 a te in effetto la percossa,\n 45 ch'io fe' a Filena al sommo della vesta,\n che gli ha passato gi\u00e1 la carne e l'ossa;\n \u00e8 gi\u00e1 intrato il caldo alle midolle\n e giunto al core, ov'egli ha maggior possa.--\n E poi mi fe' sguardar su verso il colle\n 50 ad una naida, che venia alla 'ngi\u00fae,\n alla quale io parlai com'ello volle;\n ch\u00e9 quando insino a noi venuta fue,\n la domandai:--Perch\u00e9 a quest'acqua amena\n venuta se'? E, dimmi, chi se' tue?\n 55 --Una ninfa gentil ditta Filena\n smarrita ha qui una bella grillanda\n --rispose quella--e di questo ha gran pena.\n E perch\u00e9 io la ritrovi ella mi manda,\n e disse a me:--Io vidi un giovinetto,\n 60 che corse l\u00ed, e per\u00f2 ne 'l dimanda.--\n Ed anco d'altre cose ella m'ha detto:\n saresti tu colui, che loda tanto,\n che parve a lei di s\u00ed benigno aspetto?--\n Cupido inver' di me sorrise alquanto,\n 65 quasi dicendo:--Or vedi la promessa\n e la percossa, ch'io gli diei sul manto.--\n E come chi da compagni si cessa,\n perch\u00e9 parlar vuol tacito e quieto,\n mi cessai solo per parlar con essa.\n 70 --Naida mia--diss'io,--or mi fa' lieto:\n dimmi dov'\u00e8 Filena, se tu 'l sai,\n e se tu hai da lei alcun segreto.\n --Rifa chiamata sono e seguitai\n --rispose quella--gi\u00e1 la dea Diana,\n 75 e fui nel suo cospetto accetta assai.\n Ma una volta in una parte strana\n fece una caccia in uno aspro paese,\n ed io cacciando andai molto lontana.\n Trovai un centauro, e per forza mi prese:\n 80 oh lassa me, ch'i' non ebbi potere\n contra sua forza usar le mie difese!\n Per\u00f2 Diana non vuol sostenere\n ch'io vada pi\u00fa con lei, ed hammi posta\n che in guardia un fiumicel debba tenere.\n 85 Io era l\u00ed, di l\u00e1 dall'altra costa,\n quando le ninfe con la smorta faccia\n vidi fuggire, e nulla facean sosta,\n s\u00ed come cervi che son messi in caccia,\n quando dietro il lion va seguitando,\n 90 o altra fiera fuggendo l'impaccia.\n Ed io della cagion facea 'l domando\n del fuggir loro, e Diana non v\u00f2lse\n darme risposta insino allora quando\n tutte le ninfe sue ella raccolse.\n 95 Allor mi disse:--Qui mi fa fuggire\n Cupido falso e sue infocate polse.\n Ma io far\u00f2 querela al sommo sire,\n ch\u00e9 'l regno mio pi\u00fa volte a tradimento\n con falsit\u00e1 venuto egli \u00e8 a assalire.--\n 100 Poi cerc\u00f2 tutte e solo il vestimento\n trov\u00f2 a Filena, ch'era alquanto acceso,\n il qual con l'acqua crese avere spento.\n Ma gi\u00e1 quel foco sacro era disceso\n dentro nel sangue, s\u00ed come s'accende\n 105 un picciol foco nella stoppa appreso.\n Il d\u00ed seguente, quando il sol risplende,\n Diana prese le saette c\u00f3nte;\n ed ogni ninfa ancor suo arco prende,\n per\u00f2 che seppon che di l\u00e1 dal monte\n 110 era di cervi venuta una schiera\n a beverarsi ad una bella fonte.\n Filena non and\u00f2, ma rimasta era,\n ch\u00e9 di non poter ir prese la scusa\n ancor pel colpo della polsa fiera.\n 115 E per la fiamma, ch'ella avea rinchiusa\n drento nel cor, faceva la donzella\n come un ferito cervio di fare usa,\n il qual non trova loco; e cos\u00ed ella\n or si adornava di fioretti belli\n 120 la testa sua, come sposa novella,\n or sospirava ed or li suoi capelli\n mostrava al sole e gli occhi, duo zaffiri,\n poscia specchiava ne' chiar fiumicelli.\n Per tanti segni e per tanti sospiri\n 125 io, ch'era gi\u00e1 di queste cose esperta,\n conobbi dell'amor li gran mart\u00edri.\n --Dimmi, Filena, e non tener coperta\n la fiamma tua:--chiamandola da parte:--\n per tanti segni--dissi--io ne son certa.--\n 130 Rispose dopo assai lagrime sparte:\n --Ahi lassa me! Amor d'un dardo d'oro\n ferita m'ha con forza e con sua arte.\n Per\u00f2 non ho seguito il sacro coro\n di mie sorelle, sol perch\u00e9 m'aiuti:\n 135 se non mi aiuti, o Rifa, oim\u00e8 ch'io moro!--\n Poscia che i suo' mart\u00edri ebbi saputi,\n venni per aiutarla e son discesa\n non per grillanda o per fiori perduti.--\n Quando quest'ambasciata io ebbi intesa,\n 140 risponder voleva io:--La mente mia\n \u00e8 pi\u00fa di lei ch'ella di me accesa;--\n se non che quella naida n'and\u00f3 via,\n ed in poc'ora trascorse il viaggio\n insino al loco ond'ella venne pria.\n 145 Ond'io all'Amor:--Se se' possente e saggio,\n ora il vegg'io e priego, a me perdona,\n se del tuo arco dissi mai oltraggio.--\n Tempo era quasi presso in su la nona,\n ed io pregava che andassimo ratto,\n 150 colui che a gir ratto ogni altro sprona,\n dicendo:--Quando \u00e8 l'ora, \u00e8 il tempo adatto;\n se poi s'indugia e perdesi quel punto,\n spesse volte l'effetto non vien fatto.--\n Poscia ch'io fui all'altro colle giunto,\n 155 vidi Filena l\u00e1 dal fiumicello,\n di cui l'Amor m'avea il cor trapunto.\n Di fiori adorno avea lo capo bello;\n e perch\u00e9 il fiume correa giuso al basso,\n per\u00f2 discesi ed appressaime ad ello.\n 160 Quando per gire a lei io movea il passo\n per entro il fiume, udii sonare un corno,\n il qual mi tolse allora ogni mio spasso.\n Filena disse:--La dea fa ritorno;\n oim\u00e8, fuggi via tosto;--e poi levosse\n 165 i fior, de' quali il capo avea adorno.\n Ed incontra alle ninfe ella si mosse,\n le qua' tornavan liete con le prede;\n ed indi anche Cupido me rimosse,\n dicendo a me:--Se Diana ti vede,\n 170 come Acteon, quando da lei fu visto,\n trasmutar ti far\u00e1 da capo a piede.--\n Come colui che crede fare acquisto\n di quel che pi\u00fa desia, e viengli invano,\n cos\u00ed io me scornai e feime tristo.\n 175 E lagrimando ingavicchiai la mano,\n e risguardava la nobile 'manza\n da un boschetto non molto lontano.\n Oh credula anco e fallace speranza,\n confortatrice all'uom nelle gran pene,\n 180 che, mentre perdi, acquistar hai fidanza!\n Ancor nel core mi dicea la spene:\n --Anco avverr\u00e1 che Filena rimagna,\n se a Diana partir gli conviene.--\n Poi volle andar la dea alla montagna;\n e per non gire, io credo, mille prece\n 185 fece Filena e Rifa sua compagna.\n Ella non assent\u00ed, ma gir le fece\n amendue seco, e Filena lo sguardo\n volse a me, andando, volte pi\u00fa di diece;\n e, mentre andava in su, mi gitt\u00f2 un dardo.\nCAPITOLO III\nL'autore vien tradito da un satiro, mentre cerca Filena,\nche, aspramente da Diana punita, in quercia si trasmuta.\n Il dardo, che gitt\u00f2, da me si colse,\n che, quando il balestr\u00f2, venne s\u00ed ritto\n e tanto appresso a me quant'ella v\u00f2lse.\n \u00abIo amo te--occulto ivi era scritto:--\n 5 l'Amor, che fer\u00ed Febo di Parnaso,\n ferito m'ha li panni e 'l cor trafitto\u00bb.\n Cupido a me:--Per me non \u00e8 rimaso\n che tu non abbi avuto il tuo desire;\n ma questo impedimento \u00e8 stato a caso.\n 10 Cercando omai per lei ti convien gire.--\n E quando io a lui rispondere vol\u00eda,\n fugg\u00ed volando e non mi volle udire.\n --O falso Amor--diss'io,--o scorta mia,\n perch\u00e9 mi lassi? or dove prendi il volo?\n 15 perch\u00e9 mi lassi senza compagnia?--\n Vedendomi rimaso cos\u00ed solo,\n passai il fiume insino all'altra banda\n e fui sul prato e su quel verde suolo,\n ov'io vidi Filena lieta e blanda,\n 20 quando coll'occhio mi soffi\u00f2 nel foco,\n che amore accende e che Cupido manda.\n E sospirando dissi:--Oh dolce loco,\n mentre Filena vi tenne le piante!--\n E poscia che 'l basciai e piansi un poco,\n 25 per la via ch'ell'er'ita, andai su avante,\n cercando tutti i balzi ed ogni valle\n e scogli e schegge intorno tutte quante.\n E gi\u00e1 Atalante dietro le sue spalle\n posto avea Febo e facea il giorno nero;\n 30 ed io pur oltre per lo duro calle,\n senza riposo; e solo avea il pensiero\n a ritrovarla per la selva oscura,\n piena di spine senz'alcun sentiero.\n Se sol di notte non avea paura,\n 35 Amor \u00e8 quel che da fortezza altrui\n nelle fatiche e l'animo assicura.\n Tra l'aspre selve e tra li boschi bui\n tutta la notte andai cercando intorno\n insin che in un vallon venuto fui.\n 40 E quasi su nel cominciar del giorno\n trovai un mostro, maladetta fera,\n coll'arco in mano, e avea al petto un corno.\n Il petto e 'l volto suo tutto d'uomo era,\n il dosso avea caprin fino alla coda,\n 45 con quattro piedi e colla pelle nera.\n Un satiro era questo pien di froda:\n e satir detti son malvagi e falsi,\n che fanno inganni con lusinghe e loda.\n E fauni ancora stan tra quelli balsi\n 50 ed hanno umani i petti ed anco i volti;\n l'altro \u00e8 bovino, e vanno nudi e scalsi.\n E semicervi ancora vi son molti,\n ingannatori ed animal perversi,\n pur ch'altri con lor usi e che gli ascolti.\n 55 Dal satir, che scontrai, con dolci versi\n s\u00ed lusingato fui e s\u00ed sottratto,\n che tutto il mio amor gli discopersi.\n Ch\u00e9 quando vidi un mostro cos\u00ed fatto,\n in man per mia difesa presi il dardo,\n 60 che la bella Filena a me av\u00ede tratto.\n Ed egli il riconobbe al primo sguardo\n ch'io l'avea dalla ninfa di Diana;\n onde parl\u00f2 come falso e bugiardo:\n --Onde vien' tu in questa selva strana?\n 65 Di', che ti move e, dimmi, qual \u00e8 il fine,\n pel qual tu vai per questa via lontana?--\n Ed io a lui:--Tra cespi e dure spine\n smarrito vo, ed or son qui venuto\n come chi va, n\u00e9 sa dove cammine.\n 70 Ma tu, che se' mezz'uomo e mezzo bruto,\n mi fai maravegliar quando io ti guato,\n ch\u00e9 s\u00ed fatto uom non fu giammai veduto.\n --Io fui pur uom--rispose--innamorato\n di dea Diana, e vagheggiaila ognora,\n 75 e da lei 'n questa forma fui mutato;\n ch'ella preg\u00f2 lo dio, ch'altru' innamora,\n che a ci\u00f2 rimediasse, e me percosse\n del dardo ch'\u00e8 di piombo e disamora.\n Questo ogni amor mi tolse e via rimosse;\n 80 e per\u00f2 quella dea a me permette\n ch'i' possa gire a lei unque ella fosse.\n Insieme vo con le sue giovinette\n fra questi monti, insieme con lor coglio\n li fior, che stanno in su le verdi erbette.\n 85 A chiunque \u00e8 innamorato anche ho cordoglio,\n che ricordo le pene, ch'io provai\n del falso Amor, del quale ancor mi doglio.\n E se tu mi dirai dove tu vai,\n forse t'aiuter\u00f2, se mi richiedi\n 90 e se sei saggio e secreto il terrai.--\n O vano amor, oh quanto ratto credi\n quel che vorresti! Alle parole udite\n ed al modo del dir fede gli diedi.\n Ed io a lui:--Per queste vie smarrite\n 95 cercando vo le ninfe, ov'elle stanno:\n prego, se 'l sai, me diche ove son ite.--\n Rispose ancor con falsit\u00e1 ed inganno:\n --Elle sonno ite in un lontan paese,\n al qual non potrest'ir per grave aflanno.\n 100 Ma, se tu ami, perch\u00e9 nol palese\n a me, che sai che ho provato l'arme\n del fier Cupido e le saette accese?\n --Satiro mio--diss'io,--se puoi aitarme,\n io te 'l dir\u00f2, se prima tu mi giuri\n 105 tener credenza e ch'io possa fidarme.\n --Perch\u00e9 non di', perch\u00e9 non t'assecuri?\n --rispose il falso.--Or non sai tu che io\n di piombo e d'\u00f2r sentito ho i dardi duri?\n Io ti prometto e giuro innanzi a Dio\n 110 di tenerti secreto e d'aiutarte\n e conducer la ninfa al tuo desio.--\n Cos\u00ed mi disse con malizia ed arte;\n ond'io m'apersi e dissi con gran pena:\n --Vo cercando una ninfa in ogni parte,\n 115 bella e gentile, chiamata Filena;\n per ritrovarla entrai per questo bosco;\n la sua belt\u00e1 dirieto a lei mi mena.\n Tra questi spin, che son pi\u00fa amar che t\u00f2sco,\n soletto per parlargli io mi son messo,\n 120 ch\u00e9 pi\u00fa piacente cosa io non conosco.\n --Ed io far\u00f2--diss'ei--quel ch'i' ho promesso;\n ch'io ander\u00f2 co' mie' veloci piei\n ove la ninfa sta molto da cesso.\n Ma perch\u00e9 essa creda a' detti miei,\n 125 il dardo, che hai in man, mi d\u00e1' per segno,\n perch\u00e9 segretamente il mostri a lei.\n Con mie parole e mio usato ingegno\n far\u00f2 ch'ella verr\u00e1 in un bosco sola,\n e tu girai a lei quand'i' rivegno.--\n 130 Io gli die' 'l dardo per questa parola,\n ed ei ghign\u00f2 alquanto e poi saltando\n and\u00f2 veloce come uccel che vola.\n Forse sei ore avea aspettato, quando\n io vidi Rifa mia fida messaggia,\n 135 e quando a lei fui presso, io la domando:\n --Dov'\u00e8 Filena bella, onesta e saggia?\n Per lei cercato ho il bosco in ogni canto,\n e gito in ogni scheggia, in ogni piaggia.--\n Ella rispose con singolti e pianto:\n 140 --Pi\u00fa non appar la misera tapina;\n come tu contra lei errato hai tanto?\n Quella biforme bestia, ch'\u00e8 caprina,\n dianzi venne a noi, correndo in fretta,\n 'nanti alle ninfe ed alla lor regina,\n 145 e mostr\u00f2 lor lo dardo over saetta,\n che balestr\u00f2 Filena a te dal monte,\n e la scrittura \u00abIo t'amo\u00bb \u00e8 tutta letta.\n Per la vergogna ella abbass\u00f2 la fronte,\n e dea Diana, a grand'ira commota\n 150 contra Filena, stante a braccia gionte,\n gli die' dell'arco in testa e nella gota;\n e poich\u00e9 l'ebbe dispogliata nuda,\n disse alle ninfe:--Ognuna la percota.--\n Allor ciascuna verso lei fu cruda.\n 155 Ridea colui che fatto avie l'accusa,\n quel reo biforme maladetto Iuda.\n Poscia cos\u00ed spogliata e s\u00ed confusa\n ad una quercia grande fu congiunta,\n che sempre debba stare ivi rinchiusa.\n 160 E quivi vive e sta quasi defunta;\n e mille volte fu percossa ancora\n drento alla pianta; e quando ella \u00e8 trapunta,\n ad ogni colpo n'esce il sangue fuora\n e l'arbor bagna; e quando il colpo giunge,\n 165 grida piangendo:--Om\u00e8, om\u00e8, m'accora!--\n Udito io questo, ambe le mani e l'ugne\n mi diedi al volto e tenni basso il viso\n e non parlai, che il gran dolor, che pugne,\n parlar non lassa, quand'ha 'l cor conquiso.\n 170 Poscia, sfogati gli occhi lagrimosi,\n con voce fioca e col parlar preciso,\n s\u00ed come or seguir\u00e1, io gli risposi.\nCAPITOLO IV\nLamento dell'autore sopra la perduta Filena: promessa\ndi pi\u00fa bella ninfa fattagli da Cupido.\n --Oim\u00e8, oim\u00e8, o Rifa mia fedele,\n come ha permesso la fortuna e Dio\n che sia avvenuto un caso s\u00ed crudele?\n Trovai quel mostro maladetto e rio\n 5 nella boscaglia in sul levar del sole;\n ed e' mi domand\u00f2 del cammin mio.\n Oh lasso me! con sue dolci parole\n ei m'ha tradito: or vada, ch'io nol giunga\n e non l'occida, a lunge quanto vuole.--\n 10 Driada disse:--Il falso \u00e8 s\u00ed alla lunga,\n che 'nvan per queste selve t'affatichi\n che mai per te insino a lui s'aggiunga.\n --O Rifa mia, io prego che mi dichi\n dov'\u00e8 la quercia, dove sta unita\n 15 Filena mia coi begli occhi pudichi,\n e, da che io non gli parlai in vita,\n la vegga morta e le mie braccia avvolti\n a quella pianta, dove sta impedita.--\n Mossesi allor con pianti e con singolti,\n 20 ed io con lei per l'aspero cammino\n di quelli boschi e di que' lochi incolti,\n insin che giunsi all'arbore tapino;\n non alto gi\u00e1, ma era lato tanto,\n quanto in la selva \u00e8 lato un alto pino.\n 25 Io corsi ad abbracciarlo con gran pianto,\n e dissi:--O ninfa mia, prego, se pui,\n prego che mi rispondi e parli alquanto.\n Oh lasso me! ch\u00e9 a te cagione io fui\n di questa morte; ch\u00e9 quel traditore\n 30 nefando mostro ha tradito amendui.\n Alli miei prieghi ti fer\u00ed l'Amore\n dell'infelice colpo alla gonnella,\n che pass\u00f2 tanto acceso poi nel core.\n Prego, perdona a me, Filena bella:\n 35 perch\u00e9 non parli? perch\u00e9 non rispondi?\n Prego, se puoi, alquanto a me favella.\n Questa novella pianta e queste frondi\n e questi rami io credo che sian fatti\n delli tuoi membri e tuoi capelli biondi.--\n 40 Poich\u00e9 mille sospiri io ebbi tratti\n e mille volte e pi\u00fa la chiama' invano\n con pianti e voci ed amorosi atti,\n a quelle frasche stesi s\u00fa la mano\n e della vetta un ramuscel ne colsi:\n 45 allora ella grid\u00f2:--Oim\u00e8! fa' piano.--\n E sangue vivo usc\u00ed, ond'io el tolsi,\n s\u00ed come quando egli esce d'una vena;\n ond'io raddoppiai il pianto e s\u00ed mi dolsi:\n --Perdona a me, perdona a me, Filena.--\n 50 Poi maladissi il falso dio Cupido,\n che lei e me condotto avea a tal pena,\n dicendo:--Se pi\u00fa mai di lui mi fido,\n perir poss'io, e se al suo consiglio,\n seguendo il passo suo, mai pi\u00fa mi guido.--\n 55 Quando questo io dicea, con lieto ciglio\n Cupido apparve con bel vestimento\n broccato ad oro nel campo vermiglio;\n e disse a me:--Perch\u00e9 questo lamento\n di me fai tu? Non \u00e8 la colpa mia,\n 60 se altri a te ha fatto tradimento.\n Anche \u00e8 stato tuo error e tua follia,\n da che tu rivelasti il tuo secreto\n al mostro, che trovasti nella via.\n Pon' fin omai, pon' fin a tanto fleto,\n 65 ch\u00e9 d'altra ninfa di maggiore stima,\n se mi vorrai seguir, ti far\u00f2 lieto.--\n Ed io, mirando l'arbore alla cima,\n dissi:--Pi\u00fa bella non fu mai veduta;\n questa l'ultima sia, che fu la prima.--\n 70 Ed egli a me:--Della cosa perduta\n non curar pi\u00fa; e tanto ti sia duro,\n quanto se mai tu non l'avessi avuta.--\n Ed io dicendo pur:--Venir non curo,--\n della faretra fuor un dardo trasse,\n 75 ch'era di piombo pallido ed oscuro,\n e parve ch'e' nel petto me 'l gittasse;\n e perch\u00e9 quello fa che amor si sfaccia,\n fece che pi\u00fa Filena io non amasse.\n Allor risposi a lui con lieta faccia:\n 80 --Voglio venire e voglio seguitarte\n ed esser presto a ci\u00f2 che vuoi ch'io faccia.--\n Ed egli disse:--Qua a destra parte\n sta una valle tra la gran foresta,\n che diece miglia di qui si diparte.\n 85 L\u00ed debbe dea Diana far la festa\n per la sua madre, come fa ogni anno,\n e la dea Iuno a venirvi ha richiesta,\n s\u00ed ch'ella e le sue ninfe vi verranno,\n che son s\u00ed belle, che, a rispetto a quelle,\n 90 queste di Diana silvestre parranno.\n Tu vederai venir quelle donzelle\n tutte vaghette, adorne ed amorose,\n incoronate di splendenti stelle.--\n E poi si mosse tra le vie spinose,\n 95 tanto ch'e' mi condusse su nel monte,\n ond'io vedea la valle, e l\u00ed mi pose.\n In mezzo la pianura era una fonte\n s\u00ed piena d'acqua, che n'usciva un rivo,\n nel qual le ninfe si specchian la fronte.\n 100 E 'n mezzo la pianura, ch'io descrivo,\n era una quercia smisurata e grande\n e sempre verde quanto verde olivo;\n e li suo' rami in quella valle spande,\n li quai son tutti di rosso corallo,\n 105 ed ha zaffiri in loco delle giande.\n E tutto il fusto \u00e8 come un chiar cristallo,\n e sotto terra ha tutte sue radice,\n come si crede, del pi\u00fa fin metallo.\n Per farlo adorno e mostrarlo felice\n 110 vi cantan tra le fronde mille uccelli,\n e lodi di Diana ciascun dice.\n Sul verde prato tra' fioretti belli\n vidi migliaia di ninfe ire a spasso\n con le grillande in sui biondi capelli:\n 115 e per le coste gi\u00fa scendere abbasso\n fauni vidi e satiri e silvani,\n che alla festa al pian movean il passo.\n Dietro son bestie ed hanno visi umani;\n e son chiamati d\u00e8i di quelli monti\n 120 e di quegli alpi s\u00ed scogliosi e strani.\n E naide v'eran le d\u00e8e delle fonti,\n e driadi v'eran le d\u00e8e delle piante,\n che hanno i membri agli arbori congionti.\n Con le grillande vennon tutte quante\n 125 gi\u00fa nella valle a far festa a Diana;\n e poi che funno a lei venute avante,\n s'enginocchioron su la valle piana;\n e fengli offerta s\u00ed come a signora,\n e cantando dicean:--O dea sovrana,\n 130 benedetta sii tu in ciascun'ora,\n e benedetti li fonti e li boschi,\n dentro alli quai tua deit\u00e1 dimora.\n Le f\u00e8re venenose e c'hanno toschi\n non vengan nelli lochi dove stai,\n 135 n\u00e9 cosa, che dispiaccia, mai conoschi.\n Tu facesti smembrar con doglie e guai\n il trasmutato in cervio Atteone\n con la potenzia grande, che tu hai;\n ch\u00e9 delle ninfe le nude persone\n 140 corse a vedere tra le chiarite acque,\n bench\u00e9 fortuna ne fosse cagione.\n Ippolito gentil, quando a te piacque,\n tornar facesti in vita dalla morte\n con quelle membra, con le quali ei nacque.--\n 145 E quando ell'ebbon lor offerte p\u00f3rte,\n anco alle ninfe fenno riverenza,\n s\u00ed come a servi principal di corte.\n E dilungate dalla lor presenza\n tennono nella valle estremo loco,\n 150 come conviensi a lor bassa semenza.\n Gi\u00e1 era il tempo che la festa e 'l gioco\n far si dovea e Diana fe' segno\n a due sue ninfe, a lei distanti poco,\n che chiamasser Iunon dall'alto regno,\n 155 che scendesse alla festa omai a sua posta\n col coro delle ninfe alto e benegno.\n Come fa 'n cor colui, al qual \u00e8 imposta\n l'antifona per dir, che prima inchina,\n poi a cantar la voce tien disposta;\n 160 cos\u00ed f\u00ean quelle due a sua regina,\n che s'inchinonno prima al suo comando,\n poi, tenendo la faccia al ciel supina,\n encomincionno a dir cos\u00ed cantando.\nCAPITOLO V\nDell'avvenimento di Giunone invitata alla festa di Diana.\n --O regina del cielo, o alta Iuno,\n moglie e sorella del superno Iove,\n che l'aer rassereni e failo bruno,\n Diana prega te che venghi dove\n 5 ella fa festa e con le belle dame\n del nobil regno tuo qui ti ritrove.\n Il nostro dir, bench\u00e9 da lungi chiame,\n noi sappiam ben che l'odi dall'altezza\n del monte Olimpo, dov'\u00e8 il tuo reame.--\n 10 Queste parole con tanta dolcezza\n cant\u00f4n due ninfe, Pallia e Lisbena,\n ch'anco, quando il ricordo, io n'ho vaghezza.\n N\u00e9 mai cant\u00f2 s\u00ed ben la Filomena,\n n\u00e9 per addormentare in mar Ulisse\n 15 cant\u00f2 s\u00ed dolcemente la Sirena.\n Iuno, per dimostrar ch'ella l'udisse,\n mand\u00f2 un lustro e sin a lor discese\n come balen che subito venisse.\n Le ninfe di Diana inver'il paese,\n 20 onde venne quel lustro, stavan v\u00f2lte,\n con gli occhi rimirando e stando intese.\n Ed ecco come il raggio spesse volte\n pare una via, che 'nsino a terra cada\n fuor delle nubi, ove non son s\u00ed folte,\n 25 cos\u00ed da alto ingi\u00fa si fe' una strada\n dal loco, onde Iunon dovea venire,\n lucida e stesa insin quella contrada.\n Poi, come il chiaro Febo suol uscire\n fuori dell'orizzonte la mattina,\n 30 cos\u00ed vidi io per la strada apparire\n un nobil carro, e suso una regina\n con corona di stelle e s\u00ed splendente,\n come tra li mortal cosa divina.\n E quanto pi\u00fa e pi\u00fa ven\u00eda presente\n 35 agli occhi miei, tanto parea pi\u00fa adorno,\n maraviglioso il carro e pi\u00fa eccellente.\n E mille ninfe avea intorno intorno\n con corone di stelle in su la testa,\n lucenti al sole ancor nel mezzogiorno.\n 40 E d'oro e celestina avean la vesta,\n e cantando dic\u00eden:--Viva Iunone!--\n con suoni, balli, gioia e con gran festa.\n Il carro ad ogni rota avea un grifone,\n pappagalli e pavon con belle penne\n 45 intorno e sopra; e tre 'n ogni cantone.\n Poscia che 'l plaustro gi\u00fa nel pian pervenne,\n Diana il carro suo fe' venir anco,\n che gran bellezza ancora in s\u00e9 contenne,\n di drappi adorno e d'ogni uccello bianco:\n 50 mai vide Roma carro trionfante,\n quant'era questo bel, n\u00e9 vedr\u00e1 unquanco.\n Con pi\u00fa di mille ninfe a lei davante\n ella si mosse incontra a fare onore\n alla regina, moglie al gran Tonante.\n 55 E poich\u00e9 fu ballato ben due ore,\n le ninfe di Iunon l'altre invit\u00e2ro\n a voler concertar con lor valore,\n dicendo:--Acci\u00f2 che ben si mostri chiaro\n chi usa meglio l'arco o voi o noi,\n 60 se a voi piace, a noi anco sia caro.\n Di vostre ninfe due eleggete voi;\n e noi due altre; e chi trarr\u00e1 pi\u00fa dritto,\n da dea Iunon sia coronata poi.--\n Alle d\u00e8e piacque cos\u00ed fatto ditto;\n 65 e dea Diana una corona pose\n nell'aer alta a lor per segno fitto,\n fatta di fiori e pietre preziose.\n Per parte di Iunon, celeste dea,\n vennono due ardite e valorose.\n 70 Una fu Ursenna e l'altra fu Lippea,\n a me promessa, bella giovinetta;\n ma che foss'ella, io ancora nol sapea.\n A lei diede Iunone una saetta\n e l'arco eburneo bello ed inorato:\n 75 tanto era grata a lei e tanto accetta.\n A campo incontra usc\u00eer dall'altro lato\n Lisbena e Pallia; e queste due son quelle,\n che, 'nvitando Iunone, avean cantato.\n E patto f\u00ean tra lor quelle donzelle\n 80 di trar tre volte; e chi pi\u00fa ritto manda,\n d\u00e9' coronarsi le sue trecce belle.\n Pallia trasse prima alla grillanda,\n coll'arco dirizzando a lei lo strale;\n ma ello dechin\u00f2 a destra banda.\n 85 Poi trasse Ursenna; e fer\u00edo altrettale,\n s\u00ed che fu giudicato d'este due\n che fosse il colpo loro ognuno eguale.\n Lisbena a saettar la terza fue\n e die' s\u00ed ritto, che quasi toccata\n 90 fu la grillanda nelle frondi sue.\n Lippea trasse la quarta fiata\n e ritto tanto, che tocc\u00f2 una fronde,\n che cadde in terra dal colpo levata.\n Le sue compagne si fenno gioconde,\n 95 perch\u00e9 credetton che dentro passasse;\n ma spesso il fatto al creder non risponde.\n Pallia poi un'altra volta trasse,\n prima pregando la sua dea Diana\n che 'l dardo alla corona dirizzasse.\n 100 Ma la saetta tratta and\u00f2 lontana\n dalla grillanda forse quattro dita,\n s\u00ed che la prece e la spene fu vana.\n Lippea bella gi\u00e1 s'era ammannita,\n e, dopo lei, col suo duro arco scocca\n 105 una saetta leggiadra e polita.\n Da lei fu un poco la grillanda t\u00f3cca,\n non dalla punta, ma sol dalla penna,\n c'ha la saetta appresso della cocca.\n E, dopo questa poscia, trasse Ursenna,\n 110 Lisbena poi; e gi\u00e1 secondo il patto\n due volte ognuna avea tratto a vicenna.\n Ognuna ancora avea a fare un tratto;\n e Pallia pria, per aver la corona,\n v\u00f2lta a Diana con riverente atto\n 115 disse:--Se mai, o dea, la mia persona\n servito ha te con arco e con faretra,\n a questo colpo la grillanda dona.--\n Poscia a misura, come un geom\u00e8tra,\n nella corona s\u00ed forte percosse,\n 120 che ne fe' d'ella sbalzare una pietra.\n Nel centro avrebbe dato, se non fosse\n che Iuno in quella fe' venire un vento,\n che 'l dardo alquanto dal segno rimosse.\n Ursenna, lieta d'esto impedimento,\n 125 prese la mira per voler poi trare,\n col core e con lo sguardo ben attento.\n Non die' nel mezzo, ov'ella credea dare;\n ma la tocc\u00f2 e commossela alquanto,\n ma non per\u00f2 che la f\u00easse voltare.\n 130 Ora in due era omai rimaso il vanto\n della battaglia e della gran contesa;\n e queste eran pregate da ogni canto.\n --Fa', o Lisbena, che vinchi l'impresa\n e getta s\u00ed, che non abbiam vergogna,\n 135 con l'arco al segno e con la mente intesa.\n --Soccorri, o dea Diana, or che bisogna\n --disse Lisbena,--e se lo mio quadrello\n tu fai che dentro alla grillanda io pogna,\n offerta far\u00f2 a te d'un bianco agnello,\n 140 di bianchi gigli e bianchi fior coperto,\n e d'un bel cervio a Febo tuo fratello.\n Egli \u00e8 signor e dio e mastro esperto\n di trar con l'arco: egli fer\u00ed Fetonte,\n il quale un gran paese avea deserto.--\n 145 Lippea ancora al ciel con le man gionte\n a dio Cupido ins\u00fa alzava il volto,\n che stava meco ascosto a pi\u00e8 del monte.\n --Derizza il dardo mio, ti priego molto,\n o dio d'amor, s\u00ed come tu percoti\n 150 col dardo che nel cor a tanti \u00e8 c\u00f2lto.--\n Poich'ebbon fatti molti e grandi voti\n e che pregato avean con gran desire,\n mostrando gli atti e' sembianti devoti,\n trasse Lisbena, a cui tocc\u00f2 il ferire;\n 155 e 'l dardo dentro alla grillanda colse\n in un de' lati e torta la fe' gire.\n In quel che la corona si rivolse,\n gitt\u00f2 Lippea nella circonferenza;\n e 'l dardo trapassolla e l\u00ed si folse.\n 160 Ora tra lor comincia grande intenza,\n ch\u00e9 l'una e l'altra la grillanda vuole,\n credendo ognuna aver giusta sentenza;\n e diceano a Diana este parole.\nCAPITOLO VI\nDella caccia del cervo per la gara della ghirlanda\ntra Lisbena e Lippea.\n --O dea Diana, o figlia di Latona,\n discerna tua prudenza e tuo gran senno\n chi di noi due debbia aver la corona.--\n Diana, udito questo, fece cenno\n 5 che l'una e l'altra andasse a dea Iunone\n con riverenza; ed elle cos\u00ed fenno.\n Lisbena in pria, che crede aver ragione,\n umilemente abbassa le ginocchia;\n e mosse po' a Iunon questo sermone:\n 10 --O del gran Iove mogliera e sirocchia,\n mira l'onor della mia compagnia,\n mira se ho ragione, e bene adocchia.\n Io trassi alla corona alquanto pria;\n e poi Lippea; ma non trasse ad ora,\n 15 ch\u00e9 gi\u00e1 pel colpo ell'era fatta mia.--\n Lippea incontro a questo dicea ancora:\n --O alta Iuno, a cui il sommo impero\n ha dato Iove, e sei con lui signora,\n se ben si mira qui a quel ch'\u00e8 vero,\n 20 Lisbena e le compagne vedran forse\n che 'l colpo suo non fu ritto e sincero,\n che diede alla grillanda e s\u00ed la torse,\n perocch\u00e9 la tocc\u00f2e; ed io, in quel mentro\n ch'ella volt\u00f2e, la mia saetta porse\n 25 un poco dopo lei e ferii dentro,\n e con tanta misura al segno diedi,\n che la mia polsa and\u00f2 per mezzo il centro.\n Per\u00f2 ti prego pel carro ove siedi\n e per l'amor che porti all'alto Iove,\n 30 che la corona bella a me concedi.\n Se 'l priego mio, signora, non ti move,\n movati il sacro cor, che teco viene:\n che abbiam perduto non si dica altrove.--\n Iunon rispose:--A Diana appartiene\n 35 giudicar questo e che la pace pogna\n tra te e Lisbena; e cos\u00ed si conviene.--\n Diana a questo:--Ancor pugnar bisogna\n un'altra volta; e la qual parte vince,\n abbia l'onore, e l'altra la vergogna.\n 40 Un cervio sta non molto lontan quince\n con corni grandi, e 'l dosso ha tutto bianco,\n se non c'ha i pi\u00e8 macchiati come lince.\n Questo in la selva \u00e8 stato sempre franco,\n ch\u00e9 mai non lo lasciai morder dai cani,\n 45 n\u00e9 da persona mai ferire unquanco.\n Io mander\u00f2 miei fauni e miei silvani,\n che menin questo cervio su nel prato,\n e sia lasciato in mezzo a questi piani.\n E tu, o Lippea, li porrai da un lato\n 50 con le tue ninfe e con le tue compagne,\n con quante e quali e come a te sia grato.\n Lisbena ancor per piani e per montagne\n porr\u00e1 le ninfe mie dall'altra parte;\n e se addivien che il cervio tu guadagne,\n 55 piaccia a Iunon volere incoronarte.\n Ma se le ninfe mie vincon la caccia\n o per ingegno o per forza di Marte,\n anco Lisbena incoronar gli piaccia,\n non per lei tanto, ma per le sorelle,\n 60 che per vergogna stan con rossa faccia.--\n Le ninfe di Iunon gentili e belle\n si mostr\u00f4n d'accettar volonterose\n con arditi atti e con pronte favelle.\n Allor Diana a sei silvani impose\n 65 che menassero il cervio; ed ei men\u00f4llo\n su delle ripe e delle vie scogliose,\n con una fun legato intorno al collo;\n poi fu lasciato sciolto presso al fonte,\n ch'era sacrato alla suora d'Apollo.\n 70 --Su su, sorelle, circondate il monte\n --dicea Lippea,--e prendete la costa\n con archi e spiedi coll'acute ponte.\n Ognuna attenta sia nella sua posta:\n co' can correnti dietro alli cespogli,\n 75 come chi sta in aguato, stia nascosta.\n E tu, Tirena, va' 'ntorno a li scogli\n con cento ninfe: sai ch'io mi confido\n in tua virt\u00fa; per\u00f2 mostrar la vogli.\n S\u00ed come io accenno o col mio corno grido,\n 80 cos\u00ed con quelle cento mi soccorre,\n co' cani alani e col tuo arco fido.\n Perch\u00e9, se 'l cervio suso al monte corre,\n di l\u00e1 dall'altra valle non trapassi,\n lass\u00fa, Ipodria, tu ti vogli porre\n 85 e con ducento ninfe prendi i passi:\n con can mastini e con cani levrieri\n fa' che lo pigli e che passar nol lassi.\n Or ora essere accorte \u00e8 ben mestieri;\n acci\u00f2 che onore abbia la nostra dea,\n 90 mostriam la forza de' nostri archi fieri.--\n Non men Lisbena ancora disponea\n la schiera sua e facevala forte\n con modi e con parol, ch'ella dicea.\n --Sorelle, ora conviene essere accorte;\n 95 ora convien mostrar nostro valore;\n ch'altri che noi di caccia onor non porte.\n Ora si veder\u00e1 chi porta amore\n a dea Diana e se siete valente,\n s\u00ed che di questa caccia abbiamo onore.\n 100 O Lisna bella mia, va' prestamente\n sopra del monte e circonda la cima\n con cento ninfe: e state bene attente.\n Credo che 'l cervio l\u00ed correr\u00e1 prima:\n abbiate cani e spiedi, ch\u00e9 non varchi\n 105 di l\u00e1 dal monte verso la valle ima.\n Chi per la costa discorra cogli archi,\n chi di lanciotto e chi di duro spiedo,\n quando fia l'ora, la sua mano incarchi.\n Alconia, te per principal richiedo,\n 110 che stii con cento ninfe in su la piaggia;\n ch\u00e9 'l cervio l\u00ed verr\u00e1, s\u00ed come io credo.--\n Quando ordinata fu la schiera saggia,\n e fu ognuna nel loco che v\u00f2lse\n quella di Iuno e della dea selvaggia,\n 115 la bella Iris i gran cani sciolse\n d'intorno al cervio abbaianti e feroci;\n ed ei fugg\u00ed e ver' Diana volse.\n Le ninfe sue alz\u00f4n liete le voci,\n gridando fortemente:--Ad esso, ad esso\n 120 con le saette e coi passi veloci.--\n Le lor verrette scoccavano spesso;\n e 'l cervio corre e su lo monte sale;\n e dietro i can correndo vanno appresso.\n E poi che giunto fu nel piano equale,\n 125 passato arebbe il monte, se non fosse\n che Lisna bella gli die' d'uno strale.\n Allora quello addietro alquanto mosse,\n ed un fier can mastin gli prese il volto,\n e Marsa ninfa d'un dardo il percosse.\n 130 Per questo il cervio, alla man destra v\u00f2lto,\n ver' quelle di Iunon fece l'andata;\n e questo a Lisna bella increbbe molto.\n Ipodria bella, tutta rallegrata:\n --Fa'--disse,--o Iuno, che vinciam la festa;\n 135 d\u00e1' or questa vittoria a tua brigata.\n L'aspere ninfe della dea foresta\n non l'han saputo aver, ma s'\u00e8 fuggito:\n per\u00f2 \u00e8 degno che perdan l'inchiesta.--\n Quando quel cervio presso a lei fu ito,\n 140 d'un fiero dardo gli pass\u00f2 la spalla,\n tal che egli a terra cadde gi\u00fa ferito.\n Come che gente alcuna volta balla\n per la vittoria, che gi\u00e1 aver si spera,\n e poi si scorna se l'effetto falla;\n 145 cos\u00ed f\u00ean quelle, ch\u00e9 Lisbena, ch'era\n dall'altra parte, disse:--Abbi memoria,\n o dea Diana, della nostra schiera:\n fa' che le ninfe tue abbian la gloria\n di questa caccia, acci\u00f2 che non sia ditto\n 150 ch'altri che tu ne' boschi abbia vittoria.--\n Per questo il cervio si lev\u00f2 su ritto;\n ch\u00e9 quelle di Iunon non eran corse\n insino a lui, ma sol l'avean trafitto.\n Poi per la costa gi\u00fa correndo corse\n 155 per gire al fonte, che stava a rimpetto;\n ma Lisna, quando di questo s'accorse,\n un legno attravers\u00f2 'n un passo stretto\n l\u00e1 onde conven\u00eda ch'egli passasse;\n e quel correndo vi percosse il petto.\n 160 Lisbena in quello d'un dardo gli trasse\n nel fianco manco e pass\u00f2 l'altro canto,\n onde convenne che 'l cervio cascasse.\n L'aspere ninfe s'allegraron tanto,\n quanto si possa dir, ognuna certa\n 165 che d'aver vinto si potea dar vanto.\n Tagli\u00f4n la testa, e di bei fior coperta\n portavanla a Diana, e lei fe' segno\n che a dea Iunon ne facessero offerta.\n Ella accett\u00f2 con aspetto benegno:\n 170 Lippea e le compagne il volto basso\n tenean d'ira e di vergogna pregno,\n ch\u00e9 'l lor pensier era venuto in casso.\nCAPITOLO VII\nCome la ninfa Lippea fu coronata della ghirlanda,\nche avea vinta.\n Per questo Lippea bella \u00e8 disdegnosa;\n e perch\u00e9 vinta gli parea a ragione\n quella grillanda tanto preziosa,\n and\u00f2 piangendo all'alta dea Iunone,\n 5 dicendo a lei:--Perch\u00e9 le paraninfe,\n che vengon dietro a te, cos\u00ed abbandone?\n Queste silvestre e queste rozze ninfe\n di dea Diana, tra' boschi assuete\n e tra li scogli e valli e tra le linfe,\n 10 perch\u00e9 han vinto il cervo, stanno liete\n e stan superbe e fan di noi dispregio\n con beffe e riso e con parol secrete.\n Perch\u00e9 a me, che son del tuo collegio,\n la mia vinta corona mi si nega?\n 15 Io 'l dico per l'onor e non pel pregio.\n Se il pregio mio, regina, non ti piega,\n mover ti debbe la mia compagnia:\n vedi che ognuna per me te ne prega.--\n Iunon alquanto a ci\u00f2 sorrise pria,\n 20 e poi benigna a lei la man distese,\n dicendo:--Usar convien qui cortesia.\n Dacch\u00e9 Diana tien questo paese,\n e noi venimmo ad onorar sua festa,\n ben \u00e8 che 'nverso lei io sia cortese.\n 25 La tua vittoria a tutte \u00e8 manifesta,\n e tutte veggon ch'\u00e8 tua la grillanda\n e che l'emula tua perde la 'nchiesta.\n Ma va' a Diana ed a lei la domanda:\n cos\u00ed a me piace e voglio che si faccia\n 30 da te e dall'altra ci\u00f2 ch'ella comanda.--\n Allora and\u00f2 con reverente faccia\n e disse a lei:--O figlia di Latona,\n con reverenza io prego che ti piaccia\n che mi sia data la vinta corona;\n 35 tu sai, Diana, che secondo il patto\n debbe esser mia, e ragion me la dona.--\n La dea rispose a lei con benigno atto:\n --D'allora in qua, Lippea, bene ti v\u00f2lsi,\n che festi alla grillanda s\u00ed bel tratto.\n 40 Del cervio la vittoria io ti tolsi;\n quand'egli cadde, io gli rendei la lena,\n e su levato alle mie ninfe il volsi,\n ch\u00e9 di perder le vidi aver gran pena;\n ond'i', a piet\u00e1 commossa, alla lor parte\n 45 il feci andar a prego di Lisbena.\n N\u00e9 questo feci per ingiuriarte,\n ma perch\u00e9 scaccia invidia e serva amore\n sempre l'onor che insieme si comparte.--\n E poi la 'ncoron\u00f2 con grande onore\n 50 e nel carro la pose seco appresso,\n con la grillanda di tanto valore.\n Iunon, che stava non molto da cesso,\n diede a Lisbena un arco d'unicorno\n per premio della caccia a lei promesso,\n 55 tutto smaltato d'un bianc'osso eborno,\n e d'una pelle d'orso un bel carcasso\n fulcito tutto d'oro intorno intorno.\n Diana intanto il carro a passo a passo\n mosse verso Iunon; e, giunta a lei,\n 60 riverenza gli fe' col capo basso,\n dicendo:--O gran regina delli d\u00e8i,\n Lippea, che sta meco qui presente,\n tanto m'\u00e8 grata e piace agli occhi miei,\n che, se a te piace ed ella me 'l consente,\n 65 prego che facci che meco rimagna\n insino all'altra festa rivegnente\n e non sia grave a lei nostra montagna;\n ch\u00e9 meco la terr\u00f2 non come ancella,\n ma come mia carissima compagna.--\n 70 La dea assent\u00edo ed anche Lippea bella;\n e l'altre ninfe ne fenno allegrezza,\n mostrando ognuno insieme esser sorella.\n E tutto il loco s'emp\u00ed di dolcezza,\n di canti e balli su nel verde prato,\n 75 il quale ha ben sei miglia di larghezza.\n Cupido, ed io con lui, stava occultato;\n e dalle d\u00e8e s\u00ed poco er'io distante,\n ch'io intendea lor parlar da ogni lato,\n quando l'Amor mi disse:--Tutte quante\n 80 le ninfe hai viste; or, dimmi, qual tu vuoi?\n a qual ti piace pi\u00fa esser amante?--\n E detto questo, d'un de' dardi suoi\n d'oro ed acceso mi percosse il petto,\n e beffeggiando se ne rise poi.\n 85 Ed io a lui:--Il grato e bello aspetto\n della gentil Lippea tanto eccede,\n che nulla paion l'altre a lei rispetto.\n Ma perch\u00e9 non \u00e8 esperta, non s'avvede\n ch'io l'ami e che di lei m'abbi ferito,\n 90 e la mia pena occulta ella non crede.\n Per quella f\u00e9, con la qual t'ho seguito,\n ferisci ancora lei, perch\u00e9 s'avveggia\n quant'ha valore in s\u00e9 l'arco tuo ardito.--\n Cupido rise come chi beffeggia;\n 95 cos\u00ed ridendo da me dispar\u00edo\n s\u00ed come un'ombra o cosa che vaneggia.\n --Ove ne vai--diss'io,--o falso dio?\n perch\u00e9 mi lassi? Or veggio ben ch'\u00e8 folle\n chi pone in te speranza ovver desio.--\n 100 In questo, come mia fortuna volle,\n una schiera di cervi gi\u00fa emerse\n e discese nel pian suso dal colle.\n Le ninfe tutte per la valle sperse\n cursono a far la caccia per lo piano\n 105 per vari lochi e vie aspre e diverse.\n Lippea coll'arco bello, ch'avea in mano,\n segu\u00ed un cervio, ch'and\u00f2 verso il monte\n e pass\u00f2 a lato a me poco lontano.\n Sola soletta e con le voglie pronte\n 110 gli andava dietro su tra il bosco incolto,\n ferendo lui con le saette c\u00f3nte.\n Ed io, che stava l\u00ed in quel loco occolto,\n per ritrovarla dietro a lei mi mossi,\n e tra le frondi del boschetto folto\n 115 due miglia o quasi cred'io andato fossi,\n ch'io la trovai, e la fiera avea morta,\n in prima dato a lei mille percossi.\n E quand'ella di me si fo accorta,\n lass\u00f2 il cervio e misesi a fuggire\n 120 su verso il monte timidetta e smorta.\n E dietro a lei io comincia' a dire:\n --O ninfa bella, io prego, alquanto ascolta,\n prego che mie parole vogli udire.--\n Come il cacciato cervio si rivolta\n 125 sol per veder se il seguitan li cani,\n cos\u00ed ella facea alcuna volta.\n E poi fugg\u00eda tra quelli boschi strani,\n ed io segu\u00edala tra le acute spine,\n che mi strappavan le gambe e le mani.\n 130 --Perch\u00e9 fuggendo s\u00ed ratto cammine?--\n diceva io a lei.--Io prego che ti guardi\n che tra li boschi e scogli non ruine.\n Deh! perch\u00e9 non ti volti e non mi sguardi?\n Di te ferito m'ha, o cara gioia,\n 135 il falso Amor co' suoi orati dardi.\n Se tu non m'hai piet\u00e1, non ti sia noia\n almen ch'io t'ami; e questo sol domando,\n se tu non vuoi ch'io manchi ovver ch'io muoia.\n Io prego il sacro Amor ch'io veggia il quando\n 140 ferisca te e costrengati tanto,\n che sii, com'io, soggetta al suo comando.--\n Quand'ella questo ud\u00ed, si volse alquanto\n e disse, v\u00f2lta a me, alzando il grido:\n --Mai si potr\u00e1 Amor di me dar vanto.\n 145 Tutta la forza del crudel Cupido\n metto a dispetto e le saette e 'l foco,\n ed anco alla battaglia io lo disfido\n ch'egli abbia possa a innamorarmi un poco,\n e del vano arco, il qual portare egli usa,\n 150 secura io me ne vo in ogni loco.\n Il petto mio trasmutato ha Medusa\n contro l'Amor in sasso e 'n dura pietra,\n ed a piacergli ha ogni porta chiusa,\n s\u00ed che suoi dardi e sua vile faretra\n 155 niente curo; e bench'egli mi fera,\n il colpo suo mia carne non pen\u00e8tra.--\n E perch\u00e9 ogni ninfa \u00e8 pi\u00fa leggera\n assai che l'uomo, da me dipartisse,\n correndo come veltro ovver pantera,\n 160 e 'nsin che fu a Diana, non s'affisse.\nCAPITOLO VIII\nCome Cupido, irato con la ninfa Lippea, la fer\u00ed d'una saetta d'oro.\n Io era solo e scornato rimaso,\n quando scontrai in quella via smarrita\n Cupido, come andasse quindi a caso.\n E disse a me:--Lippea ov'\u00e8 fuggita,\n 5 che m'ha sfidato e mette me a dispetto?\n Ma converr\u00e1 che da me sia punita,\n ch'io gli trapasser\u00f2 il core e il petto\n con un acceso dardo delli miei;\n e farla a te soggetta io ti prometto.\n 10 Io, che ho domato Iove ed altri d\u00e8i\n con la potenza della mia saetta,\n non vincer\u00f2, non domer\u00f2 costei?--\n Quando egli disse voler far vendetta,\n pensa, lettore, s'io mi feci lieto,\n 15 da che affermava a me farla soggetta.\n Egli si mosse, ed io gli andai dirieto;\n e sempre per la costa and\u00f2 all'ingi\u00fae\n tra 'l duro bosco e l'aspero spineto.\n Quando presso alla valle giunto fue,\n 20 vidi io Lippea che guidava il ballo\n 'nanti alle d\u00e8e con le compagne sue.\n L'arco suo dur, che mai ferisce in fallo,\n prese Cupido, e d'uno stral gli diede\n a venti braccia forse d'intervallo\n 25 sol nelli panni e gi\u00fa appresso il piede;\n ch\u00e9 se a lor desse in petto o molto forte,\n s\u00ed come a' viri ed agli d\u00e8i e' fiede,\n perch\u00e9 ad amar le ninfe non son scorte,\n pel grande incendio del sacrato foco\n 30 verrebbon meno e caderebbon morte.\n Il caldo cominci\u00f2 a poco a poco\n passargli al cor con l'infocato dardo;\n e gi\u00e1 ferita non trovava loco.\n Lippea allora a me alz\u00f2 lo sguardo\n 35 e con gli occhi mirommi, con li quali\n tanto m'accese il cor, ch'ancora io ardo.\n L'Amor, movendo poi le splendide ali,\n per man menommi insino alla fontana,\n menacciando anco con suoi duri strali.\n 40 Di me s'avvide allora dea Diana\n e disse irata e con acerbo volto:\n --Or che fa qui quella persona strana?--\n Lo dio Cupido meco s'era folto,\n ma non veduto; ch'egli alla sua posta\n 45 si pu\u00f2 manifestare e farsi occolto.\n Egli mi disse:--Fa', fa' la risposta.--\n Onde io andai, e riverente e chino\n mi posi al carro suo appresso e a costa.\n E dissi a lei:--Mio caso e mio destino,\n 50 o dea, m'ha qui condotto nel tuo regno\n per uno errante ed aspero cammino.\n Forse Dio il fe' che alla tua festa vegno:\n per lui ti prego, o alma dea selvaggia,\n che non mi scacci e che non m'abbi a sdegno.\n 55 E prego te che una grazia io aggia:\n che come starvi Ippolito a te piacque,\n cos\u00ed possa io tra questa turba gaggia.--\n E come chi consente, ella si tacque:\n cos\u00ed sospeso e dubbioso rimasi\n 60 e tornai a Cupido presso all'acque.\n Il carro della dea ben venti pasi\n dal fonte, a mio parere, era distante,\n e 'l sol calato all'orizzonte o quasi,\n quando con vergognoso e bel sembiante\n 65 venne Lippea inverso il fiumicello,\n ond'io andai dicendo a lei davante:\n --O ninfa mia gentil col viso bello,\n deh! non t'incresca e non aver temenza\n se io, che tanto t'amo, ti favello.\n 70 Perch\u00e9 pur fuggi e pur fai resistenza\n a quell'Amor, ch'anco li d\u00e8i percote\n con le saette della sua potenza?--\n S\u00ed come onesta donna, che non puote\n soffrir lascivo sguardo, sottomette\n 75 e abbassa gli occhi e fa rosse le gote:\n cos\u00ed fece ella alle parole dette,\n che abbass\u00f2 il viso e divent\u00f2 vermiglia\n e lagrim\u00f2 e le parol tacette.\n --Mostra i zaffiri, c'hai sotto le ciglia\n 80 --dissi,--o Lippea, ed alza s\u00fa la vista,\n che alle d\u00e8e del ciel si rassomiglia.--\n Sfogando il pianto:--Oim\u00e8, misera, trista!\n Oim\u00e8!--diss'ella.--Io ho tanto tormento:\n Amor non vuol che a lui io pi\u00fa resista.\n 85 Se mai il dispettai, io me ne pento;\n se mai il gran Cupido io ebbi a vile,\n dico \u00abmia colpa\u00bb e dico \u00abme ne mento\u00bb.\n Con la potenza dell'orato astile\n di mie parole folli ora mi paga\n 90 e col foco, che al cor va s\u00ed sottile.\n Ma io il prego o che il dardo ritraga,\n che m'ha ferito il cor, o che mi uccida,\n s\u00ed che la morte risani la piaga.--\n Ed io a lei:--Cupido fu mia guida\n 95 insino a te, ed egli mi promise\n donarti a me con sua parola fida.--\n Udito questo, il viso sottomise;\n poi disse sospirando e con vergogna:\n --Perch\u00e9, quando fer\u00ed, e' non mi uccise?\n 100 --Da che egli vuole, e questo esser bisogna\n --diss'io a lei,--io prego che mi dichi\n se tu se' mia, e non mi dir menzogna.--\n Come la sposa, cui pudor fatichi,\n cos\u00ed un \u00abs\u00ed\u00bb de' labbri gli usc\u00ed fuore\n 105 pur con vergogna e con atti pudichi.\n Il viso bianco di smorto colore\n prima dipinse e poscia si fe' rosso\n de' due color, che fuor dimostra Amore.\n Poi disse:--Oim\u00e8, oim\u00e8 che pi\u00fa non posso\n 110 celar l'amor!--E questo ella dicendo,\n cadea, se non che io gli tenni il dosso.\n Soggiunse poi:--Amor, a te mi rendo:\n non trova l'arco tuo difesa o scudo;\n per\u00f2 invan contra te mi difendo.--\n 115 Poi disse a me:--O amoroso drudo,\n io prego te, da che Amor mi ti dona,\n che contra me non sie cotanto crudo,\n che tu mi lievi la bella corona,\n che io porto in testa e la qual io mi vinsi,\n 120 e che mai non mi lasci per persona.--\n Io gliel promisi e per fede gli strinsi\n la bianca mano e con le braccia stese\n il capo bianco e 'l collo ancor gli avvinsi.\n Contro l'amor non fe' poi pi\u00fa difese\n 125 la bella ninfa e mostrossi sicura,\n pur con vergogna ed onest\u00e1 cortese.\n Cercando andammo per quella pianura,\n e poi salimmo ad alto suso al monte,\n in tanto che la notte si fe' oscura.\n 130 Era gi\u00e1 Febo sotto l'orizzonte\n ben venti gradi, ed ella mi condusse\n in un bel prato, ov'era un bello fonte.\n Ed in quel loco tanto vi rilusse\n la chiara luna, che per quella valle\n 135 ogni fiore io vedea qual e' si fusse.\n Di fiori e di viol vermiglie e gialle\n la bella ninfa tutto mi copr\u00edo;\n e poi sul prato mi posai le spalle.\n E quando all'oriente in pria appar\u00edo\n 140 il chiaro sol, trovai che n'era andata,\n e posto un sasso scritto al capo mio,\n nel qual dicea: \u00abSappi ch'io son tornata\n a dea Iunone, alla regina mia;\n che colle mie compagne io sia trovata.\n 145 Tu sai che dea Iunone, andando via,\n di lassarmi a Diana ell'ha promesso\n che con lei io rimanga in compagnia.\n In questo tempo che star m'\u00e8 concesso,\n staremo ed anderem come a noi piace,\n 150 cercando e boschi e balzi e scogli spesso.\n Fatti con Dio e tieni occulto e tace;\n e prego che a vedermi torni tosto,\n ch\u00e9 solo in veder te 'l mio core ha pace\u00bb.\n Oh lasso! a Invidia nulla \u00e8 mai nascosto,\n 155 c'ha mille orecchie la malvagia e rea,\n e l'occhio suo in mille lochi \u00e8 posto.\n Questa n'and\u00f2 all'una e all'altra dea,\n dicendo:--Or non sapete ch'una dama\n qui delle vostre, chiamata Lippea,\n 160 il giovinetto qui venuto ell'ama\n col core e coll'amor tanto fervente,\n che sol per lui di rimaner ha brama?--\n E, detto questo, spar\u00ed prestamente.\nCAPITOLO IX\nCome la ninfa Lippea si duole che le convien partire.\n Letto ch'io ebbi ci\u00f2 che nel sasso era,\n io mi partii e dentro uno spineto\n mi posi a stare ascoso insino a sera,\n acci\u00f2 che il nostro amor fosse segreto.\n 5 Presso all'occaso ed io scendea la costa\n e per veder Lippea andava lieto.\n Ed una driada disse:--Fa', fa' sosta--\n forte gridando, ond'io maravigliai\n e 'nsin che giunse a me, non fei risposta.\n 10 Quando fu a me, ed io la domandai.\n --Non sai--rispose--ci\u00f2 ch'\u00e8 intervenuto,\n e Lippea quanti per te sostien guai?\n L'amor tra te e lei stato \u00e8 saputo,\n e conven che si parta: oh s\u00e9 infelice,\n 15 ch\u00e9 contra questo nullo trova aiuto!\n Io son sua driada e gi\u00e1 fui sua nutrice:\n l'amor, che porta a te, m'ha rivelato,\n ed ogni suo segreto ella mi dice.\n Se saper vuoi il fatto come \u00e8 stato,\n 20 la Invidia, che sempre il mal rapporta,\n che mille ha orecchie ed occhi in ogni lato,\n disse a Iunone:--Or non ti se' tu accorta\n che Lippea ama il vago giovinetto,\n che venne qui e tanto amor gli porta?--\n 25 Poscia spar\u00edo, quando questo ebbe detto\n la rea, che ha mille occhi e tutto vede\n e mille orecchie e tosco ha dentro al petto.\n Ah Invidia iniqua, quanto a te si crede!\n e perci\u00f2 volentier tu se' udita,\n 30 perch\u00e9 troppo al mal dir si dona fede.\n A Lippea detto fu che ammannita\n stesse ad andarne nel seguente giorno,\n quando Iunon volea far sua partita.\n Pel gran dolor e per lo grave scorno\n 35 d'amaro pianto si bagn\u00f2 le gote,\n e smorto divent\u00f2 suo viso adorno.\n E per non far di fuor le fiamme note,\n che Amor le aveva acceso dentro al core\n coll'arco dur, che mai invan percote,\n 40 pigliava scusa pianger per l'amore,\n ch'ella portava alla Diana dea\n e alle sue ninfe come a care suore.\n --Sorelle mie--dicea,--perch\u00e9 credea\n rimanermi con voi, per\u00f2 'l cuor piagne\n 45 che dipartir mi fa la 'Nvidia rea.\n E non sar\u00e1 che mai 'l mio pianto stagne:\n tanto \u00e8 l'amor, oh lassa me tapina,\n ch'io conceputo ho qui, o mie compagne.--\n Poscia and\u00f2 a Iuno e disse:--O mia regina,\n 50 per darmi infamia e darmi vitupero,\n l'Invidia con sua lingua serpentina\n detto ha cos\u00ed; ma s'ella dice il vero,\n io cada morta, o s'io assento all'arme\n di dio Cupido o mai n'ebbi pensiero.\n 55 Quando deliberasti, o dea, lassarme,\n concepii amore a tutte, ed or mi dole\n se io le lascio e altrove puoi menarme.--\n Iunon rispose a lei brevi parole:\n --Voglio che vegni e, quando il carro parte\n 60 crai, sii la prima sul levar del sole.--\n Poscia che mille lacrime ebbe sparte,\n dicea fra s\u00e9 dolente ed angosciosa:\n --Come far\u00f2? oim\u00e8! 'l cor mio si sparte.--\n Come va 'l cervio, a cui gi\u00e1 venenosa\n 65 \u00e8 giunta la saetta, e move il corso\n or qua or l\u00e1, e insin che muor non posa:\n cos\u00ed ed ella per aver soccorso\n giva ad ognuna, e poscia lacrimando\n deliber\u00f2 a Diana aver ricorso.\n 70 E disse:--O dea, tu facesti il domando\n ch'io rimanessi, e Iuno fu contenta;\n ed io anche assentii per suo comando.\n Ed ora pare a me ch'ella si penta,\n non so perch\u00e9: e se fia mia partenza,\n 75 convien che gran dolor mio cor ne senta,\n perch\u00e9 tu, dea, a me benivoglienza\n hai dimostrata, e Pallia e Lisbena\n e l'altre, con ch'i' ho fatto permanenza.\n Per\u00f2 partir da loro a me \u00e8 gran pena,\n 80 ch'io amo ognuna come mia sorella,\n e sopra tutte te, o dea serena.\n Per\u00f2, ti prego, alquanto tu favella\n a dea Iunon ch'io stia sino alla festa,\n che ogni anno, come sai, si rinovella.--\n 85 Rispose a lei Diana:--Manifesta\n tu fai te stessa: or sappi che colei,\n di cui \u00e8 sospetto, non \u00e8 ben onesta.\n Vanne con la signora delli d\u00e8i;\n ch\u00e9 s'ella mi dicesse ch'io v'andassi,\n 90 s\u00ed come a Iove, a lei ubbidirei.--\n Per la vergogna tenne gli occhi bassi\n la misera e pensava tutt'i modi\n per rimanere e che nessun ne lassi.\n O Amor folle, che s\u00ed forte annodi\n 95 l'amante con l'amato e s\u00ed li leghi,\n che dentro consumando li corrodi!\n Quando si vide non valer li prieghi,\n giva ansiando come fa la cagna,\n a cui veder li suoi figliuol si neghi.\n 100 E lasci\u00f2 tutte e sol me per compagna\n seco men\u00f2e; e salse tanto ad erto,\n ch'ella pervenne in una gran montagna.\n Alquanto andammo l\u00ed per un deserto:\n alfin venimmo in quel prato fiorito,\n 105 ov'ella te di fiori avea coperto.\n Ella gittossi dov'eri dormito;\n e cominci\u00f2 a dir con pianto amaro:\n --O dolce sposo mio, dove se' ito?\n dove se' ora, o mio amico caro?\n 110 Oh ti vedessi 'nanti ch'io mi parta,\n da che contra il partir non ho riparo!--\n Poi ch'ebbe pianto l\u00ed ben una quarta\n d'una gross'ora, su in un sasso scrisse\n col dardo suo, come chi scrive in carta.\n 115 E l\u00ed lo pose e poi indi partisse;\n e per veder te, credo, mille volte\n gi\u00fa per la piaggia mirando s'affisse.\n Iunon le ninfe sue avea raccolte,\n e perch\u00e9 Lippea sola v'era manco,\n 120 mandat'avea a trovarla ninfe molte.\n La piaggia tutta non avea scesa anco,\n che fu trovata e menata a Iunone\n coll'animo ansioso e tanto stanco.\n Non valse a dir che sdegno era cagione\n 125 del suo assentarsi, che creso era pi\u00fae\n a Invidia il falso, ch'a lei 'l ver sermone,\n che non la f\u00easse dalle ninfe sue\n battere prima, e poscia l'ha mandata\n stretta e legata al monte Olimpo in s\u00fae.\n 130 Nel suo partir m'impose esta ambasciata,\n la qual t'ho detta; e disse:--Dilli quanto\n da lui mi parto afflitta e sconsolata.--\n Tanto negli occhi m'abbondava il pianto,\n quando la driada questo mi proferse,\n 135 che non risposi per lo pianger tanto.\n Ma per le vie tant'aspere e perverse\n con lei andai insino alla pianura,\n ove Lippea di be' fior mi coperse.\n E ratto corsi a legger la scrittura,\n 140 la quale avea scolpita su nel sasso,\n quand'ella fece la partenza dura.\n Ella dicea: \u00abPerduto ho il bello spasso,\n ch'io avea, vedendo te, o dolce drudo:\n partir conviemmi, ed io il mio cor ti lasso.\n 145 Troppo Cupido a me \u00e8 stato crudo:\n egli, ch'io non ti veggia, t'ha nascoso,\n e di te m'ha ferito a petto nudo.\n F\u00e1tti con Dio, o mio primaio sposo\n ed ultimo anco: oim\u00e8, che non ho spene\n 150 di rivederti mai, n\u00e9 aver riposo!\n Ch\u00e9 quel reame, che Iunon si tiene,\n \u00e8 alto tanto e posto s\u00ed lontano,\n che mai nessun mortal tanto su vene\u00bb.\n Letto ch'io ebbi quel tra me pian piano,\n 155 volsi alla driada il lacrimoso volto,\n il qual io mi percossi con la mano,\n dicendo:--Il mio conforto chi l'ha tolto?\n Or dove se', Lippea ninfa mia?\n O dolce amore, in quanto duol se' v\u00f2lto!\n 160 Driada, dimmi se c'\u00e8 modo o via\n o che io la giunga, o s'egli c'\u00e8 speranza\n ch'io venga ove Iunone ha signoria.\n --Il correr delle ninfe ogni altro avanza\n --rispose quella;--e 'l regno di dea Iuno\n 165 \u00e8 tanto ad alto ed ha s\u00ed gran distanza,\n che non vi puote andar mortale alcuno.--\n Cos\u00ed mi disse e poi si mosse a corsa,\n d'ogni sperar lasciandomi digiuno,\n e se n'and\u00f2 correndo pi\u00fa che un'orsa.\nCAPITOLO X\nNel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere con l'autore,\na cui da Venere vien promessa la ninfa Ilbina.\n Oh Speranza vivace e sempre verde!\n Se ogni cosa all'uom toglie fortuna,\n ella sempre rimane e mai si perde.\n Questa soletto al lume della luna\n 5 mi mise tra li boschi e tra li rovi\n con gran fatica e senza posa alcuna.\n Dicea fra me:--Ben converr\u00e1 ch'io provi\n ogni mio ingegno e cerchi ogni paese,\n che Lippea bella mia ninfa ritrovi.--\n 10 E gi\u00e1 cercando er'ito ben un mese\n per l'aspro bosco e per la selva amara,\n quando Cupido a me si fe' palese.\n E come quando Febo si rischiara,\n perch\u00e9 la nube grossa s'assuttiglia,\n 15 che prima ostava alla sua faccia chiara;\n cos\u00ed una luce splendida e vermiglia\n mi die' nel volto; e, mentre l'occhio innalzo,\n per veder meglio aguzzando le ciglia,\n io vidi lui, che stava su in un balzo\n 20 e disse a me:--Ric\u00f2rdati che tue\n gi\u00e1 tante volte m'hai chiamato falzo.\n Per\u00f2 t'ho tolto l'allegrezze tue;\n ma io prometto a te di ristorarte,\n se falso e traditor non mi di' pi\u00fae.\n 25 Ma sappi prima che forza n\u00e9 arte\n al regno di Iunon giammai perviene:\n tant'ello dalla terra si disparte;\n ch\u00e9 'l regno, il quale Saturnia mantiene,\n \u00e8 posto in aere su nel freddo loco,\n 30 onde la pioggia e la grandine viene.\n L\u00ed non riscalda la spera del foco,\n che non riscalda in gi\u00fa tanto da cesso,\n n\u00e9 anco il sol niente o molto poco;\n ch\u00e9 'l raggio del gran Febo in gi\u00fa riflesso\n 35 non riscalda da lungi o molto oblico,\n ma ben dappresso \u00e8 riflesso in se stesso.\n E quando a questo loco, ch'io ti dico,\n il vapor di quaggi\u00fa salendo giugne,\n ratto che sente il freddo a s\u00e9 nemico,\n 40 in s\u00e9 si strigne ed in s\u00e9 si congiugne\n e fassi nube; e, quand'egli \u00e8 costretto,\n si fa la pioggia, perch\u00e9 l'acqua smugne.\n Ma nella state quel vapor, che ho detto,\n ha molto in s\u00e9 del terrestro vapore\n 45 sulfureo e secco e d'ogni umido netto.\n E questo, quando sente l'umidore,\n s\u00ed come fa all'acqua la calcina,\n s'accende, e con gran rabbia n'esce fuore\n quindi il baleno e 'l tuon con gran ruina.\n 50 E di questo vapor Vulcano a Iove\n fa tre saette nella sua fucina.\n Che se ben miri quanto \u00e8 pi\u00fa forte ove\n sta sulfurea fiamma inclusa ed arda,\n tanto pi\u00fa furiosa ella si move,\n 55 s\u00ed come apparir pu\u00f2 nella bombarda,\n ch\u00e9 poca fiamma accesa tanto vale,\n che tuona e rompe ed esce fuor gagliarda;\n perch\u00e9 la state vieppi\u00fa alto sale\n del chiaro Febo il suo riflesso raggio,\n 60 e risal meno obliquo e pi\u00fa eguale.\n Per\u00f2 questo vapor, che pria dett'aggio,\n conven che 'l sole il lieve in pi\u00fa altura\n a farlo nube in pi\u00fa alto viaggio.\n Ov'ei trova adunata pi\u00fa freddura,\n 65 ivi si stringe, e l'acqua da lui scossa\n grandine fassi: s\u00ed 'l ghiaccio la 'ndura.\n Ma, perch\u00e9 nell'inverno non ha possa\n il sol, che tanto ins\u00fa il vapor lieve,\n 'nanti ch'assai ins\u00fa faccia sua mossa,\n 70 ancor non fatto nube si fa neve;\n e raro e sperso fatto ghiaccio cade,\n come bambace in terra, lieve lieve.\n A cos\u00ed alte e s\u00ed fredde contrade\n da che salir non puoi, qui a te venni,\n 75 ch\u00e9 di tanta fatica io t'ho pietade.--\n E, detto questo, con parole e cenni\n mi fece scender gi\u00fa per una scheggia;\n e, quando in un bel prato gi\u00fa pervenni,\n io vidi ninfe; e ci\u00f2, ch'occhio vagheggia\n 80 mai di bellezza, risplendeva in loro:\n tanto ognuna era bella e tanto egreggia.\n Parean venute dal superno coro\n quaggi\u00fa nel mondo, creatur celeste\n use con Iove in l'alto concistoro.\n 85 Quando mi viddon, fugg\u00eer ratte e preste\n alquanto a lungi e poi volt\u00f4n lor volti,\n me risguardando tacite e modeste.\n --Io prego--dissi--che da voi si ascolti\n di questa mia venuta la cagione,\n 90 che m'ha condutto in questi boschi incolti.\n Cercando vo il regno di Iunone:\n da che fortuna m'ha condutto a voi,\n prego vostra piet\u00e1 non m'abbandone.\n --Al regno di Iunone andar non puoi\n 95 --mi rispose una,--ch\u00e9 s\u00ed in alto \u00e8 posto,\n che montar non potresti insino a loi.--\n E quando questo a me ebbon risposto,\n pass\u00e2ro un monte e s\u00ed ratto fugg\u00eero,\n che appena il vento si movea s\u00ed tosto.\n 100 Ed io dirieto a lor, con gran suspiro,\n presi la costa e salsi il monte ratto;\n e quando gi\u00fa nell'altra valle miro,\n io vidi l'arco di Iunon l\u00ed fatto\n ed alto in aere, il qual per segno diede\n 105 Dio a No\u00e8, con lui facendo il Patto.\n E come re ovver regina siede\n nell'alto tron, cos\u00ed su quel si pose\n Venus vestita d'\u00f2r da capo a piede,\n con la corona di mirto e di rose,\n 110 con lieta faccia ed aspetto s\u00ed bello,\n pi\u00fa che mai d\u00e8e ovver novelle spose.\n Cupido allor volar come un uccello\n vidi per l'aere; e credo s\u00ed veloce\n Cillen non corse mai, n\u00e9 tanto snello.\n 115 Venus mi disse in questo ad alta voce:\n --O giovin, c'hai montata ins\u00fa la costa,\n spronato dall'amor caldo e feroce,\n la bella ninfa, che a te fe' risposta,\n da me e dal mio figlio a te \u00e8 sortita,\n 120 che l'abbi a tuo voler ed a tua posta.\n Fa' che tu passi qua, dov'\u00e8 fuggita\n nell'altra valle, e tanto l\u00ed rimagne,\n che da Cupido per te sia ferita.--\n Per questo io trapassai l'aspre montagne,\n 125 tanto ch'io la trovai nell'altro piano,\n che stava a coglier fior con le compagne.\n Cupido l\u00ed non molto da lontano\n di quella bella ninfa mi fer\u00edo\n d'una saetta d'oro, ch'avea in mano.\n 130 Per\u00f2 io con ingegno e con desio\n m'appressa' a loro e dissi:--O ninfe belle,\n in questo loco s\u00ed silvestre e rio\n per consigliarmi alcuna mi favelle:\n deh! non v'incresca che alquanto qui stia,\n 135 stancato tra le selve amare e felle.--\n La ninfa, che risposto m'avea pria:\n --O giovin--disse,--non abbiam temenza,\n n\u00e9 anco incresce a noi tua compagnia.\n Ma noi Minerva, dea di sapienza,\n 140 aspettiam qui; e da noi qui s'aspetta\n con lo gran carro della sua eccellenza;\n ch\u00e9 qui tra noi \u00e8 una giovinetta,\n che vuoi menare al suo regno felice,\n la qual tra le sue ninfe ha per s\u00e9 eletta;\n 145 e non sappiam di qual di noi si dice.\n Noi non voramo, quando ella discende,\n che alcun uomo con noi trovasse quice.\n Per quella cortesia, che 'n te risplende,\n ti prego che di qui ti parti alquanto,\n 150 ch\u00e9 tua presenza sospette ne rende.\n --O ninfa, veder te m'\u00e8 grato tanto\n --risposi a lei--e tanto a te mi lego,\n che io non posso andar in alcun canto.\n Ma io a me stesso la mia voglia niego\n 155 contra mia voglia ed al partire assento,\n da che ti piace: tanto pu\u00f2 'l tuo priego.\n E, da che io mi parto con tormento,\n dimmi chi se'; e quando qui ritorno,\n prego, del tuo parlar fammi contento.--\n 160 Per la vergogna arrosci\u00f2 il viso adorno,\n e ch'io non fossi udito ella temea:\n per\u00f2 ella mirava intorno intorno.\n Poscia rispose:--Io nacqui gi\u00e1 'n Alfea,\n Ilbina ho nome e tra li duri scogli\n 165 vo seguitando la selvaggia dea.\n Pi\u00fa non ti dico: omai partir ti vogli.--\nCAPITOLO XI\nCome la dea Minerva discese e seco men\u00f2 Ilbina ninfa.\n Io me n'andai in un boschetto alpestro,\n distante a quelle ninfe, a mio parere,\n ben quasi una gettata di balestro,\n s\u00ed ch'io poteva udire e ben vedere\n 5 tutti lor atti e tutte lor parole,\n ed aspettando mi stava a sedere.\n Ed ecco, come quando il chiaro sole\n tra le men folte nubi sparge il raggio,\n che quasi strada in cielo apparir s\u00f2le,\n 10 cos\u00ed da cielo ingi\u00fa si fe' un viaggio;\n e la via lattea, che pel caldo s'arse,\n pi\u00fa che quella in splendor non ha vantaggio.\n Le ninfe tutte alla strada volt\u00e2rse;\n e come quando rischiara l'aurora,\n 15 cos\u00ed lucente in cielo un carro apparse.\n E poco stando io vidi una signora\n splendente quanto il sol su la mattina,\n quando dell'orizzonte egli esce f\u00f2ra,\n incoronata come la regina,\n 20 che venne a Salomon dal loco d'Austro\n per udire e saper la sua dottrina.\n Quando pi\u00fa presso ingi\u00fa si fece il plaustro,\n lo scudo cristallin gli vidi in mano,\n lucente quanto al sol nullo alabastro.\n 25 Ed era s\u00ed scolpito e s\u00ed sovrano,\n che tanto adorno nol fece ad Achille,\n per preghi della madre, dio Vulcano.\n Appresso al carro stavan le sue ancille,\n inclite ninfe, intorno a coro a coro,\n 30 ed ogni coro in s\u00e9 n'ha pi\u00fa di mille.\n Non ebbe pi\u00fa splendor, n\u00e9 pi\u00fa lavoro\n il carro, a cui Fet\u00f2n lasci\u00f2 lo freno,\n quando trasse i corsier dal cammin loro.\n Vedendo lo splendor tanto sereno,\n 35 l'alpestre ninfe stavan ginocchioni\n con reverenza sul basso terreno.\n Quando discesa fu con canti e suoni\n la dea Minerva e che fu posto fine\n a tanti balli ed a tante canzoni,\n 40 le ninfe alpestre riverenti e chine\n dissono:--O dea, qual vorrai che vegna\n di noi e che al tuo regno al ciel cammine?--\n Rispose ella:--Di voi ognuna \u00e8 degna;\n ma ora eleggo Ilbina e voglio questa,\n 45 che venga meco ove da me si regna.--\n E, detto questo, con canti e con festa\n la coron\u00f2 d'alloro e poi d'uliva,\n e di fin \u00f2r gli fe' vestir la vesta.\n Poi per la strada, che da ciel deriva,\n 50 la men\u00f2 seco pel cammin ad erto,\n forte a salire ad uom mortal, che viva.\n Io, che m'era occultato in quel deserto\n tra dure spine e pungenti cespogli,\n il viso alzai di lacrime coperto.\n 55 --Perch\u00e9, o Palla, Ilbina mia mi togli?\n --dissi piangendo;--e perch\u00e9 a questa volta\n d'Ilbina, o dio Cupido, ancor m'addogli?--\n E fuora uscii e con fatica molta\n per la celeste strada ins\u00fa mi mossi\n 60 dietro alla ninfa, la qual m'era tolta.\n E ben un miglio cred'io andato fossi,\n che la dea Venus si chin\u00f2 a pietade:\n tanto con li miei preghi io la commossi.\n Nell'aere apparse con grande beltade;\n 65 poi scese al carro con faccia proterva,\n il qual saliva le splendenti strade.\n --Non senza gran cagione, o dea Minerva\n --disse Venus,--io vengo tra la schiera,\n che segue te e tuo comando osserva,\n 70 ch\u00e9 insino al cielo, ove il gran Iove impera,\n d'un vago giovinetto \u00e8 giunto il grido,\n che sempre ha 'n me sperato e sempre spera.\n Ed io ed anche il mio figliuol Cupido\n una ninfa, ch'\u00e8 qui, gli abbiam promessa,\n 75 s\u00ed come a nostro caro amico e fido.\n E se tu vuoi sapere quale \u00e8 essa,\n Ilbina ha nome, che la dea Diana\n la mand\u00f2 a te ed halla a te concessa.\n E perch\u00e9 la mia spen non fosse vana,\n 80 Iunon la conferm\u00f2 e fe' che scese\n Iris, sua nuncia, presso una fontana.\n Acci\u00f2 che mie parol sien meglio intese,\n mira colui che sal su per la via:\n il mio figliuol colui d'Ilbina accese.\n 85 Costui \u00e8 quel, di cui prego che sia\n la detta ninfa; ed egli \u00e8 quel che fue\n dato da Iuno a lei per compagnia.\n Vedi che move ratto i passi ins\u00fae\n e per la costa omai \u00e8 tanto stanco,\n 90 che a pena dietro a te pu\u00f2 seguir pi\u00fae.--\n Minerva, v\u00f2lta verso il destro fianco,\n mi rimir\u00f2; ed io era da lunge\n tre gettar di balestro o poco manco.\n Come che 'l servo se medesmo punge,\n 95 che \u00e8 visto ed aspettato dal signorso,\n che affretta i passi insin che a lui aggiunge;\n cos\u00ed fec'io insin ch'io ebbi corso\n al carro, ove Ciprigna s'era posta,\n che mi aspettava per darmi soccorso.\n 100 Come persona a compiacer disposta\n a chi la prega, cos\u00ed Palla fece\n a Citarea benigna risposta:\n --Se a Iunone, a cui imperar lece,\n io ho rispetto ed a te che 'l domandi,\n 105 che puoi dir: \u00abVoglio\u00bb, e fai cotanta prece,\n io mi contento far ci\u00f2 che comandi;\n ma chiama Ilbina e vedi se consente\n innanti che 'l mio carro pi\u00fa su andi.--\n Come donzella, che tra molta gente\n 110 si d\u00e9' sposar, ed \u00e8gli detto:--Vuoi\n per tuo marito costui qui presente?--\n che, vergognando, abbassa gli occhi suoi;\n cos\u00ed Ilbina si fe' vergognosa,\n parlando questo le d\u00e8e amendoi.\n 115 Per\u00f2 gli disse Venere amorosa:\n --O ninfa, che tra l'altre pi\u00fa elette\n pi\u00fa bella se' e pi\u00fa pari graziosa,\n perch\u00e9 della vergogna sottomette\n il tuo bel volto? perch\u00e9 hai temenza\n 120 del mio parlar, che gran ben ti promette?\n Vien' su nel carro di tanta eccellenza:\n io ti voglio parlar quass\u00fa da presso:\n vien' su avanti alla nostra presenza.--\n Come la zita col volto sommesso\n 125 va per la via e move il passo raro,\n tal and\u00f2 al carro e poi mont\u00f2 su in esso.\n Mentre salea, io vidi un foco chiaro,\n che gli abbruci\u00f2 l'estremit\u00e1 del panno,\n ond'ella mise un gran suspiro amaro.\n 130 Quando s'avvide Palla dello 'nganno\n e che conobbe il foco, il fumo e 'l segno\n del sospirar, che fe' con tanto affanno,\n si volse a Citarea con grande sdegno:\n --Come se' tanto ardita, o rea e falza,\n 135 tradir le ninfe, che son del mio regno?\n Nata nel mare gi\u00fa tra l'acqua salza,\n de li membri pudendi, e tra le schiume,\n qual \u00e8 quella superbia, che t'innalza?\n Madre e maestra d'ogni rio costume,\n 140 p\u00e1rtite e vanne al regno tuo, l\u00e1 dove\n ogni tuo atto \u00e8 vano e torna in fume.\n Tu lodi il tuo figliuol, che fer\u00ed Iove;\n ma non fu il vero: Iove anche \u00e8 diverso\n da quel che il cielo ed ogni effetto move.\n 145 Quel sommo re, che regge l'universo,\n porta odio a te e 'l tuo figliuol descaccia,\n s\u00ed come falso amor, rio e perverso.--\n Come chi scorna, ch'abbassa la faccia\n e mormorando seco il capo scuote,\n 150 mostrando irato e con segni minaccia;\n cos\u00ed Ciprigna con le rosse gote\n part\u00edssi quindi ed al figliuol ricorse,\n come chi s\u00e9 vendicar ben non puote.\n E gi\u00e1 ad Ilbina sarebbon trascorse\n 155 le fiamme e 'l sacro foco insino al core,\n se non che Palla il suo scudo gli porse,\n che ha tanta virt\u00fa, tanto valore,\n che ogni fiamma di Cupido ammorta,\n ogni atto turpe ed ogni folle amore.\n 160 E questo scudo, che Minerva porta,\n \u00e8 di cristallo e 'l capo gorgoneo\n ha s\u00fa scolpito di Medusa morta,\n vinta per forza e ingegno di Perseo.\nCAPITOLO XII\nCome la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del suo reame.\n Con miglior labbia poscia a me rivolta\n la dea Minerva splendida e serena,\n mi disse:--Attento mie parole ascolta.\n Se vuoi lassar Cupido, che ti mena\n 5 tra' duri scogli dell'aspro deserto\n con tanti inganni e con cotanta pena,\n e vuoi salir la strada suso ad erto,\n meco venendo all'alto mio reame,\n chiuso agli stolti ed alli saggi aperto,\n 10 io ti far\u00f2 amar dalle mie dame,\n che fanno i lor amanti esser felici,\n e te faran beato, se tu l'ame.\n Le ninfe di Diana servitrici,\n rispetto a quelle, ti parran villane,\n 15 incolte, indotte, zotiche e mend\u00edci.\n O ben dell'aspre selve, o cose vane,\n tanto veloce lo tempo vi toglie,\n che come d'ombra nulla ne rimane!\n Non posson contentar l'umane voglie,\n 20 che 'n s\u00e9 non hanno esistente bontade,\n e 'l ciel le logra, mentre sopra voglie.\n E, perch\u00e9 il ciel voltando sempre rade,\n quel che fu nuovo riveste l'antico;\n per\u00f2 le cose belle si fan lade.\n 25 E, perch\u00e9 meglio intendi ci\u00f2 ch'io dico,\n vien' su nel carro mio, che alla 'ns\u00fa monta,\n tra l'esercito mio saggio e pudico.--\n Io salsi il carro e nella prima gionta\n io dissi:--O dea Minerva alta e benegna,\n 30 del regno tuo alquanto mi racconta.\n E dimmi qual \u00e8 'l modo ch'io vi vegna\n e dove sta e chi 'l regge e nutr\u00edca,\n e della sua belt\u00e1 ancor m'insegna.\n --Al regno mio, del qual vuoi ch'io ti dica\n 35 --rispose quella--e vuoi ch'io ti dimostri,\n non vi si pu\u00f2 salir senza fatica;\n ch\u00e9 nel cammino stanno sette mostri\n con lor satelli ad impedir la strada,\n che l'uom non giunga a' miei beati chiostri.\n 40 E chi losinga acci\u00f2 che a lei non vada,\n chi fa paura e chi occulta il laccio,\n che impacci altrui o che dentro vi cada.\n E s'alcun vince e trapassa ogni impaccio,\n lassati i mostri, trova una pianura.\n 45 ove non caldo \u00e8 mai troppo, n\u00e9 ghiaccio.\n Chi su per l'erbe di quella verzura\n s'ingegna sempre di salire avante,\n del regno mio poi trova sette mura.\n E ogni muro dall'altro \u00e8 pi\u00fa distante\n 50 che cento miglia, e dentro alla sua m\u00e8ta\n un regno tien di ninfe oneste e sante.\n Ed una donna um\u00edle e mansueta,\n a chiunque sale, il sacro uscio disserra\n benignamente e mai a nullo il vieta.\n 55 Ma pria conven che l'uom basci la terra:\n allora quella ratto apre la porta\n e va con lui; se no, 'l cammin egli erra.\n Tra quelli regni dietro a questa scorta\n chi entra trova le muse elicone,\n 60 ed ognuna gli applaude e lo conforta.\n Con lieti balli e soavi canzone\n il menano a diletto su pel monte,\n facendo melodia dolce e consone.\n Pervengon poi al pegaseo fonte,\n 65 ove i poeti bevon la sacra onda;\n e poi d'alloro inghirlandan la fronte.\n All'altro giro, che vieppi\u00fa circonda,\n va poi chi prega la guida che 'l mene,\n e dietro a' passi suoi sempre seconda.\n 70 Sette reine, nobili camene,\n che dienno alli gran saggi le mamille,\n di latte di scienza tanto piene,\n si trovan l\u00ed e nitide e tranquille\n mostran sette scienze, ovver sett'arti,\n 75 con dolce dire e con soavi stille.\n Altra regina trovi, se ti parti,\n che splende quanto il sol nel mezzogiorno,\n quando ha li raggi meno obbliqui o sparti.\n Quella regina \u00e8 tutta intorno intorno\n 80 fulcita d'occhi assai vieppi\u00fa che Argo\n ed ha del sole il nobil viso adorno.\n Con tutti gli occhi il regno lungo e largo\n ella contempla e rende tanta luce,\n ch\u00e9 quivi non pu\u00f2 'l viso aver letargo.\n 85 La scorta saggia altrove anco conduce,\n dov'\u00e8 l'altra regina s\u00ed modesta,\n ch'ogni costume e senno in lei riluce.\n Fabricio e Scipion nutric\u00f2 questa.\n Ella \u00e8 che ad ogni troppo pone il freno\n 90 ed \u00e8 negli atti e nel parlare onesta.\n Altra reina \u00e8 anco dentro al seno\n d'esto mio regno, di tanta fortezza,\n che a nulla violenza mai vien meno.\n N\u00e9 mai menacce, n\u00e9 losinghe apprezza;\n 95 n\u00e9 fortuito caso mai la piega;\n n\u00e9 muta faccia a doglia, n\u00e9 a dolcezza:\n il piombo solo \u00e8 che la vince e spiega\n s\u00ed come il diamante, e cos\u00ed face\n di questa dea chi umilmente la prega.\n 100 Da questo regno s\u00ed alto e capace\n la guida sale alla nobile Astrea,\n che con Saturno resse il mondo in pace.\n Ma, poich\u00e9 fu la gente fatta rea\n e l'avarizia resse il mondo male,\n 105 ritorn\u00f2 al cielo, ov'ella \u00e8 fatta dea.\n Al nobil mio reame poi si sale,\n ove si trovan tre altre reine,\n ognuna in nobilt\u00e1 a me eguale.\n Con queste tre s\u00ed alte e s\u00ed divine\n 110 contemplo Dio, che regge l'universo,\n principio d'ogni cosa, mezzo e fine.\n Il regno mio \u00e8 fatto a questo verso,\n com'io t'ho detto: or di' se vuoi venire\n o per le selve errando andar disperso.--\n 115 Io era pronto e gi\u00e1 volea dire:\n --Io voglio, o dea, seguire il tuo consiglio\n e dietro a' piedi tuoi sempre vo' ire.--\n Ma, quando in aer su alzai il ciglio,\n vidi Venus, la quale una donzella\n 120 mi mostr\u00f2 lieta e Cupido suo figlio,\n non vista mai al mio parer s\u00ed bella;\n e cenno mi fac\u00edan che su non gisse,\n ch\u00e9 fermamente mi darebbon quella.\n E parve che Cupido mi ferisse\n 125 di piombo e d'oro; e con quelle due polse\n fece che allora non mi dipartisse.\n Quella del piombo il buon amor mi tolse,\n ch'avea d'Ilbina, e con quella dell'oro,\n oh lasso me! che a boschi anco mi volse.\n 130 Per questo non seguii quel sacro coro;\n per questo lascia' io la compagnia,\n che mi menava all'alto concistoro.\n Risposi a Palla:--O dea, la possa mia\n non si confida e forse non pu\u00f2 tanto\n 135 che vinca i mostri e saglia s\u00ed gran via.--\n Cos\u00ed discesi di quel plaustro santo\n e gi\u00fa nell'aspre selve ritornai\n intra le spine e punto d'ogni canto.\n Ratto ch'io giunsi, Venere trovai,\n 140 che mi aspettava in una valle piana,\n s\u00ed bella quanto si mostrasse mai.\n Di mirto e rose e d'erba ambrosiana\n portava su la testa tre corone\n e faccia avea di dea e non umana.\n 145 Ella mi disse:--Or di': per qual cagione\n volevi lasciar me e 'l mio figlio anco\n o per Minerva o per muse elicone?\n Se s\u00ed poco salendo fosti stanco,\n se tu fossi ito per quelle erte vie,\n 150 saresti, andando ins\u00fa, venuto manco.\n Ma, se verrai nelle contrade mie,\n le ninfe del mio regno al tuo desio\n saran condescendenti e preste e pie.\n E quella ninfa, ch'io e 'l figliuol mio\n 155 t'abbiam mostrata, ancor te la prometto;\n e mezzo e guida a ci\u00f2 ti sar\u00f2 io.\n --O Citarea--diss'io,--a te soggetto\n sempre son stato ed anco al tuo Cupido,\n sperando aver da voi alcun diletto;\n 160 onde per tue parole mi confido\n la bella ninfa aver, che mi mostrasti,\n e, ci\u00f2 sperando, dietro a te mi guido\n per questi lochi s\u00ed spinosi e guasti.--\nCAPITOLO XIII\nCome l'autore trova una ninfa chiamata Taura,\nla quale gli rende ragione di molti fenomeni.\n Appena eravamo iti un miglio e mezzo,\n ch'io vidi in una valle una donzella\n sotto una quercia, che si stava al rezzo.\n Io andai a lei e dissi:--O ninfa bella,\n 5 di qual reame se'? O dolce dama,\n deh, fammi cortesia di tua favella,\n e dimmi il nome tuo come si chiama.\n Cos\u00ed soletta senza compagnia\n aspetti tu alcun, che forse t'ama?--\n 10 Ella si volse e riverenzia pria\n fece alla dea; e poi cos\u00ed rispose\n alle parol della domanda mia.\n --Del van Cupido saette amorose\n giammai sentii; ed egli mi dispiace\n 15 e suoi costumi e sue caduche cose.\n Dall'alto regno, che a Vulcan soggiace,\n son io venuta all'ombra a mio diletto,\n ch\u00e9 starsi al fresco alle sue ninfe piace.\n Se vuoi saper come il mio nome \u00e8 detto,\n 20 Taura son chiamata e qui dimoro\n a questo orezzo e nullo amante aspetto.\n E spesso l'altre ninfe del mio coro\n vengono qui e vanno quinci a spasso\n con vestimenti e con corone d'oro.\n 25 Ma tu chi se' e dove movi il passo?--\n Ed io risposi:--L'amor m'ha condutto\n per questo loco faticoso e lasso.\n Chi sono e donde vengo a dirti il tutto\n sarebbe lungo: io gusto ora l'amaro,\n 30 sperando di fatica dolce frutto.\n Se la dea assente, io prego, fammi chiaro:\n o ninfa bella, volentier domando,\n perch\u00e9 io so poco e domandando imparo.\n Per\u00f2, mentr'io sto teco dimorando,\n 35 dimmi del regno, che Vulcan nutr\u00edca\n sotto il suo freno e sotto il suo comando.\n Il tuo dolce parlare anche mi dica\n del loco ov'egli sta, s'egli ti done\n che pi\u00fa dell'altre ninfe a lui sie amica.\n 40 Cupido gi\u00e1 del regno di Iunone\n assai mi disse con suo parlar breve,\n e della grandin disse la cagione\n e delle nubi e pioggia e della neve\n e delli tuoni, e disse del baleno,\n 45 ch'anco a' giganti \u00e8 timoroso e greve.\n Ma non mi disse ben espresso e appieno\n come si fa la sube e la cometa\n e la stella che corre e poi vien meno.--\n Allor la ninfa con la vista lieta\n 50 rispose:--In pria conven che le parole,\n le qua' disse Cupido, io ti ripeta.\n Ci\u00f2, che non scalda il foco ovvero il sole,\n conven che da s\u00e9 venga in gran freddezza,\n come natura e filos\u00f2fia vuole.\n 55 Per\u00f2 nell'aer sopra a tanta altezza,\n dove non scalda il raggio che 'ns\u00fa riede,\n e ove il foco non scalda a pi\u00fa bassezza,\n sta 'l regno freddo che Iunon possede:\n li duo vapori, acquatico e terrestro,\n 60 l\u00ed si fan nube, s\u00ed come si vede.\n E 'l vapor terreo e secco \u00e8 da s\u00e9 presto\n ad accendersi ratto, purch\u00e9 senta\n l'umido intorno, a s\u00e9 opposto e molesto.\n S\u00ed come la calcina, che diventa\n 65 focosa all'acqua e fuor manda il calore,\n che prima parea fredda e quasi spenta;\n cos\u00ed levato 'ns\u00fa il doppio vapore,\n l'acquatico si stringe e quindi piove,\n perch\u00e9 quivi \u00e8 compresso dal freddore.\n 70 Il terreo allor si aduna e si commove\n dentro alla nube, e quel moto l'accende:\n \u00e8 la fiamma rinchiusa in stretto, dove\n con grave tuon la densa nube fende,\n e spesse volte la saetta scaccia\n 75 col balenar, che subito risplende;\n il balenar vien subito alla faccia;\n ch\u00e9 presto l'occhio pu\u00f2 veder la luce,\n se opaco o grande spazio non l'impaccia.\n Ma 'l tuon, che seco il balenar produce,\n 80 l'orecchia dalla lunga nol pu\u00f2 udire,\n se l'aer seco a lui non lo conduce.\n E ben che 'l foco sia atto a salire,\n niente meno ingi\u00fa la nube spande,\n che 'l freddo denso ins\u00fa non lassa ire.\n 85 Or, se saper tu vuoi quel che domande,\n dir\u00f2 pria della stella, che nel cielo\n permuta loco e par correndo ell'ande.\n Se 'l vapor terreo passa l'aer gielo,\n sottile e secco \u00e8 ad ardere disposto\n 90 pi\u00fa che la stoppa a lume di candelo.\n Quand'egli vien lass\u00fa, dove sta posto\n il regno di Vulcan, l'accende il foco\n nel primo capo, e la fiamma tantosto\n per lui trascorre e non a poco a poco,\n 95 ma ratto e presto; e la fiamma corrente\n pare una stella che tramuti loco.\n E fa un fregio s\u00fa chiaro e lucente\n per la via che trascorre, ed in un tratto\n poscia vien meno e non appar niente.\n 100 E se 'l vapor \u00e8 di materia fatto\n che sia grossa e viscosa e sulfuresca,\n non atta a consumarsi molto ratto,\n quando ha passata la contrada fresca,\n va su infin che l'aer caldo trova,\n 105 e l\u00e1 s'accende come a fiamma l'\u00e9sca.\n E pare un trave acceso che si mova:\n questo \u00e8 la sube, e spesso ha la figura\n o di colonna o di altra cosa nova.\n E se 'l vapor, che 'l sol lieva in altura,\n 110 \u00e8 grosso e secco e molto denso e spesso\n e di materia a consumarsi dura,\n quando egli giunge s\u00fa al foco appresso,\n s'accende quella parte che 'n pria monta,\n e quella fiamma scende gi\u00fa per esso\n 115 in quella parte che non \u00e8 ancor gionta,\n ma sta gi\u00fa verso l'aere distesa\n lunga e nelle sue parti ben congionta.\n Allor la parte ch'\u00e8 nel foco accesa,\n pare una stella, e l'altra la sua chioma,\n 120 cio\u00e8 la parte nell'aer distesa.\n E per\u00f2 questa \u00abcometa\u00bb si noma,\n quasi \u00abcomata\u00bb, e chi ben questo mira,\n dato fu a lei il suo proprio idioma.\n Se saper vuoi perch\u00e9 il sol non tira\n 125 pi\u00fa 'ns\u00fa 'l detto vapor, poich\u00e9 \u00e8 focoso,\n ma secondando il primo moto gira,\n sappi che ogni cosa ha 'l suo riposo\n nel proprio loco, come hai gi\u00e1 udito,\n e, se si parte quindi, va a ritroso.\n 130 E per\u00f2 quel vapor, quando \u00e8 ignito,\n sta dentro fermo presso a quella spera,\n la quale \u00e8 d'ogni lieve il proprio sito.\n E sappi ancor che tanto la lumiera\n dura della cometa e tanto \u00e8 vista,\n 135 quanto dura il vapor e sua mat\u00e8ra;\n ch\u00e9 mai la fiamma pu\u00f2 veder la vista\n o la luce del foco per se sola,\n s'ella non \u00e8 con altro corpo mista.--\n Tacette poscia dopo esta parola;\n 140 ond'io a lei risposi:--Ammiro alquanto\n come s'accende il vapor che 'ns\u00fa vola.\n Ed anco ammiro come pu\u00f2 esser tanto,\n che se ne faccia vento e pioggia ancora\n e l'altre cose dette nel tuo canto.--\n 145 Sub brevit\u00e1 questo rispose allora:\n --Pensa del cibo dentro al corpo umano,\n quando \u00e8 indigesto e quando egli evap\u00f3ra:\n il qual, quando \u00e8 cacciato fuor dell'ano,\n s'infiammeria come trita vernice,\n 150 se si scontrasse in acceso vulcano.\n Cos\u00ed il vapor, che s\u00fa 'l mio canto dice,\n s'infiamma giunto nell'aere acceso\n e d'ogni impressione \u00e8 la radice.--\n Cupido, quando a questo io stava atteso,\n 155 ven\u00eda per l'aere quasi uccel veloce\n colle saette in mano e l'arco teso.\n --O Taura--chiam\u00f2 ad alta voce,--\n tu proverai che pi\u00fa 'l mio foco infiamma\n che quel del tuo Vulcano, e che pi\u00fa coce.\n 160 Ei l'ha provato, e sallo la mia mamma.--\n Cos\u00ed dicendo, un colpo tal gli porse\n col dardo acceso di sacrata fiamma,\n che trapassolla e insino a me trascorse;\n e tanto m'infiamm\u00f2 quella saetta,\n 165 ch'io grida' aiuto, e l'Amor non soccorse.\n Taura bella, di dolor costretta,\n grid\u00f2 al ciel:--Vulcano, ora m'aita,\n e del crudele Amor fammi vendetta.--\n E, detto questo, cad\u00e9 tramortita.\nCAPITOLO XIV\nCome Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere\nGiove discese dal cielo e pose pace fra loro.\n Parve che quella voce andasse al cielo,\n ch\u00e9 venne con un tuon un gran baleno\n a lei sopra la faccia e 'l petto anelo.\n E nel dir \u00ab_miserere_\u00bb ed anche in meno\n 5 l'aere si turb\u00f2 e f\u00e9ssi fosco,\n il quale pria era chiaro e sereno.\n E ben mille ciclopi fuor d'un bosco\n io vidi uscir e fuor delli gran monti,\n alti, che tanto abeti io non conosco.\n 10 Questi hanno sol un occhio in le lor fronti,\n fabbri di Iove e duri nelle braccia,\n crudel, nelle battaglie arditi e pronti.\n Poi tra le nubi con irata faccia\n e con tempesta apparve il gran Vulcano\n 15 co' tuon, co' quali a' giganti minaccia.\n E tre saette avea nella sua mano;\n cos\u00ed discese gi\u00fa con s\u00ed gran grido,\n ch'egli facea tremar tutto quel piano.\n --Dov'\u00e8--dicea,--dov'\u00e8 'l crudel Cupido?\n 20 Dove se' ito, traditor bugiardo?\n Vieni, ch\u00e9 alla battaglia io ti disfido.\n Ahi, gran prodezze mostrarsi gagliardo\n contra una ninfa, a cu' il petto hai ferito\n s\u00ed crudelmente col tuo crudo dardo!\n 25 Ma, se tu se' s\u00ed grande e s\u00ed ardito,\n perch\u00e9 non vieni, o nato d'adult\u00e8ro,\n in campo alla battaglia, ov'io t'invito?--\n Cupido, in questo, superbo ed alt\u00e8ro\n vidi venir volando, e mai uccello\n 30 corse alla preda s\u00ed ratto e leggero.\n Ed a Vulcan:--Ritorna a Mongibello,\n sciancato, storto e dal ciel messo in bando:\n ritorna alla fucina ed al martello.\n Il dardo orato mio, il qual io mando,\n 35 tu proverai; e, se ti giunge addosso,\n tu griderai a me:--Merc\u00e9 domando.--\n Poi scocc\u00f2 'l dardo, ed arebbel percosso,\n se non ch'e' si gitt\u00f2 alla supina:\n per questo il colpo and\u00f2 da lui rimosso.\n 40 Su ratto si lev\u00f2 e con ruina\n il folgore gitt\u00f2, il qual la spada\n corrode e nulla fa alla vagina,\n ch'ello \u00e8 fiamma sottile e fa che vada\n dentro alli pori e ci\u00f2 che non ha poro,\n 45 cos\u00ed disf\u00e1, come il sol la rugiada.\n Questo di piombo le saette e d'oro\n fuse nella faretra, e smunse e r\u00f3se\n ci\u00f2 che v'avea di metallin lavoro.\n Quando Cupido le polse penose\n 50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,\n nulla trov\u00f2, mentre s\u00fa la man pose.\n Onde ei, scornato e con furia molta:\n --Io ho l'altr'arme--disse--e 'l foco sacro:\n quest'arme a me da te mai non fia tolta.--\n 55 Cos\u00ed dicendo, furibondo ed acro\n corse in Vulcano e s\u00ed gl'incese il mento,\n che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.\n E, di questa vendetta non contento,\n col foco s'avvent\u00f2 nelli ciclopi;\n 60 e, poi che 'l capo incese a pi\u00fa di cento:\n --Tornate alle caverne come topi\n --diceva a lor,--tornate, o turba inerte,\n o falsi e vili e neri quanto eti\u00f2pi.--\n Vulcano, in questo, s\u00fa a braccia aperte,\n 65 fuggendo, salse al regno di Iunone,\n ove il vapore in saette converte.\n Ma dietro a lui, leggier come un falcone,\n and\u00f2 Cupido, e mai corse s\u00ed ratto\n dall'arco suo scoccato verrettone.\n 70 E disse a lui:--Vulcan, non verr\u00e1 fatto\n l'avviso tuo: far\u00f2 che le saette\n far non potrai per me a questo tratto.--\n Cos\u00ed dicendo, tutte nubi umette\n 'sciucc\u00f2e col foco e tanto consumolle,\n 75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;\n ch\u00e9, quando \u00e8 consumato l'umor molle,\n accendersi non pu\u00f2 'l secco vapore,\n s\u00ed che Vulcan non fece quel ch'e' volle.\n Per questo cominci\u00f2 con gran rumore\n 80 a gridar forte, chiamando difese\n contra Cupido, stimol dell'amore.\n Allora Venus sue braccia distese\n al cielo e disse con parol divote\n al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:\n 85 --Guarda il vecchio marito, che non puote\n pi\u00fa difensarsi contro il mio figliuolo:\n vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.\n Tu sai che, quando il giganteo stuolo\n volle pigliar il cielo e discacciarte,\n 90 pi\u00fa che null'altro t'aiut\u00f2 ei solo.\n E fece le saette con sua arte:\n con quelle, o Iove, tu gettasti a terra\n li gran giganti con le membra sparte.--\n In men che alcun non apre gli occhi o serra,\n 95 vidi Iove discender gi\u00fa 'n quel loco,\n ove Cupido a Vulcan facea guerra.\n --Cessa--disse al fanciullo--il sacro foco;\n Amor, se pensi quanto l'hai feruto,\n tu dirai ch'egli \u00e8 troppo, e non \u00e8 poco.\n 100 E s'egli avesse a te ferir voluto,\n come potea, nella tua persona,\n nullo al suo colpo aver potevi aiuto.--\n A questa voce del signor che tona,\n cess\u00f2 il foco Cupido e reverente\n 105 disse al padrigno:--O padre, a me perdona.--\n Nulla cosa a sdegnarsi \u00e8 pi\u00fa fervente\n che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora\n si placa e torna pi\u00fa leggeramente.\n Posta la pace, si part\u00ed allora\n 110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,\n de' quali il regno suo in ciel s'onora.\n Ma pria la vita a Taura, ed i capelli\n rend\u00e9 a Vulcano, che parea un menno,\n ed a Cupido i dardi orati e snelli.\n 115 Poich\u00e9 i duo guerreggianti pace fenno,\n Vulcan disse all'Amor:--Perch\u00e9 s\u00ed rio\n ver' me se' stato e con s\u00ed poco senno?\n Se non che, quando a te saetta' io,\n trassi come a figliuol, non a figliastro:\n 120 tu non scampavi mai dal colpo mio.\n E provato averesti ch'io so' il mastro\n di saettar e che non si pu\u00f2 opporre\n a me mai scudo, unguento ovver impiastro.\n Io son che getto a terra le gran torre\n 125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,\n quando i giganti v\u00f2lsonli 'l ciel t\u00f4rre.\n Della saetta mia, quando si move,\n i grandi effetti e le varie ferite,\n nulla \u00e8 filosofia che le ritrove.--\n 130 Rise Cupido alle parole udite\n e fe' come fa alcun, che par ch'assenta\n a quel che non \u00e8 ver, per non far lite.\n E, come aquila fa, quando s'avventa\n alla sua preda rapace e feroce,\n 135 ch'ali non batte, perch\u00e9 non si senta;\n cos\u00ed ciascuno ingi\u00fa venne veloce\n alla dea Venus. Benigna l'accolse\n e poi a Vulcan proferse questa voce:\n --Assai, marito mio, il cor mi dolse,\n 140 quando tu fulminasti il dolce figlio\n e che guastasti le su' orate polse.\n Ma pi\u00fa mi dolse che la barba e 'l ciglio\n egli arse a te e che con tanta asprezza\n nell'aer su ti pose a tal periglio.\n 145 Or della doglia io sento gran dolcezza,\n da che tra voi \u00e8 la concordia posta,\n la qual prego che duri con fermezza.--\n Vulcan non fece a lei altra risposta\n se non che con l'Amor volea la pace;\n 150 ch\u00e9 la sua sposa, che gli stava a costa,\n pi\u00fa 'l riscald\u00f2 che 'l foco, ov'egli giace,\n e, se non pel figliastro, facea forse\n cosa ch'\u00e8 turpe e con belt\u00e1 si tace.\n Per questo si part\u00ed e su ricorse\n 155 al regno suo; e Taura sua partita\n fece una seco, onde gran duol mi morse.\n Per\u00f2 a Cupido:--Amore, ora m'aita:\n tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,\n allor che Taura fu da te ferita.--\n 160 Egli ridendo mosse le sue penne,\n e fugg\u00ed via l'Amor senza leanza\n ed alla piaga mia non mi sovvenne.\n Venus a me:--Assai pi\u00fa bella 'manza,\n --disse--nel regno mio ti doneraggio.--\n 165 Per\u00f2, al conforto di tanta speranza,\n la seguitai per l'aspero viaggio.\nCAPITOLO XV\nCome l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia,\nla quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti.\n L'amor con la speranza \u00e8 s\u00ed soave,\n che fa parer altrui dolce e leggera\n la cosa faticosa e da s\u00e9 grave;\n ch\u00e9 sempre mai, quando l'animo spera\n 5 aver il premio della sua fatica,\n piglia l'impresa con la lieta ciera.\n Questa tra spine e tra pungente ortica\n menava lieto me per duro calle:\n tanto quella promessa a me fu amica;\n 10 quando vidi una ninfa in una valle,\n che cogliea fiori, e suoi biondi capelli\n di color d'oro avea sparsi alle spalle.\n --A quella che l\u00ed coglie i fiori belli\n --diss'io a Venus--volentieri irei,\n 15 se piace a te che alquanto gli favelli.--\n La dea consent\u00ed ai desii miei;\n ond'io andai, e, quando gli fui appresso,\n queste parole dirizzai a lei:\n --O ninfa bella, mentre a me \u00e8 concesso\n 20 ch'io parli teco, prego, a me rispondi:\n chi se' e questo loco a chi \u00e8 commesso?--\n Allor, rispersa de' capelli biondi,\n inver' di me alz\u00f2 la lieta testa,\n e poi rispose con gli occhi giocondi:\n 25 25--Eolo regna qui 'n questa foresta,\n che regge i venti ed halli tutti quanti\n sotto il suo freno e sotto sua pot\u00e8sta;\n ch\u00e9, quando contra il ciel funno i giganti,\n segu\u00eero il padre, e le colpe paterne\n 30 spesso tornano a' figli in duri pianti.\n Per\u00f2 gl'inchiuse Dio tra le caverne,\n ed Eolo diede a lor, che gli apre e serra\n e che sotto suo impero li governe.\n Se ci\u00f2 non fosse, l'aere e la terra\n 35 subbissarieno ed in ogni contrada\n farian grande ruina e grande guerra.\n Panfia ho nome, e la dea della biada\n alla figlia Proserpina mi manda;\n e spesse volte vuol che a lei io vada.\n 40 E coglio questi fior, ch'una grillanda\n gli vo' portar, ch\u00e9 delli fior che colse\n gli sovvien anco, e per\u00f2 me 'n domanda,\n quando Cupido con sue fiere polse\n fer\u00ed 'l disamorato infernal Pluto,\n 45 allor ch'a Ceres la figliola tolse.\n Ma tu chi se' e come se' venuto\n cos\u00ed soletto in questa valle alpestra?\n Vai vagabondo o hai 'l cammin perduto?--\n Ed io a lei:--Venus \u00e8 mia maestra;\n 50 seco mi guida al loco, ov'ella regna,\n e per darmi conforto ella mi addestra.\n Ed ha concesso a me ch'io a te vegna;\n o ninfa bella, prego mi contenti;\n e quel che ti domando, ora m'insegna.\n 55 Dimmi ove stanno e donde son li venti,\n ch\u00e9, quando scendi all'infernal regina,\n io credo che li veghi e che li senti.--\n Ed ella a me:--Perch\u00e9 ratta e festina\n Ceres mi manda, per fretta non posso\n 60 appien de' venti darti la dottrina.\n Ma sappi che la terra dentro al dosso\n ha gran caverne, meati e gran grotte,\n ove li venti stanno in vapor grosso.\n Tra quei meati e quelle rupi rotte\n 65 diventa quel vapor sottile e raro,\n quando di sopra al d\u00ed cresce la notte;\n ch\u00e9, quando un loco a s\u00e9 prende un contraro,\n l'altro contraro prende un loco opposto,\n e quanto posson tengon loco varo.\n 70 E per\u00f2, quando \u00e8 ito il fin d'agosto,\n e che 'l d\u00ed manca e fassi qui il verno,\n allor che il sole in bassi segni \u00e8 posto,\n nelle caverne, ch'Eolo ha 'n governo,\n s'inchiude il caldo. E di ci\u00f2 d\u00e1n certezza\n 75 l'acque che stanno nell'alvo materno,\n che hanno il verno alquanto di caldezza,\n come si vede e come appare al senso;\n la state hanno sotterra pi\u00fa freddezza.\n S\u00ed che 'l vapor, in prima grosso e denso,\n 80 convien che s'assuttigli e sparso cresca\n il verno, riscaldato ovvero accenso.\n Per\u00f2 dall'arto loco cerca ond'esca:\n cos\u00ed per le fissure e pori esala,\n e 'l sole il tira insino all'aura fresca.\n 85 L\u00ed ripercosso, poscia all'ingi\u00fa cala\n e fassi vento, e, dove luna il tira\n ovver Saturno, quivi move l'ala.\n Il vapor che rimane e che si aggira\n nel ventre della terra, perch\u00e9 appieno\n 90 non pu\u00f2 uscir del loco, ond'egli spira,\n ritorna addietro in fondo gi\u00fa nel seno\n dell'alma terra; e per\u00f2 innanzi alquanto\n che sia il tremoto, ogni vento vien meno.\n E poi ritorna e con impeto tanto,\n 95 venendo insieme, la terra percote,\n che la fa almen tremare in alcun canto.\n Questo \u00e8 'l tremoto, e voglio ch'ancor note\n che 'l vapor caldo inchiuso ha tal valore,\n che nulla cosa ritener il puote.\n 100 Se fusse un monte qual tu vuoi maggiore,\n tutto d'acciaio dentro alla montagna,\n per mille parti ne uscirebbe fore.\n Cos\u00ed il vapor inchiuso in la castagna\n o in altra cosa, quando \u00e8 riscaldato,\n 105 convien che n'esca e quel che 'l tiene infragna.\n Io ho veduto gi\u00e1 ch'egli ha levato\n del loco un monte e fatta un'apertura\n sopra la terra con s\u00ed grande iato,\n che 'l re d'inferno avuta ha gran paura\n 110 che non discenda insin laggi\u00fa il raggio\n e non illustri la sua patria oscura.\n E dico a te che anco veduto aggio\n Eolo re temere alcuna volta,\n quand'apre i monti e d\u00e1 a' venti il viaggio.\n 115 Egli escono con furia ed ira molta,\n quasi lioni o Cerbero feroce,\n quando si vide la catena sciolta.\n E discorrendo van per ogni foce;\n e, se si scontran due venti inimici,\n 120 il turbo fanno, il qual cotanto n\u00f2ce.\n Quest'\u00e8 che gitta a terra li edifici\n con gran ruina e percuote li tetti,\n e svelle gli arbor dalle lor radici.--\n E gi\u00e1 poneva fine alli suoi detti,\n 125 se non ch'io dissi:--Deh! di' se la luce\n del sol fa nell'inferno alcuni effetti.--\n Allor rispose:--Il sol, ch'\u00e8 primo duce\n di ci\u00f2 che nasce, pietre preziose,\n oro ed argento di laggi\u00fa produce.\n 130 Ver \u00e8 che Pluto tutte queste cose\n dona alla sposa sua, la quale \u00e8 figlia\n di quella che l'andata a me impose.\n Io dir\u00f2 a te una gran maraviglia:\n che d'oro mi mostr\u00f2 un s\u00ed gran monte,\n 135 che'ntorno gira pi\u00fa di diece miglia.--\n E disse:--Io prego, quando lass\u00fa monte,\n che tu nol dichi agli uomini del mondo\n e d'esta mia ricchezza non racconte;\n ch\u00e9 son s\u00ed avari, che 'nsin quaggi\u00fa al fondo\n 140 ei cavarieno a rubbar il tesoro,\n il qual m'\u00e8 dato in sorte e qui nascondo;\n e son s\u00ed ghiotti e cupidi dell'oro,\n che gi\u00e1 han cavato ingi\u00fa trecento braccia:\n che non vengan quaggi\u00fa temo di loro.--\n 145 E, detto questo, con la lieta faccia,\n ridendo, inchin\u00f2 alquanto e disse:--Addio;--\n e poi n'and\u00f2 come chi fretta avaccia.\n Alla mia scorta allora torna' io;\n e seguitaila insin all'oce\u00e1no\n 150 per un viaggio molto aspero e rio.\n Nettuno a noi col suo tridente in mano\n venne risperso di marine schiume,\n s\u00ed che sua barba e 'l capo parea cano.\n Con lui vennon le ninfe d'ogni fiume,\n 155 delle quali al presente non ne narro,\n ch\u00e9 'n altra parte il contar\u00e1 il volume.\n Nettuno poi ne pose sul suo carro\n e solc\u00f2e 'l mar; e li mostri marini\n facean, mirando noi, al plaustro sbarro.\n 160 Triton sonava, e li lieti delfini\n givan saltando sopra l'onde chiare,\n che soglion di fortuna esser divini.\n Poich\u00e9 mostrato m'ebbe tutto il mare\n e che dell'acque la cagion mi disse,\n 165 perch\u00e9 sotto son dolci e sopra amare,\n in terra ne pos\u00f2 e l\u00ed s'affisse,\n e fe' ballar per festa le sue dame:\n e poi dicendo:--Addio,--da noi partisse.\n Allor Venus and\u00f2 al suo reame.\nCAPITOLO XVI\nDel reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero\nall'autore, perch\u00e9 usavano atti disonesti d'amore; onde Venere il men\u00f2\na ninfe pi\u00fa oneste, ma pi\u00fa piene d'inganno.\n Chi di Venus ben vuol saper il regno\n com'\u00e8 disposto, sguardi pure agli atti;\n ch\u00e9 ogni balla si conosce al segno.\n Come gli uomini sonno dentro fatti,\n 5 nell'opera di fuor si manifesta:\n quella \u00e8 che mostra i saggi ed anco i matti.\n Poich\u00e9 passata avemmo una foresta,\n io vidi il regno suo pi\u00fa oltra un poco\n e gente vidi quivi in gioia e festa.\n 10 Ed in quel regno quasi in ogni loco\n eran distinte ninfe a sorte a sorte\n in balli e canti ed in solazzi e gioco.\n Quando si funno di Ciprigna accorte:\n --Ecco la nostra dea--dissono alquante,--\n 15 che torna a suo reame ed a sua corte.--\n Ben mille ninfe allor venneno avante,\n di rose coronate e fior vermigli,\n vestite a bianco dal collo alle piante.\n E de' loro occhi e dell'alzar de' cigli\n 20 Cupido fatto avea le sue saette\n e l'\u00e9sca, con la qual gli amanti pigli;\n ch\u00e9 quelle vaghe e belle giovinette\n con que' sembianti moveano lo sguardo,\n che fa la 'manza che assentir promette.\n 25 Non era l\u00ed mestier pregar che 'l dardo\n traesse dio Cupido a far ferita\n o ch'egli al suo venir non fosse tardo;\n ch'ognuna mi parea che senza invita,\n solo al mirar e ad un picciol cenno,\n 30 che nella vista sua mi dicesse:--Ita.--\n Poich\u00e9 diversi balli quivi fenno\n 'nanti a Ciprigna con canti esquisiti\n e misurati suon con arte e senno,\n io vidi dame e vidi ermafroditi,\n 35 uomini e donne insieme, venir nudi,\n ove natura vuol che sien vestiti.\n Al viso con le man mi feci scudi\n per non vedergli; ond'ella:--Perch\u00e9 gli occhi\n --mi disse--colle man cos\u00ed ti chiudi?--\n 40 Risposi a lei che gli atti turpi e sciocchi\n e ci\u00f2 che vuol natura che sia occolto,\n enorme par che 'n pubblico s'adocchi.\n Ed ella a me:--Un luoco dista molto,\n ove tengo mie ninfe tanto oneste,\n 45 che, solo udendo amor, le arroscia il volto;\n talch\u00e9, quando Diana fa sue feste\n o va alla caccia tra luochi selvaggi,\n spesso vuole che alcuna io gli ne preste.\n Li sta la ninfa, la qual voglio ch'aggi,\n 50 la qual, perch\u00e9 non gissi, io ti mostrai\n a lato a me tra gli splendenti raggi.--\n Partissi allora, ed io la seguitai\n insino a quelle, e di tant'eccellenza\n Natura ninfe non form\u00f2 giammai.\n 55 N\u00e9 Fiandra, n\u00e9 Roma, ovver Fiorenza,\n n\u00e9 leggiadria giammai che di Francia esca,\n mostr\u00e2ro ninfe di tant'apparenza.\n D'una di quelle Amor mi fece l'\u00e9sca\n ad ingannarmi, e fui preso s\u00ed come\n 60 uccello o all'amo pesce che si pesca.\n Venere Ionia la chiam\u00f2 per nome.\n Allor dall'altre venne la donzella\n con la grillanda su le bionde chiome.\n E, come va per via sposa novella\n 65 a passi rari e porta gli occhi bassi\n con faccia vergognosa e non favella,\n cos\u00ed la falsa moveva li passi\n per ingannarmi e, quando mi fu appresso,\n mi riguard\u00f2; ond'io gran sospir trassi.\n 70 Venere disse a lei:--Io ho promesso\n a questo giovinetto che ti guide:\n a lui ti diedi ed or ti dono ad esso.--\n S\u00ed come putta che piangendo ride\n per ingannar, cos\u00ed bagn\u00f2 la faccia,\n 75 dicendo:--O sacra dea, a cui mi fide?\n In prima, o Iove, occidermi ti piaccia;\n in prima, o Citarea, voglio morire,\n che alcun uomo mi tenga tra le braccia.--\n E per podermi ancor meglio tradire,\n 80 'sciuccava gli occhi a s\u00e9 con li suoi panni,\n nel cor mostrando doglia e gran martire.\n Chi creso arebbe che cotanti inganni\n e tanta falsit\u00e1 adoperasse\n ninfa, che non parea di quindici anni?\n 85 Io pregava Cupido che tirasse\n contro di lei omai il suo fiero arco\n e che al mio voler la soggiogasse.\n Ed io il vidi col balestro carco\n nell'aer suso in uno splendor chiaro,\n 90 e ferirla mostr\u00f2 con gran rammarco.\n Non fe' all'Amor la ninfa pi\u00fa riparo,\n ma il capo biondo sul mio petto pose\n e che io l'abbracciassi mostr\u00f2 caro.\n Allor Venus di rosse e bianche rose\n 95 a lei ed anco a me risperse il petto;\n e poi spar\u00ed come ombra e si nascose.\n Quand'ella vide me seco soletto,\n cos\u00ed mirava intorno con sospiri\n come persona, quand'ella ha sospetto.\n 100 --Perch\u00e9, o ninfa mia, intorno miri?\n --diss'io a lei.--Deh! alza gli occhi belli,\n che hai nel viso, quasi duo zaffiri.\n Perch\u00e9 stai timorosa e non favelli?--\n Allor alz\u00f2 la faccia a me e parlommi,\n 105 'sciuccando gli occhi a s\u00e9 co' suoi capelli.\n --Pel sommo Iove e per li d\u00e8i pi\u00fa sommi\n per l'aere e 'l cielo, il qual nostr'amor vede,\n pel duro dardo il qual gittato fommi,\n ti prego, amante, che mi dia la fede\n 110 che non m'inganni e che vogli esser mio,\n da ch'io son tua e Venus mi ti diede.\n Or ti dir\u00f2 perch\u00e9 ho sospetto io:\n qui stan centauri e fauni incestuosi,\n turpi in ogni atto scostumato e rio.\n 115 E stanno tra le selve qui nascosi,\n e qui la 'Nvidia maledetta anco usa\n con sue tre lingue e denti venenosi.\n Ed io temo lor biasmo e loro accusa;\n per\u00f2 pavento, e sai che colpa occolta\n 120 innante ai numi e al mondo ha mezza scusa.\n Per\u00f2, acci\u00f2 che teco non sia c\u00f2lta,\n prego che la partenza non sia dura\n a te, n\u00e9 anco a me per questa volta.--\n Un monte mi mostr\u00f2 e:--Su l'altura\n 125 --mi disse sta un boschetto; io l\u00ed verraggio\n a te, quando la notte sar\u00e1 oscura.--\n E, perch\u00e9 'l suo consiglio parve saggio,\n io me partii; ma prima li die' il giuro\n d'amarla sempremai con buon coraggio.\n 130 Ed ella del venir mi fe' sicuro.\n Cos\u00ed n'andai; e, quando al loco fui\n colla speranza del venir futuro,\n dissi pregando:--O Febo, i corsier tui\n movi veloci verso l'occidente,\n 135 perch\u00e9 pi\u00fa ratto questo d\u00ed s'abbui.\n E tu, Atlante, il ciel pi\u00fa prestamente\n movi coll'alte braccia e grandi e forti,\n perch\u00e9 la notte giunga all'oriente.\n O cerchio obliquo, che i pianeti porti,\n 140 fa' s\u00ed che entri il sole in Capricorno,\n che sia la notte lunga e il d\u00ed raccorti,\n acci\u00f2 che tosto passi questo giorno\n e venga Ionia, che venire aspetta,\n quando sia notte, meco a far soggiorno.\n 145 Io benedico il foco e la saetta,\n o dio Cupido, col qual m'hai ferito;\n e la tua madre ancor sia benedetta,\n che, quando con Minerva ins\u00fa er' ito,\n per me avvoc\u00f2 ed ella mi ritorse;\n 150 ed ella ha fatto ch'ancor t'ho segu\u00edto.\n E qui al suo reame ella mi scorse\n ed hammi data Ionia, e che a me vegna\n n'aggio speranza senza nessun forse,\n e spero in te e 'n lei che mi sovvegna.--\nCAPITOLO XVII\nDove si tratta dell'inganno, che fu fatto all'autore dalla ninfa Ionia.\n E gi\u00e1 il chiaro sol s\u00ed calato era,\n che nell'altro emisperio a quello opposto\n faceva aurora e quivi prima sera.\n E, per meglio vedere, io m'era posto\n 5 alto in un sasso e l\u00ed cogli occhi attenti\n stava sperando che venisse tosto.\n Intanto f\u00fbn del sole i raggi spenti;\n e gi\u00e1 'l cielo mostrava ogni sua stella,\n e non sent\u00e9a se no' 'l soffiar de' venti.\n 10 --Quando verrai, o Ionia ninfa bella?\n --dicea fra me;--perch\u00e9 tanta dimora?\n Qual sar\u00e1 la cagion che s\u00ed tarda ella?--\n Qual va cercando l'angosciosa tora,\n a cui il figlio o la figliola \u00e8 tolta,\n 15 che soffia e cerca e mugghia ad ora ad ora,\n e poi si folce e coll'orecchie ascolta;\n tal facea io, ed alquanto la spene\n dalla sua gran fermezza s'era v\u00f2lta.\n Queste son le saette e dure pene,\n 20 che balestra agli amanti il folle Amore;\n ch\u00e9 se speranza o tarda o in fallo viene,\n quanto sperava, tanto ha poi dolore;\n ch\u00e9 sempre volont\u00e1 s'affligge tanto,\n quanto a quel che gli \u00e8 tolto avea fervore.\n 25 Io cercai per quel bosco in ogni canto\n insino al primo sonno e chiamai forte,\n aggirando quel loco tutto quanto,\n come fe' Enea alla suprema sorte\n cercando della misera Creusa,\n 30 rimasa in Troia dentro delle porte.\n Eco tapina, che vive rinchiusa\n tra le spelonche, mi dava risposta\n al fin della parol, come far usa.\n Per ritrovarla scesi poi la costa,\n 35 e driada trovai su nel sentiero,\n che a guardar le ninfe ivi era posta.\n --Deh dimmi, driada, prego, e dimmi il vero,\n se delle ninfe ve ne manca alcuna,\n o se 'l numero loro \u00e8 tutto intero.\n 40 --Quando la notte ieri si fe' bruna\n --rispose quella,--Ionia n'and\u00f2 via,\n e non era levata ancor la luna.--\n E disse a me che cenno fatto av\u00eda\n la dea Ciprigna, acci\u00f2 ch'andasse a lei\n 45 cos\u00ed soletta senza compagnia.\n --Ma io, o giovin, volentier saprei\n perch\u00e9 tu ne domandi ed a quest'otta\n come vai quinci, e dimmi che far d\u00e9i.--\n Risposi:--Iersera, quando il d\u00ed s'annotta,\n 50 io vidi lei; ond'io maravigliai\n che s\u00ed soletta andar s'era condotta;\n ch'i' so che in questo loco stanno assai\n centauri e fauni, e so che qui ed altrove\n sono alle ninfe infesti sempremai.\n 55 Io temo, o driada, che alcun non la trove\n e, sol da questo mosso, quaggi\u00fa vegno:\n questo a venir di notte qui mi move.\n --Se Citarea, la dea di questo regno\n --rispose quella--volle ch'ella gisse\n 60 ed acci\u00f2 ch'ella andasse gli fe' segno,\n nullo sar\u00eda centauro che ardisse,\n n\u00e9 che potesse impedirgli l'andata,\n la qual i fati e la dea gli prescrisse.\n Ma, se questo non \u00e8 e fie trovata,\n 65 null'altra cosa, credo, la ripara\n che non sia presa e che non sia sforzata.--\n Ahi, quanto esta risposta mi fu amara,\n credendo fermamente fosse presa!\n E questa opinion mi parea chiara;\n 70 ond'io risalsi ins\u00fa tutta la scesa,\n che av\u00ede fatta, e giunsi su nel piano,\n ove aspettato av\u00ede con spene accesa.\n Io dicea meco:--O ninfa, alla cui mano\n or se' venuta? O vaga giovinetta,\n 75 qual fauno t'ha scontrata o qual silvano?\n Questa \u00e8, Cupido, tua crudel saetta,\n e grave pena \u00e8 la tua fiamma dura,\n se tardi o togli quel che spene aspetta.\n E l'altra \u00e8 gelosia e la paura,\n 80 che, perch\u00e9 la bellezza troppo s'ama,\n per\u00f2 in nulla parte \u00e8 mai secura.--\n Cos\u00ed andai chiamando quella dama,\n come colui che una persona sola\n vuol che lo 'ntenda e timoroso chiama,\n 85 che dice ratto e parla nella gola;\n e tal i' la chiamai ben mille volte,\n qual Eco rende 'l suon della parola.\n Tant'eran gi\u00e1 del ciel le rote v\u00f2lte,\n che Aurora gi\u00e1 mostrava sua quadriga,\n 90 e gi\u00e1 Titon gli avea le trecce sciolte,\n quando pel pianto e per la gran fatiga\n convenne che gi\u00fa in terra io mi colcasse,\n e pi\u00fa per lei cercar non mi diei briga.\n In questo parve a me che in me entrasse\n 95 il sonno, che ristora e che riposa\n a' mortali le membra stanche e lasse.\n Mentr'io dorm\u00e9a, apparve a me, amorosa\n e piena di splendor, la bella Ilbina,\n in apparenza pi\u00fa che umana cosa.\n 100 --L\u00e9vate su,--mi disse,--ch'\u00e8 mattina:\n Cupido tante volte t'ha tradito,\n egli e la madre sua, che \u00e8 qui reina.\n Sappi che a Ionia il petto egli ha ferito\n d'un dardo oscuro ed impiombato e smorto,\n 105 che 'l venir suo a te ha impedito.\n L'amor, che avea a te, in lei \u00e8 morto;\n e ad un fauno vile, rozzo e negro\n l'han data per amante e per conforto:\n colui del suo bel viso ora sta allegro.\n 110 E perch\u00e9 queste cose, c'ho racconte,\n le sappi appieno e tutto il fatto int\u00e8gro,\n quand'ella a te ven\u00eda quass\u00fa nel monte,\n perch\u00e9 piacesse a te pi\u00fa la sua vista,\n di rose s'adorn\u00f2 il capo e il fronte.\n 115 Cupido allor d'una saetta trista\n ed impiombata dentro al cor gli diede,\n colla qual fa ch'all'amor si resista:\n questa ogni amor gli tolse ed ogni fede\n a te promessa. E poi con l'altro astile,\n 120 il quale \u00e8 d'\u00f2r, da cui amor procede,\n s\u00ed come l'\u00e9sca el foco del focile,\n cos\u00ed accese lei; e poi mostr\u00f2gli\n un fauno bovin, cornuto e vile.\n Per\u00f2 ti prego che seguir non vogli\n 125 questo Cupido e che non vogli ire\n pi\u00fa tra le selve e tra li duri scogli.\n Se al regno di Minerva vuo' venire,\n lass\u00fa l'animo tuo sar\u00e1 contento,\n lass\u00fa trova la voglia ogni desire.--\n 130 Poscia spar\u00ed; e 'l sonno mio fu spento,\n e gi\u00fa di terra mi levai s\u00fa erto,\n ch\u00e9 'l letto mio fu 'l duro pavimento.\n E per voler di questo esser ben certo,\n s\u00ed come il bracco va cercando a caccia,\n 135 cos\u00ed cercando andava io quel diserto;\n e trovai Ionia stare intra le braccia\n del fauno duro ed abbracciargli il seno.\n Ond'io con grande voce e gran minaccia\n corsi ver' lor, di furia e d'ira pieno;\n 140 ond'elli, spaventati, fugg\u00eer presti.\n Ma, perch\u00e9 Ionia potea correr meno,\n rimase addietro; ond'io:--Ch\u00e9 non t'arresti?\n perch\u00e9 fuggi cos\u00ed, o mala putta?\n Son queste tue parole ed atti onesti?\n 145 Tu m'hai fatto aspettar la notte tutta\n ed hai lasciato me sol per restarte\n con un mostro cornuto e f\u00e8ra brutta.--\n E, perch\u00e9 del fuggir le ninfe han l'arte\n e son veloci, sen fugg\u00ed s\u00ed ratto,\n 150 che non la giunsi mai in nulla parte.\n Allor meco pensai ch'io era matto\n seguitar pi\u00fa Cupido, ch'\u00e8 fallace\n nelle promesse ed infedel nel fatto.\n Con voce irata ed animo audace\n 155 queste parole contra Amor profersi,\n volendo seco guerra e mai pi\u00fa pace,\n s\u00ed come si contiene in questi versi.\nCAPITOLO XVIII\nDove si tratta del reggimento della casa de' Trinci\ne della citt\u00e1 di Foligno.\n --O vano e rio e traditor Cupido,\n nelle promesse iniquo ed infedele,\n morto sia io, se pi\u00fa di te mi fido!\n Che tu non se' piatoso, ma crudele,\n 5 e come falso il tosco amaro ascondi\n nella dolcezza d'un poco di m\u00e8le.\n Perch\u00e9, o falso e rio, non ti confondi\n aver tradito me, che li miei passi\n segu\u00edto han dietro a' tuoi sempre secondi?\n 10 e tra li scogli e tra li duri sassi\n condotto m'hai, con tue promesse ladre,\n tra lochi montuosi e lochi bassi?\n Non \u00e8 venusta dea tua falsa madre;\n anche \u00e8 pellice obbrobriosa e sozza,\n 15 nemica a tutte l'opere liggiadre.\n Io prego che la lingua gli sia mozza\n a chi ti chiama e chiamer\u00e1 mai dio;\n ch\u00e9 chiunque il dice, mente per la strozza.--\n Quando queste invettive dicea io,\n 20 una dea venne innante a mia presenza,\n saggia ed onesta, coll'aspetto pio.\n \u00abIo son nel ciel la quarta intelligenza--\n avea nel manto e nella fronte scritto:--\n Minerva manda me, dea di scienza\u00bb.\n 25 E bench'io avessi el cuor cotanto afflitto,\n quand'io la vidi presso me venire,\n m'inginocchiai, ch\u00e9 prima stava io ritto.\n Benignamente a me cominci\u00f2 a dire:\n --Dimmi, per qual cagion tu ti lamenti?\n 30 Chi t'ha condotto in s\u00ed fatto mart\u00edre?--\n Ed io a lei:--Li falsi tradimenti\n del rio Cupido lamentar mi fanno:\n egli m'ha indutto in cotanti tormenti.\n E se saper tu vuoi il mio affanno,\n 35 ed egli ed una ninfa m'han tradito,\n usando meco falsit\u00e1 ed inganno.\n S'io fossi con Minerva ins\u00fa salito\n nel regno suo, ella mi promettea\n il ben, il qual contenta ogni appetito.\n 40 Ed io lassai l'andar con quella dea\n per l'amor di Cupido, e tornai v\u00f2lto\n nella ruina d'esta selva rea.--\n Rispose quella con benigno volto:\n --Minerva a te mi manda ed anco Ilbina,\n 45 ch'io ti tragga del cammino stolto.\n Degno \u00e8 chi dietro al folle Amor cammina\n e chi nel suo voler fonda sua voglia,\n che cada in precipizio ed in ruina.\n Tu stesso se' cagion della tua doglia,\n 50 da che sapei che donna ha per usanza\n ch'ella si volta e move come foglia.\n Ahi, quanto \u00e8 stolto chi pone speranza\n in cosa vana! ch\u00e9, quando si fida,\n quand'ella manca, ancor egli ha mancanza.\n 55 Non sai che 'l folle Amor sempre si guida\n dietro a Concupiscenzia, e di lei \u00e8 figlio\n quei che coll'arco l'amador disfida?\n E questo, se non ha el mio consiglio,\n convien che erri e come cieco vada\n 60 smarrito per le selve in gran periglio.\n Ma, se tu vuoi tornar in tua contrada,\n s\u00e9guita me, ed io sar\u00f2 tua scorta;\n e riporrotti nella dritta strada.--\n Da quella selva tanto errante e storta\n 65 mi pose nella via, la qual conduce\n dov'\u00e8 della virt\u00fa la prima porta.\n Ivi parlommi e disse la mia luce:\n --Per questa via ritroverai Topino,\n che ad onta il trapass\u00f2 il grande duce.\n 70 E dietro al tuo signor movi il cammino\n (per U e go, e per quel nominollo,\n ch'a Pier fu nel papato pi\u00fa vicino).\n A lui e a' suoi passati il grande Apollo\n diede per segno due mezzi destrieri\n 75 con redini vermiglie intorno al collo,\n in campo bianco, a teste v\u00f2lte, e neri;\n ed a' suoi descendenti il fiero Marte\n per gran virt\u00fa promesso ha fargli interi.\n Come si trova nell'antiche carte,\n 80 di Tros di Troia un suo nepote scese,\n detto anche Tros e venne in quella parte\n ad abitare in quel nobil paese,\n ove il Topino e la Timia corre:\n tanto l'amor di quel bel loco il prese.\n 85 E Troia dal suo nome fece porre,\n chiamato or Trieve, ch\u00e9 antico idioma\n si rinovella e mutando trascorre,\n tanto che Persia Perugia si noma,\n e Spello in prima fu chiamato Specchio:\n 90 cos\u00ed un vocabol su nell'altro toma.\n E questo Tros poi in quel tempo vecchio,\n Flamminea pose al nome della stella,\n che a battaglie influir non ha parecchio.\n Flamminea chiam\u00f2 la citt\u00e1 bella,\n 95 ch\u00e9 \u00abflammeo\u00bb \u00e8 chiamato Marte f\u00e8ro:\n cos\u00ed l'astrologia ancor l'appella;\n ch\u00e9 Marte avea promesso far intero\n il segno de' cavalli in campo bianco:\n per\u00f2 cos\u00ed nomarla ebbe pensiero.\n 100 La citt\u00e1 il nome e 'l loco mut\u00f2 anco;\n e fo Flamminea Foligno nomata,\n perch\u00e9 l'antichit\u00e1 sempre vien manco.\n Ed in quel loco anch'\u00e8 la strada lata,\n la via Flamminea ed or detta Fiammegna:\n 105 cos\u00ed da' patriotti ora \u00e8 chiamata.\n Da questo Tros vien la progenie degna\n de' troian Trinci, ed indi \u00e8 casa Trincia,\n che anco ivi dimora ed ivi regna.\n E costui anco tutta la provincia\n 110 Asia cos\u00ed chiam\u00f2 dall'Asia grande,\n com'uom che nuovo regno a far comincia.\n E, se certezza di questo domande,\n quivi \u00e8 'l monte Soprasia cos\u00ed detto,\n che sopra a quella patria pi\u00fa si spande.\n 115 Da questo scese il prence, a cui subbietto\n amor t'ha fatto e l'influenzia mia,\n quando prima spir\u00f2 nel tuo intelletto.\n Come and\u00f2 Paulo alla man d'Anania,\n al magnanimo torna, che detto aggio,\n 120 ove mai porte serra cortesia.--\n Andai al mio signor cortese e saggio;\n e come alcun domanda ond'altri v\u00e8ne,\n cos\u00ed mi domand\u00f2 del mio viaggio.\n Risposi a lui:--Segu\u00edto ho vana spene\n 125 del rio Cupido, ed egli mi condosse\n tra selve e boschi con acerbe pene.\n Ivi sar\u00eda smarrito, se non fosse\n che una donna venne a me davanti,\n ed ella a te tornar anco mi mosse.--\n 130 E poscia che gl'inganni tutti quanti\n gli dissi di Cupido, e come foi\n con lui tra' boschi per diversi canti,\n di dea Minerva gli ragionai poi\n e come m'invit\u00f2 e fui richiesto\n 135 ch'andassi seco alli reami suoi,\n e che Cupido, quando vide questo,\n egli e la madre sua mi fecer segno,\n tal ch'io tornai al bosco s\u00ed molesto.\n Rispose a questo quel signor benegno:\n 140 --Come l'animo tuo tanto sofferse\n non seguitar Minerva all'alto regno,\n da che ella t'invit\u00f2 e ti proferse\n il carro suo eccellente e di splendore,\n e d'essere tua guida anco s'offerse?\n 145 Non sai che ogni senno e buon valore\n vien dal suo regno e che da lei procede\n ci\u00f2 che per probit\u00e1 s'acquista onore?\n Prego, se mai a me avesti fede,\n che questo regno tu vadi cercando;\n 150 ch\u00e9 poi io vi verr\u00f2, s'ella il concede.--\n Che risponder dovea a tal domando\n se non:--Far\u00f2, signor, ci\u00f2 che m'hai imposto,\n ch\u00e9 ogni priego tuo a me \u00e8 comando?--\n E, perch'egli ad andarvi era disposto,\n 155 questo, a cercar di quel regno felice,\n mi diede pi\u00fa fervor ad andar tosto,\n nel tempo che 'l seguente libro dice.\n DEL REGNO DI SATANASSO\nCAPITOLO I\nCome la dea Pallade appare all'autore\ne gli descrive la sedia e signoria di Satanasso.\n Febo la notte addovagliava al giorno\n ed era in compagnia col dolce segno,\n che prima fa di fiori il mondo adorno,\n quando a cercar mi misi il nobil regno\n 5 di dea Palla Minerva, per comando\n d'un mio signor magnanimo e benegno.\n E come alcun che parla seco, quando\n va pel cammin soletto, faceva io,\n e questo dicea meco ragionando:\n 10 --O alto re, monarca, o sommo Dio,\n non vedi tu che 'l mondo va s\u00ed male\n e quanto egli \u00e8 perverso e fatto rio?\n Non vedi il vizio che la virt\u00fa assale?\n E da che questo da te si comporta,\n 15 o tu nol vedi o dell'uom non ti cale.\n Gi\u00e1 l'avarizia ha ogni piet\u00e1 morta\n ed ogni parentela ed ogni fede:\n il vizio alla virt\u00fa serra ogni porta.\n Non vedi che superbia sotto il piede\n 20 tien la giustizia e con orgoglio e pompe\n s'\u00e8 posta armata su nella sua sede?\n Non vedi tu che la lussuria rompe\n le leggi di natura e che 'l corrotto\n quel di novella et\u00e1 poscia corrompe?\n 25 Signor e Dio, se Abraam o Lotto\n in Sodoma e Gomorra tu non trovi,\n cio\u00e8 nel mondo a tanto mal condotto,\n perch\u00e9 tu 'l foco e 'l zolfo gi\u00fa non piovi?\n e se tu odi tante a te biasteme,\n 30 perch\u00e9 a fulminar Vulcan non movi?\n perch\u00e9 tu non disfai il crudel seme,\n peggior che Licaon e che i giganti,\n se non che lor fortezze son pi\u00fa sceme?--\n Minerva in questo venne a me davanti,\n 35 e non la conoscea che fosse quella;\n ed una dea pareva alli sembianti.\n Come che saggia e vergine donzella,\n d'oliva e d'\u00f2r portava due corone,\n talch\u00e9 mai 'mperator l'ebbe s\u00ed bella.\n 40 Scolpito avea l'orribile Gorgone\n nel bello scudo, ch'ella ha cristallino,\n il quale porta e contro i mostri oppone.\n Quando a lei fui e reverente e chino,\n ella mi disse:--Dove andar intende\n 45 l'animo tuo per questo aspro cammino?--\n Risposi a lei:--Tra belli monti scende\n Topino in Umbria, ed in quel bel paese,\n sinch\u00e9 al Tevere l'acqua e il nome rende,\n regna un signor magnanimo e cortese:\n 50 egli mi manda a cercar un reame,\n al qual Minerva m'invit\u00f2 e richiese.\n Ma, perch\u00e9 allor Cupido di tre dame\n colle saette sue m'avea invaghito,\n con quali e' fa che fortemente s'ame,\n 55 non accettai da quella dea l'invito,\n ma dietro al folle amor con molti affanni,\n s\u00ed come cieco, andato son smarrito.\n Or ch'io mi so' avveduto de' suo' inganni\n e che ogni cosa si pu\u00f2 dir niente,\n 60 la qual vien men per correre degli anni,\n che non andai con Palla il cor si pente;\n e 'l detto mio signore anco sen duole,\n ch'io non fu' al suo comando ubbidiente.\n Per\u00f2 mi ha detto in espresse parole\n 65 ch'io cerchi infin che truovi ov'ella regna,\n ch'egli al suo regno poi venir vi vuole.\n Per\u00f2 ti prego, donzella benegna,\n o tu m'insegna il loco, ove la trovi,\n o di guidarmi infino a lei ti degna.\n 70 E s'al mio basso prego non ti movi,\n m\u00f2vati quel signor, il qual mi manda,\n e li congiunti suoi antichi e nuovi.--\n Minerva, poich\u00e9 'ntese mia dimanda,\n sorrise alquanto e fece lieta c\u00e8ra,\n 75 mostrando faccia dilettosa e blanda.\n Rispose poi:--Virt\u00fa e fede vera\n del prince, che tu dici, e suoi passati,\n e che ne' figli e nepoti si spera,\n lui e suo' amici a me fatt'han s\u00ed grati,\n 80 ch'io son venuta a te, e son colei\n che t'invitai a' mie' regni beati.--\n Allora la conobber gli occhi miei,\n ond'io m'inginocchiai e mia persona\n prostrai in terra innanti alli suoi pi\u00e8i,\n 85 dicendo:--O dea Minerva, a me perdona,\n s'io te lassai e seguitai Cupido\n per la via ria e abbandonai la buona.\n E quella fiamma, che fe' errar gi\u00e1 Dido,\n Ercole e Febo, innanzi a te mi scuse\n 90 e 'l pentimento, pel qual piango e grido.--\n Allor porse la mano e s\u00ed la puse\n benignamente in su la mia man destra\n e poscia in questo modo mi rispuse:\n --Da che Cupido e la sua via alpestra\n 95 non vuoi pi\u00fa seguitar, io acconsento\n menarti meco ed esser tua maestra.\n Ma dimmi prima se tu se' contento\n combatter contra i mostri ed esser forte,\n che nel viaggio d\u00e1nno impedimento.--\n 100 Risposi:--O sacra dea, pi\u00fa mi conforte\n che Adriana Teseo, quando il fe' saggio\n scampar del laberinto e della morte.\n Pensa se del venir gran voglia io aggio,\n quando cos\u00ed soletto mi son mosso\n 105 a cercar te per questo aspro viaggio.\n Tu sai la mia virt\u00fa e quant'io posso;\n e, s'ella \u00e8 poca, io spero aver ardire,\n se io mi guider\u00f2 dietro il tuo dosso.\n Ma prego, o sacra dea, mi vogli dire\n 110 qual \u00e8 'l cammino e prego che mi mostri\n chi sta in quel viaggio ad impedire.\n --Il primo e principal di tutti i mostri\n --rispose--\u00e8 Satanasso ed ha 'l governo\n del mortal mondo e delli regni vostri.\n 115 Gi\u00e1 pi\u00fa tempo \u00e8 ch'egli usc\u00ed for d'inferno,\n e prese questo mondo a gran furore\n e ci\u00f2 che muta tempo, o state o verno.\n Nel primo clima sta come signore\n colli giganti, ed un delle sue braccia\n 120 pi\u00fa che nullo di loro \u00e8 assai maggiore\n Tu vederai il suo busto e la sua faccia,\n e gloriarsi e dir che 'l mondo vince,\n e gi\u00e1 la sua superbia al ciel menaccia.\n E con lo scettro in mano il mondan prince\n 125 in mezzo il mondo siede triunfante,\n come signore e re delle province.\n E sua citt\u00e1 ha fatta somigliante\n al vero inferno e li vizi egli tiene,\n la morte e le miserie tutte quante.\n 130 E perch\u00e9 questo tu lo sappi bene,\n convien che tu discendi in quel profondo,\n onde ci\u00f2 che si parte, alla 'ns\u00fa vene.\n Visto lo primo cerchio e poi il secondo,\n l'anime afflitte e gli altri cerchi ancora,\n 135 ritornerem tu e io quass\u00fa nel mondo.\n Il regno di Sat\u00e1n cercherai allora\n e la sua gran citt\u00e1 e l'alto seggio\n anche vedrai e chi con lui dimora.\n Or, perch\u00e9 'l mondo va di male in peggio,\n 140 se ben pensi chi 'l guida, da te stesso\n chiaro il vedrai s\u00ed com'io chiaro il veggio.\n Tu ragionavi, a me venendo adesso,\n ond'\u00e8 che 'l mondo \u00e8 s\u00ed di vizi pieno\n e perch\u00e9 tanto mal da Dio \u00e8 permesso.\n 145 Or sappi ben che Dio ha dato il freno\n a voi di voi; e se non fosse questo,\n libero arbitrio in voi sarebbe meno.\n E voglio ancor che ti sia manifesto\n che vostra carne, le pi\u00fa volte, volta\n 150 vostra ragion dal segno d'atto onesto.\n E perch\u00e9 al vizio \u00e8 prona gente molta,\n Sat\u00e1no vince; e questa \u00e8 la sementa\n e la zizania sua mala ricolta.\n Vince anco le pi\u00fa volte quando tenta,\n 155 ch\u00e9 'n mille modi torcer vostra nave\n puote dal porto ritto, ove si avventa;\n ch\u00e9 correre a vert\u00fa sempre par grave\n a vostra carne, la qual sempre inc\u00edta\n a quel che par al senso pi\u00fa soave.\n 160 Facciamo omai di qui nostra partita:\n il tempo \u00e8 breve, ed \u00e8 distante il loco,\n ov'\u00e8 d'andar al ciel prima salita.\n --Minerva mia, te primamente invoco,\n e poi le muse, che dell'acqua chiara\n 165 del fonte pegaseo mi diate un poco.--\n Cos\u00ed risposi e poi:--Or mi dichiara\n di questo che mi d\u00e1 gran maraviglia:\n tu sai che domandando l'uomo impara.\n Quando fu che Sat\u00e1n e sua famiglia\n 170 lasci\u00f2 di s\u00e9 e de' suoi l'inferno v\u00f2to\n e venne su, ove si more e figlia?\n Vorrei saper ancor, ch\u00e9 non mi \u00e8 noto,\n s'egli \u00e8 signor di tutti quegli effetti,\n che influisce il cielo ovver suo moto.--\n 175 Allora mi rispose in questi detti.\nCAPITOLO II\nCome l'autore narra a Minerva che e' si confida\nvincere Satanasso e suoi vizi.\n --Vergine saggia e bella il cielo adorna,\n di cui Virgilio poetando scrisse:\n \u00abNova progenie in terra dal ciel torna\u00bb.\n Resse gi\u00e1 'l mondo, e s\u00ed la gente visse\n 5 sotto lei in pace, che l'et\u00e1 dell'oro\n el secol giusto e beato si disse.\n La terra allora senza alcun lavoro\n dava li frutti e non facea mai spine;\n n\u00e9 anco al giogo si domava il toro.\n 10 Non erano divisi per confine\n ancor li campi, e nullo per guadagno\n cercava le contrade pellegrine.\n Ognuno era fratello, ognun compagno;\n ed era tant'amor, tanta pietade,\n 15 ch'a una fonte bevea il lupo e l'agno.\n Non eran lance, non erano spade;\n non era ancor la pecunia peggiore\n che 'l guerreggiante ferro pi\u00fa fiade.\n La Invidia, vedendo tanto amore,\n 20 di questo bene a s\u00e9 gener\u00f2 pene,\n e d'esto gaudio a s\u00e9 diede dolore:\n con quella doglia che a lei si convene,\n and\u00f2 in inferno, ed alli vizi dice\n quanta pace avea il mondo e quanto bene.\n 25 E l'Avarizia, d'ogni mal radice,\n seco ne trasse e menolla su in terra\n per conturbar quello stato felice.\n Vennon con lei la Crudelt\u00e1 e la Guerra,\n l'Inganno e Froda e la Malizia tanta,\n 30 che ha guasto 'l mondo e fa che cotanto erra.\n Presa ch'ebbe la terra tutta quanta,\n non gli bast\u00f2, e 'l mar ebbe assalito\n la rea radice d'ogni mala pianta.\n Quando Nettuno vide l'uomo ardito\n 35 cercar il mare e non temer tempesta\n e di solcarlo e gir per ogni lito,\n trasse di fuor del mar la bianca testa\n e 'l suo tridente, ed ebbe gran pavento,\n dicendo:--Oim\u00e8! Che novit\u00e1 \u00e8 questa?\n 40 Come ha trovato l'uom tanto argomento,\n che passa il mar e non teme dell'onde,\n e va e vien a vela ad ogni vento?--\n Come cosa nociva si nasconde\n che non si trove, per\u00f2 che si teme\n 45 che, se si trova, gran mal ne seconde;\n cos\u00ed Natura de' denari il seme\n pose e nascose nel regno di Pluto,\n perch\u00e9 la gente non turbasse insieme.\n Ma l'amor dell'aver tanto cresciuto\n 50 sfond\u00f2 la terra e 'l gran Pluto infernale\n robb\u00f2, gridante lui, chiamando aiuto.\n Questo fu poi cagion di maggior male,\n ch\u00e9 ruppe amor e legge ed ogni patto,\n e fe' il figliolo al padre disleale.\n 55 Vedendo Astrea il mondo esser disfatto\n e 'l viver santo, e guasto il giusto regno\n dal mostro reo, che fu d'inferno tratto,\n lass\u00f2 la terra prava a grande sdegno,\n s\u00ed come indegna della sua presenza,\n 60 e torn\u00f2 al ciel, ov'ella \u00e8 fatta segno.\n Allor li vizi senza resistenza\n usc\u00eero di comun da Mongibello\n col loro ardire e con la lor potenza.\n E come quei che han preso alcun castello,\n 65 gridan:--Brigata, s\u00fa! il castello \u00e8 nostro!--\n per veder se si leva alcun ribello;\n cos\u00ed, usciti dall'infernal chiostro,\n Satan e i suoi questo mondo pigli\u00e2ro:\n allor d'inferno usc\u00ed il primo mostro.\n 70 E sua superba sede colloc\u00e2ro\n in mezzo il mondo, dov'\u00e8 il primo clima,\n onde l'un polo e l'altro vede chiaro.\n L\u00e1 sta la via che al regno mio sublima,\n su per la qual nessun pu\u00f2 mai venire,\n 75 se colui non combatte e vince in prima.\n L\u00ed stanno i vizi sol per impedire\n che verso il cielo alcun ins\u00fa non saglia\n con grandi orgogli ed onte e con ardire.\n Chi come Circe la mente gli abbaglia,\n 80 chi canta dolce pi\u00fa che la sirena,\n e chi menaccia e chi d\u00e1 gran battaglia.\n Di mille se un passa e anco appena,\n viene in contrada di splendor sereno,\n di belli fiori e dolci canti piena.\n 85 Ed in quel pian s\u00ed chiaro e tanto ameno\n stanno quei ch'ebbon fama di virtute,\n bench\u00e9 battesmo e fede avesson meno:\n ch\u00e9 non vuol l'alto Dio che sien perdute\n le prodezze in inferno, e senza fede\n 90 vuol che null'abbia l'eternal salute.\n Chi, oltre andando, pi\u00fa suso procede,\n trova nel gran giardin quattro donzelle:\n oh beato chi l'ode e chi le vede!\n Tre altre pi\u00fa divine e vieppi\u00fa belle\n 95 ne stan pi\u00fa su, e con queste sto io,\n accompagnata da quelle sorelle.\n Ed in quel loco bel vagheggio Dio,\n e veggio il primo artista nel suo esemplo\n tra le bellezze del suo lavorio.\n 100 Poi vo pi\u00fa alto ed entro nel gran templo\n del sommo Iove, e con la mente mia\n a faccia a faccia il Creator contemplo.\n Anche domandi quanta signoria\n ha Satanasso; ed, a ci\u00f2 dichiararte,\n 105 convien con fondamento sappi in pria\n che Dio \u00e8 primo prince in ogni parte\n sempre e di tutto, ed a' primi motori\n la sua virt\u00fa comunica e comparte.\n E questi dopo lui sonno signori\n 110 di tutte quelle cose, che 'l ciel move,\n perch\u00e9 de' cieli son governatori.\n Adunque ci\u00f2 che da influenzia piove,\n o che fa 'l tempo, cio\u00e8 state o verno,\n ovver natura delle cose n\u00f2ve,\n 115 tutto procede dal moto superno;\n e la virt\u00fa vien da' motor primai,\n a cui de' cieli Dio dato ha 'l governo.\n Pi\u00fa che gli altri motor Sat\u00e1n assai\n ha di potenza, e da lui esser mossa\n 120 puote ogni spera ed influir suoi rai.\n E se ogni cosa natural \u00e8 scossa\n dai ciel, che viene in terra, or puoi sapere\n quant'ella \u00e8 grande e ampia la sua possa.\n E, poich\u00e9 colpa gli fe' l'ali nere,\n 125 Dio spesse volte l'operar gli toglie,\n s\u00ed come in Iobbe si poteo vedere.\n Vero \u00e8 che a certe cose egli lo scioglie,\n ch\u00e9 vuol che sia signor sopra la gente\n che segue la sua legge e le sue voglie.\n 130 E tu lo proverai s'egli \u00e8 possente\n coi vizi suoi ed anco s'egli stanca\n la carne vostra, quando a lui consente.\n Ma non temere e l'animo rinfranca;\n reduci i grandi esempli alla memoria,\n 135 ch\u00e9 fortezza incorona, se non manca.\n Nella battaglia s'acquista vittoria.\n Nessun mai per fuggir o per riposo\n venne in altezza, fama ovver in gloria.\n E, se il cammino \u00e8 duro o faticoso,\n 140 pensa del fine e pensa qual sia il frutto\n fra te medesmo saggio e virtuoso.--\n Allor allor alla briga condutto\n stato essere vorria: tanta speranza\n mi die' il suo dir e rinfranc\u00f2me tutto.\n 145 E per\u00f2 dissi con grande baldanza:\n --Andiam, ch\u00e9 nullo mostro pel sentiero\n di potermi impedire avr\u00e1 possanza.\n --Non ti fidar di te, n\u00e9 sie alt\u00e8ro\n --rispose,--ch\u00e9 colui \u00e8 pi\u00fa da lunge,\n 150 che stima esser pi\u00fa appresso nel pensiero.\n Nessun giammai a buon termine giunge,\n se del gir poco o del tornar addietro\n non fa a s\u00e9 gli spron, con che si punge.\n Perch\u00e9 di s\u00e9 presunse il gran san Pietro,\n 155 cadde, da vento piccolo commosso,\n non come ferma pietra, ma di vetro.--\n Quando udii questo, di vergogna rosso\n s\u00ed diventai, che dissi per scusarme:\n --Minerva, senza te niente posso.\n 160 Perch\u00e9 spero da te la possa e l'arme\n --diss'io,--credo cos\u00ed esser difeso,\n se dietro a te ti degni di guidarme.--\n Allor si mosse, quando m'ebbe inteso.\nCAPITOLO III\nCome l'autore mediante la dea Minerva ritorn\u00f2 dell'inferno,\ndove era disceso.\n Denanti a me andava la mia guida,\n e poi io dietro per una via stretta,\n seguendo lei come mia scorta fida.\n Andando come alcun che non sospetta,\n 5 subitamente un gran tuon mi percosse,\n s\u00ed come Iove il fa, quando saetta.\n E questo il sentimento mi rimosse,\n tanto ch'io caddi quand'egli mi colse,\n s\u00ed come un corpo che senz'alma fosse.\n 10 Dal punto che li sensi il tuon mi tolse,\n insin che 'n me tornai, una gross'ora,\n al mio parer, di tempo il ciel rivolse;\n ch\u00e9, quando io caddi, veniva l'aurora,\n e gi\u00e1 toccava l'orizzonte il sole;\n 15 e poscia il vidi un mezzo segno fuora.\n Su mi levai senza far pi\u00fa parole,\n cogli occhi intorno stupido mirando,\n s\u00ed come l'epilentico far suole.\n Dicea fra me:--Oh Dio! or come e quando\n 20 son qui venuto?--e stava pauroso.\n Dov'\u00e8 Minerva, ch'andai seguitando?\n Sotto qual parte del ciel io mi poso?\n Sto sotto il Cancro, o sto io sotto l'Orse\n con quelli che han sei mesi il sol nascoso?--\n 25 Cos\u00ed, mirando intorno, alfin m'accorse\n che mi guardava e stava a destra banda\n la saggia donna, che la via mi scorse.\n A me parlando senza mia domanda,\n mostr\u00f2 due vie, e disse:--D'este due\n 30 prendi qual vuoi, ed a tuo piacer anda.\n Questa, ch'\u00e8 arta e che mena alla 'ns\u00fae,\n \u00e8 nel principio molto aspera e forte,\n ma poi nel fine ha le dolcezze sue.\n Quest'altra, che tu ve', che ha sette porte\n 35 e che \u00e8 lata e mena giuso al basso,\n \u00e8 dolce in prima e poi mena alla morte.--\n Oh semplicetto me, ignorante e lasso!\n Presi la via, che all'ingi\u00fa conduce,\n perch\u00e9 pi\u00fa lieve mi parea al passo.\n 40 E nell'entrata \u00e8 ver che quivi \u00e8 luce;\n ma, perch'\u00e8 scura quanto pi\u00fa gi\u00fa mena,\n andai poi come un cieco senza duce.\n Cos\u00ed, privato di luce serena,\n io giunsi in poco tempo insino al centro,\n 45 onde nullo esce senza forza e pena.\n Quando mi vidi condutto l\u00ed entro,\n dicea tra me:--Come son qui venuto\n in questo fondo, ove io cos\u00ed m'inventro?\n --Non cercar ora come se' caduto\n 50 --disse Minerva dalla lungi alquanto,--\n ma pensa uscirne e che a ci\u00f2 abbi aiuto;\n ch\u00e9 'ngi\u00fa andando sei disceso tanto,\n che pi\u00fa che 'n testo loco non si scende,\n e chi n'uscisse sal da ogni canto.\n 55 --Io prego, o dea, il braccio a me distende\n --diss'io,--ch\u00e9 uscirne m'affatico invano,\n se tu con la tua destra non m'apprende.--\n Allor dea Palla stese a me la mano\n e di quel fondo, dove io m'era messo,\n 60 mi trasse su, tirandomi pian piano.\n Quand'io fui ito un miglio su da cesso\n dal loco, che Sat\u00e1n lassato ha v\u00f2to,\n trovai Cocito e 'l laco suo da presso.\n E, perch\u00e9 questo laco \u00e8 pi\u00fa remoto\n 65 da ogni caldo di sole e di foco,\n pi\u00fa fredda cosa non ha 'l mondo toto.\n E tutto il freddo e ghiaccio, ch'\u00e8 'n quel loco,\n ove la tramontana fa 'l zenitte,\n rispetto a quello par niente o poco.\n 70 De' traditori l'anime confitte\n vid'io nel ghiaccio, che Iuda e Caino\n seguiron gi\u00e1 con fatti e parol fitte.\n E, perch\u00e9 in poco tempo gran cammino\n avea a far, di l\u00ed la dea mi trasse\n 75 inverso a un monte, a quel laco vicino.\n Per una grotta volle ch'io andasse\n dentro fra 'l monte, e sette miglia suso\n per la via oscura e con le gambe lasse.\n Quant'io vedrei con ciascun occhio chiuso,\n 80 tanto vedea l\u00ed con l'occhio aperto,\n insin che uscimmo fuor per un pertuso.\n Quand'io fui giunto su nel monte ad erto,\n l'anime vidi di chi Dio biastema,\n in un gran piano di fumo coperto.\n 85 Ancor, pensando, al cor me ne vien t\u00e9ma,\n ch\u00e9 io vedea a tutti arder la bocca,\n e tutti quanti avean la lingua scema.\n E come spesso la grandine fiocca,\n s\u00ed caggion sopra lor saette accese,\n 90 e non invan, ch'ognuna ad alcun tocca.\n Sat\u00e1no trasse fuor d'esto paese,\n s\u00ed come Palla disse, i gran giganti,\n quando co' vizi suoi il mondo prese.\n Vero \u00e8 che l\u00ed ne stanno ancora alquanti\n 95 distesi in terra e con caten legati,\n s\u00ed che non son nel mondo tutti quanti.\n Io vidi lor quando son fulminati,\n che biastimavan la virt\u00fa eterna,\n superbi, alt\u00e8ri e con li volti irati.\n 100 Poi ne partimmo e per una caverna\n intrammo un monte, e tanto la dea salse,\n che fummo ins\u00fa la terza valle inferna.\n Chiunque con fatti e con parole false\n inganna altrui con doli ovver con frode,\n 105 quivi ha lo scotto con amare salse;\n ch\u00e9 strascinati son dietro alle code\n in forma di cavalli da' dim\u00f2ni,\n e chiunque corre pi\u00fa, quello \u00e8 pi\u00fa prode.\n E sopra quelli stan cogli speroni\n 110 altri dim\u00f2ni, e tra le pietre dure\n strascinan l'alme supine e bocconi.\n E quivi del mal peso e di misure\n si fa vendetta e d'ogn'infedel arte,\n de' giochi, d'arcarie e di man fure.\n 115 La dea mi disse:--Andiamo in altra parte,\n ch\u00e9 'n poco tempo al cerchio d'Acheronte\n di piaggia in piaggia a me convien menarte.--\n Allor intrammo per un alto monte,\n sempre montando, ed al sommo salito\n 120 vidi gran valle, quando alzai la fronte.\n Il vizio contro natura \u00e8 punito\n acerbamente in quella valle piana;\n l\u00ed sta in tormento ciascun sodomito.\n Questi omicidi della spezie umana\n 125 l'amor, che figlia e fa congiunti insieme,\n spreggiano e gittan come cosa vana.\n Sopra esti destruttor dell'uman seme\n il foco e 'l zolfo puzzolente piove,\n e dentro al fuso rame ancor si geme.\n 130 Salimmo poi nel quinto cerchio, dove\n li sette vizi avevan gi\u00e1 le case,\n anzi che gisson dell'inferno altrove.\n Ell'eran grandi e vacue rimase,\n s\u00ed come a Roma sono le ruine\n 135 delle anticaglie con le mura pase:\n sordide tutte e piene di fuline,\n deserte dentro e con le mura rotte,\n piene di rovi, d'ortiche e di spine.\n La dea a me:--L\u00e1 dentro in quelle grotte\n 140 stava Cerbero gi\u00e1 rabbioso cane\n con tre bocche latranti aperte e ghiotte.--\n Per una intrammo di quelle gran tane,\n sinch\u00e9 le male bolge ebbi salite:\n alfine uscimmo in contrade lontane,\n 145 ove trovammo la citt\u00e1 di Dite\n con le mura di foco intorno intorno,\n con le torri alte e con le case ign\u00edte.\n Ogni casa parea ardente forno.\n Vedea i dem\u00f2ni colle acerbe viste,\n 150 che l\u00ed per manegoldi fan soggiorno.\n Io vidi tormentar l'anime triste;\n e secondo le colpe, che han commesse,\n cos\u00ed conven che l\u00ed doglia s'acquiste.\n Io vidi molte per mezzo esser fesse\n 155 con dure seghe, ed alcune co' denti\n mordevan s\u00e9, lacerando se stesse.\n E questo \u00e8 'l duol che pi\u00fa gli fa dolenti,\n il verme della stizza, e maggior gridi\n fa trarre a lor che tutti altri tormenti.\n 160 Vidi i rattori e vidi gli omicidi\n tagliare a pezzi e le lor membra crude\n rifar, e poi tagliarle ancor gli vidi.\n Io far\u00f2 come quel che 'l dir conchiude.\n Sappi, lettor, che 'l Iudice del tutto,\n 165 che vede il core, il vizio e la virtude,\n non vuol mai che 'l ben far non abbia frutto\n d'onore e di letizia, e non vuol mai\n che 'l male alfin non partorisca lutto\n con piena e con tormento di gran guai.\nCAPITOLO IV\nDove trattasi del limbo e del peccato originale.\n Uscito er'io della citt\u00e1 del foco\n dietro a mia scorta, ch'andai seguitando;\n e, poi che ins\u00fa andato fui un poco,\n la domandai e dissi:--Dimmi quando\n 5 noi perverremo ove Sat\u00e1n dimora,\n che dica questo inferno al suo comando.--\n Ed ella a me:--Ins\u00fa andando ancora,\n convien che noi passiam duo altri cerchi,\n 'nanzi che d'esto inferno usciamo f\u00f2ra.\n 10 Il limbo \u00e8 'l primo che convien che cerchi;\n un altro poi convien che ne trapassi,\n 'nanzi che su nel mondo tu soverchi.--\n Ben sette miglia ins\u00fa movemmo i passi,\n e trovammo una porta, ov'era scritto\n 15 nell'arco suo, ch'avea di smorti sassi:\n \u00abIn questo limbo, ovvero in questo Egitto,\n \u00e8 pena privativa e sol di danno,\n e nullo senso in questo loco \u00e8 afflitto.\n Dentro \u00e8 la gran prigion di quel tiranno,\n 20 che tenne gi\u00e1 gli amici da Dio eletti\n e vinse Adamo a tradimento e inganno\u00bb.\n Per legger questi detti io mi ristetti\n presso alla porta l\u00ed, ch'era serrata;\n e, poich'io gli ebbi intesi e tutti letti,\n 25 Minerva con la man chiese l'entrata.\n Non so chi fusse il portinar cortese,\n che ratto aprio e diedene l'andata.\n Quand'io fui dentro, vidi un bel paese,\n di fiori e d'arboscelli e d'erbe adorno,\n 30 s\u00ed come Tauro fa nel suo bel mese.\n Ma qual \u00e8 luce al cominciar del giorno,\n tal era quivi; e per mezzo la valle\n eran fantini ed anche intorno intorno,\n che su per le viol vermiglie e gialle\n 35 givano a spasso, e alcuni dietro ai grilli,\n dietro agli uccelli e dietro alle farfalle.\n Ed una schiera, ch'eran pi\u00fa di milli,\n vedendo noi, insieme si rist\u00e2ro\n ed ammir\u00e2rno timidi e tranquilli.\n 40 --O fanciulletti, a cui ritorna amaro\n il peccato d'Adamo, ed a cui costa\n il non aver baptismo tanto caro,\n al mio domando fatemi risposta:\n perch\u00e9 iustizia per altrui offesa\n 45 vostra innocenzia in questo loco ha posta?--\n Quando questa parola ebbono intesa,\n suspiron tutti con dolor, che viene\n di mezzo il cor, che gran doglia appalesa.\n Poi un di loro a me:--Se noti bene,\n 50 io ti dichiarer\u00f2, s\u00ed come estimo,\n perch\u00e9 giustizia qui chiusi ne tiene.\n Quando Dio fece il nostro padre primo,\n gl'impeti rei ovver concupiscenza\n non volle fusse in suo corporal limo.\n 55 E questo grande dono ed eccellenza\n ebbe per grazia e non gi\u00e1 per natura,\n e sol tenendo a Dio obbedienza.\n E cos\u00ed l'alma sua splendente e pura\n Egli cre\u00f2 e di iustizia santa,\n 60 formata alla sua immago e sua figura;\n ma di questa eccellenza e grazia tanta,\n il Creator iustamente privollo,\n quando la vile e test\u00e9 nata pianta\n incontra al suo Fattor alz\u00f2 lo collo,\n 65 ed a subgestion del mal serpente\n volle saper quanto sa il primo Apollo.\n E, perch\u00e9 non fu a Dio obbediente,\n a lui la carne divent\u00f2 rubella\n contra lo spirto e legge della mente.\n 70 Bench\u00e9 sia l'alma da s\u00e9 pura e bella,\n niente meno quand'ella il corpo avviva,\n per due cagion diventa brutta e fella.\n Prima \u00e8 che nasce di iustizia priva;\n l'altra \u00e8 che quand'ell'\u00e8 al corpo unita,\n 75 nella bruttezza sua si fa cattiva;\n ch\u00e9 vorrebbe ire al bene ed \u00e8 impedita\n dal corpo, collo qual ella sta insieme,\n ed al mal far la tira ed anche invita.\n Questa bruttura va di seme in seme\n 80 in tutti quelli che nascon d'Adamo,\n ch'ogni uman corpo da quel primo geme.\n Per questo infetti in questo loco stiamo\n dannati pel peccato originale,\n ch\u00e9 'l mal della radice \u00e8 in ogni ramo.\n 85 Oh lassi noi, ch\u00e9 l'acqua baptismale,\n per la qual l'uomo a Dio figliol rinasce,\n sanati arebbe noi da questo male!\n Se non che noi dal ventre e dalle fasce\n di nostre mamme la morte ne tolse\n 90 e menonne quaggi\u00fa tra queste ambasce.--\n Ciascun di loro al ciel la faccia volse,\n al suon d'este parol, con s\u00ed gran pianti,\n che facean pianger me: s\u00ed me ne dolse.\n Addomandato arei di loro alquanti\n 95 di quai parenti stati eran figlioli,\n se non che ratto mi spar\u00eer dinanti.\n Parecchie miglia poi andammo soli,\n sinch\u00e9 trovammo grandissima rupe,\n alta vieppi\u00fa che nullo uccello voli,\n 100 ch'avea le sue caverne oscure e cupe,\n s\u00ed come quando \u00e8 s\u00ed buia la notte,\n che par che gli occhi riguardando occ\u00fape.\n Trovammo l\u00ed sette gran porte rotte,\n tutte di rame, e di ferro il verchione,\n 105 le qua' serravan gi\u00e1 quelle gran grotte.\n Palla mi disse:--Qui 'n questa pregione\n il drago Satanasso gi\u00e1 ritenne\n l'anime circumcise, elette e buone,\n sinch\u00e9 'l Figliol di Dio su dal ciel venne\n 110 e per la colpa delli suoi amici\n pag\u00f2 il bando e la morte sostenne.\n Allor ardito e con splendor felici\n venne quaggi\u00fa vittorioso e forte\n contra Sat\u00e1n e gli altri suoi nemici,\n 115 e disse a lor:--Levate via le porte:\n traete fuor la mia turba fedele,\n che menar voglio alla celeste corte.--\n Allor Sat\u00e1n, omicida crudele,\n a lui s'oppose e cominci\u00f2 la guerra,\n 120 come gi\u00e1 fece contra san Michele.\n Puse le rene l\u00e1 dove se serra;\n ma Cristo lui e 'l catarcion d'acciaio\n e queste porte allor gett\u00f2 a terra.\n Quando in la grotta entr\u00f2 'l lucido raio,\n 125 Adamo disse:--Questo \u00e8 lo splendore,\n che mi spir\u00f2 in faccia da primaio.\n Venuto se', aspettato Signore:\n dal petto, dalle mani e dalle piante\n il sangue hai dato in prezzo del mio errore.--\n 130 L'anime a lui amiche tutte quante\n trasse del limbo l'alto Emanu\u00e9l,\n vittorioso lieto e triunfante.\n Adamo ed Eva e 'l lor figliolo Ab\u00e9l,\n Seth e No\u00e8, che fece la santa arca,\n 135 Abra\u00e1m, Isac e ancora Isra\u00e9l\n e Mois\u00e9s e ciascun patriarca\n e David re e tutti li profeti\n men\u00f2 al cielo, ov'\u00e8 'l primo Monarca.--\n Ed io a lei:--Li saggi e li poeti\n 140 sonno egli qui? e gli antichi romani?\n o sonno in lochi pi\u00fa felici e lieti?--\n Ella rispose:--In questi prati vani\n non son cotesti, che lor alti ingegni,\n come gi\u00e1 dissi, han lochi pi\u00fa soprani.\n 145 Virt\u00fa e fama loro ha fatti degni\n a star con Marte ed a star con le muse\n e con Apollo in pi\u00fa splendenti regni.--\n Poscia la man deritta alla mia puse,\n trassemi per la porta, onde mi mise;\n 150 e, ratto ch'io fui fuora, ella si chiuse.\n Cos\u00ed dal tristo limbo mi divise.\nCAPITOLO V\nCome l'autore trova certe anime, che\nstavano penando presso al limbo.\n Appresso al limbo, intorno e in ogni canto\n son gran montagne selvagge e spinose\n ed aspre s\u00ed, che mai le vidi tanto.\n Ed anime stan l\u00ed, che van penose\n 5 intorno errando per quel loco incolto\n tra rovi e spin, che mai producon rose.\n E, perch'\u00e8 quivi l'aer grosso e folto,\n io non scorgea alcun, bench'io mirasse,\n tanto che 'l conoscesse ben nel volto.\n 10 Per\u00f2 Minerva assent\u00ed ch'io andasse\n ivi tra lor e, se trovava alcuno\n conosciuto da me, ch'io gli parlasse.\n Allor me misi tra quell'aer bruno\n e tra gli sterpi, ed acuto mirai,\n 15 tanto che l'occhio mio ne conobbe uno.\n --O anima gentil, che tanto amai,\n 'nanzi che 'l corpo ti lassasse sola,\n perch\u00e9 tra questi lochi asperi stai?\n Son qui i compagni della prima scola?\n 20 \u00e8 qui Arnoldo ed Agnolo da Riete?\n Potrei parlar ed udir lor parola?--\n Rispose a me con sembianze non liete:\n --Accorso e gli altri due, che tu m'hai detti,\n son fuor d'inferno in pi\u00fa alta quiete.\n 25 Tra questi asperi luochi siam ristretti\n quei che tu vedi, e tra montagna oscura,\n ch\u00e9 su del mondo non uscimmo netti;\n ch\u00e9 l'et\u00e1 pueril, ch'\u00e8 da s\u00e9 pura,\n ora \u00e8 dal mondo rio cos\u00ed corrotta,\n 30 ch'\u00e8 piena di malizia e di bruttura,\n ed in tutti que' vizi \u00e8 mastra e dotta,\n che la natura a quell'et\u00e1 occulta,\n e senza possa col des\u00edo n'\u00e8 ghiotta.\n 'Nanzi che alcun di noi all'et\u00e1 adulta\n 35 venuto fusse, ordin\u00f2 l'alto Dio\n che nostra carne su fusse sepulta.\n Se tratti non ne avesse il Signor pio\n di quella vita breve e che sta in forsi,\n tanto ne arebbe infetti il mondo rio;\n 40 ch\u00e9 noi saremmo in maggior colpe corsi,\n e poi puniti in pi\u00fa acerbo loco\n e da pi\u00fa pena in questo inferno morsi.\n Per la montagna ingi\u00fa scendendo un poco,\n i figli stan di quelle ree contrade,\n 45 sovra li qual Dio piovve solfo e foco.\n Se fussono venuti a piena etade,\n sarebbon in pi\u00fa colpa ed in pi\u00fa duolo:\n adunque dar lor morte fu pietade.\n E l\u00ed con loro sta 'l picciol figliolo,\n 50 che Gregor dice che nel sen paterno,\n Dio biastimando, lasci\u00f2 'l corpo solo.\n In pi\u00fa penoso loco sta in inferno\n chiunque a far male alcuno induce o tira\n o non corrige, quando egli ha 'l governo.\n 55 Quel loco \u00e8 l\u00ed e quel padre mart\u00edra,\n a cu' il figliol co' denti tronc\u00f2 il naso,\n ascondendo nel bascio la iusta ira.--\n Io credo che sarei con lui rimaso,\n se non che Palla:--Assai--disse--hai veduto:\n 60 vedi che 'l sole omai giunge all'occaso.\n Sotto i pi\u00e8 nostri \u00e8 gi\u00e1 Schiron venuto:\n vedi che 'l tempo corre e non si folce\n e non s'acquista mai, quand'\u00e8 perduto.--\n Quanto con lui lo star mi parve dolce,\n 65 tanto da lui partir mi fu amaro;\n quand'ella disse:--Al venir ti soffolce.--\n Quivi lassai il mio amico caro,\n figliol di Senso, il perugin Batista,\n che 'l mondo il fece infetto, ch'era chiaro.\n 70 Di gran piat\u00e1 avea carca la vista,\n quando Palla mi disse:--Perch\u00e9 'l viso\n porti tu basso? Or che dolor t'attrista?--\n Ed io a lei:--Perci\u00f2 che m'hai diviso\n da colui con ch'i' stava, o sacra dea,\n 75 e 'l suo dolce parlar anche hai reciso.\n In chiaro e bel latino a me dicea\n che Dio la morte acerba altrui permette,\n perch\u00e9 innocenza non diventi rea.--\n Ella rispose:--E perch\u00e9 sian subiette\n 80 a lei tutte l'etadi e da' mortali\n in ogni loco ed ogni ora s'aspette;\n e perch\u00e9 son cresciuti tanto i mali,\n che al vizioso sol peccar non basta,\n se nel suo vizio molti non fa eguali.\n 85 Come il fermento corrompe la pasta,\n e l'altre poma un sol fracido melo,\n cos\u00ed la prima et\u00e1 l'altra poi guasta.\n Questa \u00e8 l'iniquit\u00e1 e 'l grande scelo\n far rio altrui e s\u00e9 tanto peggiore,\n 90 quanto s'appressa pi\u00fa al canuto pelo.\n Per\u00f2 provvede Dio che alcun si more\n in quell'et\u00e1, che non \u00e8 d'anni piena,\n perch\u00e9 malizia non gl'imbrutti il core.\n E forsi che il morir tolle la pena,\n 95 ch\u00e9 destinata morte \u00e8 forse impiastro\n ad altri mali, a che fortuna il mena.\n State contenti a ci\u00f2, che fa quel Mastro,\n che regge il mondo e sa il come e 'l quando\n e dispon voi s\u00ed come in cielo ogni astro.--\n 100 Poscia tacette, ed io gli fei domando\n dicendo:--O dea, un dubbio, il qual or penso,\n la mente mia non vede, in lui pensando:\n come il dim\u00f2n, che non ha corpo o senso,\n dal foco corporal ovver dal ghiaccio\n 105 in questo inferno puote esser offenso?--\n Ed ella a me:--A molti ha dato impaccio\n il dubbio, il qual il tuo parlar mi dice:\n ma io dichiarer\u00f2 quel che ne saccio.\n Sappi ch'amor \u00e8 la prima radice\n 110 d'ogni allegrezza, e l'odio \u00e8 fundamento\n di ci\u00f2 che attrista ovver che fa infelice.\n Per\u00f2 alcun voler, quand'\u00e8 retento\n d'andar a quel ch'egli ama o che si toglia,\n quanto pi\u00fa l'ama, tanto ha pi\u00fa tormento.\n 115 Sappi ancor ben che quanto pi\u00fa alla voglia\n \u00e8 odioso quel che la ritiene,\n tanto pi\u00fa se n'affligge e pi\u00fa n'ha doglia.\n Se queste mie premesse noti bene,\n comprenderai il foco, onde si duole\n 120 il dimonio in inferno e le sue pene,\n ch\u00e9 non puote ir dov'ama e dove v\u00f2le,\n e vedesi in prigione e fatto sozzo,\n libero prima e pi\u00fa bello che 'l sole.\n E' stava in cielo, ed ora sta nel pozzo\n 125 di tutto il mondo e vede ogni suo velle\n ed ogni suo desio essergli mozzo.\n Come superbo, estima che le stelle\n reggere debbia ed essere il sovrano,\n fatto e creato tra le cose belle.\n 130 E, bench'egli dal ghiaccio e da Vulcano\n sensualmente non possa esser leso,\n perch\u00e9 da lui \u00e8 ogni senso strano,\n niente meno dal corpo egli \u00e8 offeso,\n perch\u00e9 a quel corpo, ch'era a lui subietto,\n 135 ora subiace e sta dentro a lui preso.\n E non \u00e8 maggior onta ovver dispetto,\n che da quel servo, ch'\u00e8 avuto in bal\u00eda,\n esser signoreggiato ovver costretto.\n E se per arte di nigromanzia\n 140 il dem\u00f2n si costrenge ed \u00e8 legato,\n ben lo p\u00f2 far pi\u00fa alta signoria.\n E perch\u00e9 in ogni modo, in ogni lato\n e' cerca di fuggir, quinci argumenta\n che dal corpo, ove sta, egli \u00e8 penato.\n 145 Nell'aer sopra l\u00ed, dove diventa\n folgore lo vapor, molti ne stanno\n e molti fra la gente, ove si tenta.\n Ma nell'ultimo d\u00ed dell'ultim'anno\n tutti in inferno seranno serrati,\n 150 nel gran supplicio dell'eterno affanno.--\n Noi eravamo ins\u00fa tanto montati,\n che, nove miglia pi\u00fa andando sopre,\n suso nel mondo seriamo allitati,\n perch\u00e9 quel loco solo un cerchio il copre.\nCAPITOLO VI\nCome l'autore, uscito dall'inferno,\nvenne nel mondo nell'emisfero di Satan.\n Non \u00e8 nella riviera genovese,\n ovver tra gli Alpi freddi della Magna,\n n\u00e9 trovariasi mai 'n altro paese\n aspera tanto e repente montagna,\n 5 quant'una, che trovammo s\u00ed alpestra,\n che fe' maravigliar la mia compagna.\n Mirando intorno, io vidi una finestra\n a pi\u00e8 del monte con questa scrittura,\n la qual legger mi fe' la mia maestra:\n 10 \u00abVoi, che salir volete su all'altura\n e che volete uscir di questo fondo,\n intrate dentro questa buca oscura.\n Qui \u00e8 la via che mena suso al mondo:\n chi salir vuol, convien che pria qui entre\n 15 e saglia poi, girando suso a tondo\u00bb.\n Minerva poi mi mise dentro al ventre\n del duro monte, e forse un miglio er' ito,\n che dietro a lei ins\u00fa salendo, mentre\n io venni manco, caddi tramortito\n 20 e ratto al ciel, s\u00ed come Ganimede\n quando Tonante fu da lui servito.\n L\u00ed mostrato mi fu come procede\n da Dio l'anima nostra, allora quando\n al corpo organizzato la concede.\n 25 Infundendola Dio 'nsieme e creando,\n non di materia, ma celeste forma,\n l'unisce al corpo e dona al suo comando.\n Poi torna' in me com'uom che prima dorma;\n e, su levato, presi il dur viaggio\n 30 dietro alla dea, de' pi\u00e8 seguendo l'orma.\n Sei miglia er' ito, quando vidi il raggio\n del chiaro sole scender d'una buca;\n onde Minerva a me col parlar saggio:\n --Insin lass\u00fa convien che ti conduca\n 35 e per quel foro ti convien uscire,\n se vuoi vedere il sole e che a te luca.--\n Allor pi\u00fa ratto cominciai a salire,\n ch\u00e9 di veder il sole avea disio;\n ed ella mi spronava col suo dire.\n 40 Ma dicea meco:--Or come potr\u00f2 io\n caper pel foro di quel sasso fesso,\n che non \u00e8 una spanna, al parer mio?\n E, quando fui a quel pertuso appresso,\n vi pontai 'l capo per la voglia presta,\n 45 tanto che un poco f\u00f2ra l'ebbi messo.\n E poscia ne cavai tutta la testa;\n poi la persona mia sospinsi tanto,\n ch'io n'uscii nudo senz'alcuna vesta.\n E caddi in terra con om\u00e8i e pianto;\n 50 e quando prima il miser occhio aperse,\n vidi una vecchia brutta starmi a canto.\n Questa le membra nude mi coperse;\n poi, come donna riputando dice,\n queste parole inver' di me proferse:\n 55 55--Io son la Povert\u00e1, prima nutrice,\n che l'uom ricevo colle membra nude,\n quand'egli arriva nel mondo infelice.\n E quando gli occhi a lui la morte chiude,\n vo con lui alla fossa e l\u00ed rimagno,\n 60 ove l'altre person si mostran Iude.\n E mentre in vita con lui m'accompagno,\n s\u00ed impazientemente mi sopporta,\n che fa di me sempre querela e lagno.\n Niente reca, quando al mondo apporta;\n 65 e fatica e timore \u00e8 la sua vita;\n ed al partir niente se ne porta.\n Allor conoscer pu\u00f2 nella partita\n che 'l vostro essere umano \u00e8 come un sogno,\n e sogno par la parte che n'\u00e8 ita.\n 70 S\u00ed come l'\u00f2r, ch'\u00e8 falso e di mal cogno,\n vanisce al foco, vostra vita manca;\n e ci\u00f2 ch'\u00e8 falso manca nel bisogno.--\n Poi levai s\u00fa la mia persona stanca,\n e la vecchia tacette e poi disparve;\n 75 ond'io gli occhi voltai dalla man manca.\n Mentr'io mirava, una cosa m'apparve\n mirabil s\u00ed, che, a volerla narrare,\n le mie parol mi paion levi e parve.\n Vidi un gigante giovine cantare,\n 80 bello e membruto e col leuto in mano,\n e lieto lieto cominci\u00f2 a ballare\n e coglier fiori su pel lordo piano;\n e poi mi parve che s'inghirlandasse\n di quelli fiori come garzon vano.\n 85 Ed una rota grande, che voltasse\n di sopra a lui, e, quando ella si volve,\n parea che a poco a poco il consumasse.\n Come di neve statua si risolve,\n quando sta al sole, cos\u00ed a poco a poco\n 90 si disfece e di poi divent\u00f2 polve.\n Quasi fenice antica, che nel foco\n arde se stessa e poi delle penne arse\n un'altra nasce nuova ed in suo loco,\n cos\u00ed di quella polve un altro apparse\n 95 giovin gigante e inghirland\u00f2 le chiome,\n sotto la rota ancora a consumarse.\n Costui addomandai come avea nome,\n ed anche dissi a lui ch'io avea brama\n di quel disfar saper il quale e 'l come.\n 100 Rispose:--Il nome mio come si chiama\n non posso dir, ch\u00e9 da me fu negletto\n quell'operar, che, morto, vive in fama.\n Io con mill'altri e pi\u00fa sto qui subietto\n a questa rota, che di sopra volta,\n 105 che muta a parte a parte in noi l'aspetto;\n ch\u00e9 della vita breve avemmo molta,\n e negligenti andammo a passo lento\n sino all'estremo, dove ne fu tolta.\n Per\u00f2 ha fatto Dio che in anni cento\n 110 nessun vive di noi pi\u00fa di mezz'ora,\n e l'altro tempo in polve giaccia spento.\n E questa pena ha l'uom nel mondo ancora;\n che, mentre il ciel a lui si volve intorno,\n a parte a parte conven ch'egli mora.\n 115 Cos\u00ed a morte corre in ogni giorno\n mosso dal tempo, che volando passa\n e, poich'\u00e8 ito, non fa mai ritorno.\n E quella dea, che scrive il tempo e cassa\n il cammin tutto dell'et\u00e1 compiuta,\n 120 un delli mille trapassar non lassa.\n Il cielo \u00e8 quella rota che trasmuta\n tutte l'etadi della vita breve\n e che la testa bionda fa canuta.--\n Poi, come si disf\u00e1 al sol la neve,\n 125 cos\u00ed, parlando, colui si disfece,\n o come cera che 'l caldo riceve.\n Minerva allor di l\u00ed partir mi fece;\n ed io a lei:--Da che parlar non posso\n pi\u00fa con colui, rispondi a me in sua vece.\n 130 Se 'l cielo sopra noi non fosse mosso,\n lo stare ei fermo sarebbe cagione\n ch'ogni operar quaggi\u00fa fosse rimosso?--\n Ed ella a me:--Quest'altra gran quistione\n richiede pi\u00fa il dir aperto e sciolto,\n 135 che non \u00e8 questo, e pi\u00fa lungo sermone.\n Il tempo e 'l ciel, che sopra voi \u00e8 v\u00f2lto,\n \u00e8 una cosa, e, non voltando il cielo,\n ci\u00f2 che da tempo pende, saria tolto:\n fatica, fame, sete, caldo e gelo,\n 140 e ci\u00f2 che segue al moto alterativo,\n morte e vecchiezza col canuto pelo.\n E, non voltando, l'uomo saria vivo\n e volont\u00e1 e la virt\u00fa, che 'ntende,\n ed ogni senso arebbe pi\u00fa giulivo.\n 145 Qui quel che disse l'agnol, si comprende,\n quando iur\u00f2 per l'alto Dio vivente:\n \u00abMai non sar\u00e1 pi\u00fa tempo, ovver calende,\n ed ogni verbo avr\u00e1 solo il presente,\n e cesser\u00e1 il preterito e 'l futuro,\n 150 e ci\u00f2, che or corre, sar\u00e1 permanente\u00bb;\n e nell'Apocalisse \u00e8 questo iuro.--\nCAPITOLO VII\nDove trattasi del regno d'Acheronte.\n Miglia' di mostri pi\u00fa oltre trovai,\n i quai bench'io li narri e li racconte,\n appena a me si creder\u00e1 giammai.\n Anime vidi al lito d'Acheronte,\n 5 ch'avean sette persone e sette facce;\n e queste su in un ventre eran congionte.\n Pensa sette uomin, che l'un l'altro abbracce\n dietro alle reni e con sette man manche,\n con sette destre ed altrettante bracce.\n 10 Ed avean sol un ventre e sol due anche\n e sol due gambe e sol un umbillico:\n s\u00ed fatti mostri non son trovati anche.\n E ciascun delli visi, i quali io dico,\n quant'era pi\u00fa appresso a quel davante,\n 15 pi\u00fa giovin era e dietro pi\u00fa antico,\n s\u00ed che la prima faccia era d'infante\n or ora nato, e l'altra puerile,\n d'adolescente il terzo avea sembiante,\n giovine il quarto, il quinto era virile,\n 20 il sesto di canuti era cosperso,\n e l'ultimo un vecchiaccio tristo e vile.\n Miglia' di mostri fatti a questo verso\n stavano a lato di quell'acqua bruna,\n per passar l'onde del lago perverso,\n 25 il qual avea assai maggior fortuna,\n che mai Carribdi, Scilla o l'Oce\u00e1no,\n quando ha reflusso o quando volta luna.\n Vidi Car\u00f2n non molto da lontano\n con una nave, in mezzo la tempesta,\n 30 che conducea con un gran remo in mano.\n E ciascun occhio, ch'egli avea in testa,\n parea come di notte una lumiera\n o un fal\u00f2, quando si fa per festa.\n Quand'egli fu appresso alla riviera\n 35 un mezzo miglio quasi o poco manco,\n sc\u00f2rsi sua faccia grande, guizza e nera.\n Egli avea il capo di canuti bianco,\n il manto addosso rappezzato ed unto;\n e volto s\u00ed crudel non vidi unquanco.\n 40 Non era ancor a quell'anime giunto,\n quando grid\u00f2:--O dal materno vaso\n mandati a me nel doloroso punto,\n per ogni avversit\u00e1, per ogni caso\n vi mener\u00f2 tra la palude negra\n 45 incerti della vita e dell'occaso.\n Pochi verran di voi all'et\u00e1 int\u00e8gra;\n spesso la vita alli mortali io tollo,\n quand'ella \u00e8 pi\u00fa secura e pi\u00fa allegra.--\n Dava col remo suo tra testa e 'l collo\n 50 a' mostri, che mettea dentro alla cocca;\n e forte percotea chi facea crollo.\n Poscia rivolto a me, colla gran bocca\n grid\u00f2:--Or giunto se', o tu, che vivi,\n venuto qui come persona sciocca.--\n 55 Minerva a lui:--Costui convien ch'arrivi\n all'altra ripa sotto i remi tui,\n 'nanzi che morte della vita il privi.\n --Su la mia nave non verrete vui\n --rispose a noi con ira e con disdegno,--\n 60 ch\u00e9 altre volte gi\u00e1 ingannato fui.\n Un trasse Cerber fuor del nostro regno,\n l'altro la moglie; or simil forza temo:\n per\u00f2 voi non verrete sul mio legno.--\n Minerva a lui:--Io chiedo ora il tuo remo,\n 65 ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,\n da questo basso al mio regno supremo.\n Lassame andar, consumator ingordo,\n ch\u00e9 a te non \u00e8 subietta quella vita,\n per la qual vive uom sempre per ricordo.--\n 70 Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,\n si vergogn\u00f2 ed abbass\u00f2 le ciglia,\n e senza pi\u00fa parlar ne die' la ita.\n Navigato avevam ben gi\u00e1 due miglia,\n ed io mi volsi addietro, e vidi ancora\n 75 venuta alla rivera altra famiglia,\n solcando noi per quella morta gora,\n con gran tempesta tra le morte schiume,\n col vento non da poppa, ma da prora.\n S\u00ed come il falso argento torna in fume\n 80 nel ceneraccio, che fa l'alchimista,\n o cera che al foco si consume;\n cos\u00ed a' mostri la lor prima vista\n vidi mancare ed anche la seconda,\n come cosa non stata o non mai vista.\n 85 E poi la terza colla testa bionda,\n la quarta e poi la quinta venne meno,\n navigando oltra per quell'acqua immonda;\n manc\u00f2 poi il sesto di canuti pieno;\n sicch\u00e9 di lor rimase un sol vecchiaccio:\n 90 non sette pi\u00fa, ma un tutti pari\u00e9no.\n La nave a riva avea a venir avaccio,\n quand'io addomandai un gran vecchione,\n che stava a lato a me a braccio a braccio.\n E dissi a lui:--Perch\u00e9 'l dem\u00f2n Carone\n 95 s\u00ed vi disf\u00e1? e perch\u00e9, navigando,\n sei parti ha tolte alle vostre persone?--\n Rispose:--Quel Signor, che 'l come e 'l quando\n sa della morte e la vita concede\n non mai a patti, ma al suo comando,\n 100 nel mondo s\u00fa lunga vita ne diede;\n e fummo negligenti alla virtude\n e ratti a far le cose brutte e f\u00e8de.\n Per\u00f2 menar ne fa per la palude,\n e nella ripa esto crudel pirata\n 105 la vita a noi vecchiacci ancora chiude.\n E quando addietro la nave \u00e8 tornata\n e mena quei che stan dall'altro canto,\n in quel rifatti siamo un'altra fiata.\n E ritornamo a quella riva intanto,\n 110 ove pria fummo; e l\u00ed da noi s'aspetta\n anche 'l nocchier con pena e con gran pianto.\n Questa \u00e8 da Dio a noi giusta vendetta,\n da che a ben far nostra vita fu tarda,\n che sempre a morte nostra vita metta.\n 115 La Morte non \u00e8 mai all'uom bugiarda,\n ch\u00e9 lo minaccia in viso e fallo accorto;\n ma egli chiude gli occhi e non si guarda.\n E, bench\u00e9 l'uom si vegga giunto al porto\n degli anni suoi, \u00e8 s\u00ed ne' vizi involto,\n 120 che prima il viver che 'l mal fare \u00e8 sc\u00f2rto.\n In quell'et\u00e1, che fa canuto il volto,\n alcun nell'operar tanto \u00e8 difforme,\n ch'e' non par vecchio, ma fanciullo stolto.\n Ed io lass\u00fa, dove si mangia e dorme,\n 125 fui gi\u00e1 Del Bruno chiamato Francesco\n e fiorentin lascivo vecchio enorme.\n Qui sta, (or poni un \u00abvo\u00bb di dietro al \u00abvesco\u00bb,)\n Pier d'Alborea, che 'n tre vescovati,\n secco negli anni, nel peccar fu fresco.--\n 130 Noi eravamo al porto gi\u00e1 appressati;\n e tutti vennon men su nella riva,\n s\u00ed come un'ombra ed uomin non mai stati.\n Io scesi in terra con la scorta diva,\n ed ella disse a me:--Se ben pon' mente,\n 135 la vita umana non si pu\u00f2 dir viva;\n ch\u00e9 solo solo un punto \u00e8 nel presente,\n e nel futur non \u00e8 ed anco \u00e8 'ncerta,\n e del passato in lei non \u00e8 niente.\n E, perch\u00e9 questa cosa ti sia esperta,\n 140 pensa che un oro puro a parte a parte\n a poco a poco in piombo si converta.\n Se un venisse a te a domandarte,\n tu non potresti dir che quel fusse oro,\n da che dall'esser \u00f2r sempre si parte.\n 145 Cos\u00ed \u00e8 la vita di tutti coloro,\n che 'l tempo mena a morte; e chi ben mira,\n non dir\u00e1 mai:--Io vivo,--ma--Io moro;--\n ch\u00e9, mentre il cielo sopra voi si gira,\n logra la vita, ed \u00e8 cagion quel moto\n 150 del caso e qualit\u00e1 che a morte tira.--\n In questo ad ira Car\u00f2n fu commoto\n e grid\u00f2 forte:--Questa simil pena\n ha l'uom; ma, come a cieco, non gli \u00e8 noto;\n ch\u00e9 'l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena\n 155 l'uom navigando d'una in altra etade\n sino alla ripa, ov'\u00e8 l'ultima cena.\n Dal tempo ha 'l corpo ogni infermitade;\n e ci\u00f2, che \u00e8 nel mondo all'uom molesto,\n s\u00ed vien dal cielo o da natura cade.--\n 160 Poi si part\u00ed Car\u00f2n fiero e rubesto.\nCAPITOLO VIII\nDove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e' significhi.\n Car\u00f2n la nave irato addietro mosse\n e Palla opposta a lui mosse le piante;\n e quasi un miglio credo andato fosse,\n che trovammo giacere un gran gigante\n 5 legato in terra e dietro resupino,\n e sopra lui un gran v\u00f3ltore stante,\n che 'l becco torto avea come un uncino:\n il petto gli smembrava il grande uccello\n con grave doglia al misero tapino.\n 10 --Minerva mia--diss'io,--che mostro \u00e8 quello,\n a cui il fegato dal v\u00f3ltore \u00e8 roso\n tanto, che poco n'\u00e8 rimaso d'ello?--\n Perch\u00e9 \u00abmostro\u00bb il nomai, gli fu noioso,\n al mio parer; per\u00f2 la testa grande\n 15 alz\u00f2, parlando irato e desdegnoso.\n E disse:--O tu, che qui di me domande,\n Tizio son io, a cui 'l fegato pasce\n questo avoltore e tutto il giorno prande.\n E poi la notte in petto mi rinasce\n 20 e fassi preda allo bramoso rostro:\n queste pene sostengo e queste ambasce.\n Simile a me, che m'hai chiamato \u00abmostro\u00bb,\n in ciascun uomo \u00e8 la parte mortale;\n e che questo sia vero, io tel dimostro.\n 25 Come v\u00f3ltore, il caldo naturale\n l'umido radicale in voi divora,\n poi rinasce del cibo, ma non tale,\n per\u00f2 che sempre la lega peggiora;\n oltre la giovent\u00fa putrido fasse;\n 30 per questo l'uomo invecchia e discolora.\n Se 'l cielo sopra voi non si voltasse,\n non averebbe il detto uccello il pasto,\n n\u00e9 converria che cibo il ristorasse.\n E se a me il petto \u00e8 roso e guasto,\n 35 la notte integramente lo risaldo;\n s\u00ed che io in sempiterno vivo e basto.\n Ma quel ch'\u00e8 in voi consumato dal caldo,\n se si rif\u00e1 per prandio ovver per cena,\n non sempre \u00e8 s\u00ed perfetto, n\u00e9 s\u00ed saldo.\n 40 E questo alla vecchiezza e morte mena,\n e fame e sete; s\u00ed che vostro stato\n vien meno ed ha a questa simil pena.--\n Io non risposi, quand'ebbe parlato,\n ch\u00e9 non volle Minerva; ond'ei la testa\n 45 ripose risupina ins\u00fa quel prato.\n Trovammo poi in una gran foresta,\n quant'un gigante grande, la Vecchiezza\n tra molta gente dolorosa e mesta.\n Ell'era guizza e piena di gravezza,\n 50 magra, canuta e senza nessun dente,\n poggiata ad un baston per debilezza.\n Dirieto a lei veniva una gran gente,\n che parevano vivi, ognun coniunto\n inseme con un morto puzzolente.\n 55 Cos\u00ed erano uniti a punto a punto,\n s\u00ed come san Macario e san Bordone,\n quand'un viveva e l'altro era defunto.\n Quand'io considerai cotal passione\n esser coniunti i vivi colli morti:\n 60 --Oim\u00e8!--diss'io,--oh quanta afflizione!--\n La vecchia mi guat\u00f2 con gli occhi torti\n e dissemi:--Se mai nel mondo riedi\n dietro a colei che t'ha li passi scorti,\n simile a quella pena, che tu vedi,\n 65 l\u00ed troverai e le person penose.\n Ma, perch\u00e9 forse questo a me non credi,\n sappi che 'l mondo nomina le cose\n non per diritto, ma per lo traverso:\n per\u00f2 le verit\u00e1 gli son nascose.\n 70 Quando l'uom nasce nel mondo perverso,\n che a vivere incomincia usate dire;\n ma questo dir dal ver tutto \u00e8 diverso,\n per\u00f2 ch'allora incomincia a morire;\n e, perch\u00e9 insieme insieme vive e more,\n 75 col vivo il morto \u00e8 l\u00ed anco l'unire.\n Tutti gli anni, li mesi e tutte l'ore\n che son passate, e ci\u00f2 c'ha 'l tempo scemo,\n nell'uomo \u00e8 morto ed \u00e8 di vita fuore.\n Oh quanto \u00e8 stolto quel, che 'l \u00abben faremo\u00bb\n 80 conduce insino al serrar delle porte\n e 'l ben poi principiar in sull'estremo!\n Queste alme son dannate a cotal sorte,\n perch\u00e9 nel mondo non f\u00fbr le lor vite\n vive nell'operar, ma pigre e morte.\n 85 E, se ben miri, son qui ben punite,\n ch\u00e9 vive dalli morti hanno tormenti,\n e come morte a morti sono unite.--\n Quando ebbe detto delli negligenti,\n pi\u00fa oltre mi mostr\u00f2 quivi dappresso\n 90 l'Infermit\u00e1, che facean gran lamenti.\n E disse:--Su nel mondo vanno spesso;\n non pu\u00f2 fare Ipocr\u00e1te ed Avicenna\n che 'l corpo uman non sia da loro oppresso.--\n Non poteria giammai scriverlo penna\n 95 la schiera grande che io vidi de' Morbi,\n che fere all'uom, o che ferir gli accenna.\n Quivi eran zoppi, monchi, sordi e orbi;\n quivi era il Mal podagrico e di fianco,\n quivi la Frenesia cogli occhi torbi.\n 100 Quivi il Dolor gridante e non mai stanco,\n quivi il Catarro con la gran cianfarda;\n l'Asma, la Polmonia quivi eran anco.\n L'Idropisia quivi era grave e tarda,\n di tutte Febbri quel piano era pieno,\n 105 quivi quel Mal che par che la carne arda.\n S\u00ed d'ammirazione io venni meno,\n ch'arei laudato l'error d'Origene,\n se non che Fede a me tir\u00f2 il freno.\n Dice che l'alma, che nel corpo viene,\n 110 \u00e8 un dimonio, il qual Iddio rinchiude\n dentro alla carne sol per dargli pene.\n E per\u00f2 il corpo umano \u00e8 fatto incude\n di tutti i colpi che 'l mondo saetta,\n perch\u00e9 di sua superbia si denude.\n 115 --Sta' fermo su la Fede, ch'\u00e8 perfetta,--\n disse Minerva, che, senza mio sermo,\n vedea l'opinion, ch'i' avea concetta.\n Ed io a lei:--Perch\u00e9 nel corpo infermo,\n subietto al cielo e brutto e tanto vile,\n 120 che tanto o poco pi\u00fa \u00e8 vile un vermo,\n l'anima nostra, ch'\u00e8 tanto gentile,\n Dio la rinchiude ed in lui la trasfonde?\n Trov\u00f2 pi\u00fa miser loco o sozzo o vile,\n ove materia in nulla corrisponde\n 125 alla sua forma? E per\u00f2 maraviglio\n che l'anima del corpo si circonde.--\n Come si schiara il padre verso il figlio,\n che si rallegra quando egli ha ben detto,\n cos\u00ed la dea ver' me rallegr\u00f2 il ciglio.\n 130 E disse:--Se 'l volere e lo 'ntelletto\n con vostra carne fosse insieme unito,\n il vostro arbitrio saria al ciel subietto.\n E s'egli fosse dal cielo impedito,\n non ritrarria la carne, che rimove\n 135 spesse fiate dal vano appetito;\n ch\u00e9, se lo corpo all'obietto si move\n e 'l voler vostro fusse uno con lui,\n fren non sarebbe a ritirarlo altrove.\n Questo \u00e8 principio per provare a vui\n 140 che puote l'anima aver subsistenza,\n forniti che ha 'l corpo i giorni sui.--\n Io anche dissi:--O dea di sapienza,\n se 'l ciel mi tira, ed io tirato vado,\n mosso dal corso ovver dall'influenza,\n 145 dunque che biasmo avr\u00f2, se fo alcun lado?\n O che loda e che onor io debbo avere,\n s'io surgo al bene o s'io nel mal non cado?--\n Ed ella a me:--Il ciel 'n voi ha potere\n solo nel corpo, e s'e' al mal corresse,\n 150 il vostro velle il puote ritenere.\n Se prava ancor complessione avesse\n da tempo o loco o da suoi genitori,\n esser potrebbe ch'al mal si movesse;\n perch\u00e9, secondo che 'n voi son gli umori,\n 155 cos\u00ed si move il carnal desid\u00e8ro\n ad ire, invidie, ad odii ed amori.\n Ma volont\u00e1 in voi ha 'l sommo impero\n di ciascun senso umano, e pu\u00f2 guidarlo\n e soggiogarlo ad ogni ministero.\n 160 Dunque l'arbitrio, del qual io ti parlo,\n perch\u00e9 guida il timon di tutto il legno\n e pu\u00f2 a scoglio ed a porto drizzarlo,\n di biasmo e loda egli diventa degno,\n secondo che va ritto o che devia\n 165 dal dritto porto ovver dal dritto segno.--\n Poscia di quindi noi andammo via.\nCAPITOLO IX\nCome l'autore trova la Morte,\nla quale parla acerbamente contro i mortali.\n --Le rote delli ciel tanto son v\u00f2lte\n --disse Minerva,--che, da che venisti,\n tre ore della vita t'hanno tolte.\n La vita e 'l tempo, se tu ben udisti,\n 5 son una cosa; e quanto dell'un perde,\n tanto perdi dell'altro e tanto acquisti.\n Convien omai che tu cammini inver' de\n colei, la quale a ci\u00f2 che nasce \u00e8 fine,\n e che fa secco ci\u00f2 che pria fu verde.\n 10 Non col passo dei pi\u00e8 te gli avvicine\n o meno o pi\u00fa, ma di sopra li cieli\n voltati fan che tu ver' lei cammine.\n --Con tanta oscurit\u00e1 il dir mi veli\n --risposi a lei,--che ben io non l'intendo\n 15 qual fine \u00e8 questo, se tu non riveli.\n Per quel che tu m'hai detto, ben comprendo\n che gi\u00e1 tre ore mia vita \u00e8 scemata,\n mentre noi queste cose andiam vedendo.--\n Ed ella a me:--Stolto \u00e8 colui che guata\n 20 solo alla vita e non rimira il porto,\n al qual fa ogni d\u00ed una giornata.\n In questa valle, nella qual t'ho scorto,\n vedrai la Morte--Palla mi sobiunse;--\n per\u00f2 fa' che, passando, tu sie accorto.--\n 25 S\u00ed gran timore allora al cor mi giunse,\n quand'io udii dover veder la Morte,\n che ancor mi punge: tanto allor mi punse.\n E le mie guance diventonno smorte,\n ch\u00e9 'l sangue si restrinse tutto al core,\n 30 come natura fa, perch\u00e9 'l conforte.\n Per\u00f2 la dea a me:--Perc'hai timore\n di quella cosa, che convien che sia\n e debbesi aspettar in tutte l'ore?\n Dato \u00e8 il quando e l'ordine e la via\n 35 del pervenire al termine gi\u00e1 posto:\n n\u00e9 fia la morte pi\u00fa tarda, n\u00e9 in pria.\n E, se non sai se egli \u00e8 tardo o tosto\n della tua vita il tuo ultimo punto,\n star d\u00e9i ognora accorto e ben disposto.\n 40 Acci\u00f2 che tu non sia improvviso giunto,\n propon' che il tempo incerto, che ti resta,\n sia tutto gi\u00e1 presente ovver consunto.\n Il tempo logra a voi la mortal festa;\n e le tre Parche tessono alla voglia\n 45 di quel Signor, che a tempo ve la presta.\n E, quando Morte di quella vi spoglia,\n rimane in voi ci\u00f2 che non gli \u00e8 subietto:\n per\u00f2 l'alma non sente mortal doglia;\n ch\u00e9 vostra volont\u00e1 e l'intelletto\n 50 e tutto quel che 'n voi non \u00e8 brutale,\n subsiste pi\u00fa vivace e pi\u00fa perfetto.\n In terra torna il corpo animale,\n e l'alma, ch'\u00e8 dal ciel, su al ciel riede,\n ciascun al suo principio originale.--\n 55 Gran passion gran conforto richiede;\n per\u00f2 Minerva alla mia gran paura\n questa monizion lunga mi diede.\n Com'uom che va per la via non sicura,\n che mira e tace pel sospetto grande,\n 60 cos\u00ed, temendo, intorno io ponea cura.\n E per\u00f2 Palla a me:--Mentre tu ande\n inverso a quella, a cui pervenir d\u00e9i,\n perch\u00e9 pur temi e di lei non domande?--\n Ond'io risposi:--Volontier saprei\n 65 quant'ella sta ancor a noi da cesso,\n innanti ch'io pervenga insino a lei.--\n Ed ella a me:--A voi non \u00e8 concesso\n del cammin vostro di saper il quanto;\n ma ella in ogni loco \u00e8 molto appresso;\n 70 ch'ella discorre ed \u00e8 veloce tanto\n per questa valle, per la qual tu vai,\n che in ciascun punto ell'\u00e8 in ogni canto.--\n Per questo pi\u00fa acuto allor mirai\n e vidi lei in un caval sedere\n 75 negro e veloce pi\u00fa che nessun mai.\n Avea le guance guizze, magre e nere:\n crudel la vista e s\u00ed oscura e buia,\n ch'io chiusi gli occhi per non la vedere.\n E perch\u00e9 ogni uomo volontier s'attuia\n 80 gli occhi per non vederla, tanto \u00e8 brutta,\n per ci\u00f2 ella va occulta come fuia.\n --Mia--s\u00ed dicea,--mia \u00e8 la gente tutta:\n quanta n'\u00e8 nata e nascer\u00e1 al mondo,\n destrugger\u00f2 e l'altra ho gi\u00e1 destrutta.\n 85 Quando alcun crede star sano e giocondo,\n io l'assalisco, e quanto \u00e8 pi\u00fa gagliardo,\n pi\u00fa tosto al mio voler lo mando al fondo.\n Imperatori o re non ho in riguardo;\n a' miseri, che stanno in pena acerba,\n 90 mando mie' morbi, ed a lor io vo tardo.\n Ci\u00f2 che nasce nel mondo, a me si serba,\n e che ha carne e corpo, cresce e vive:\n tutto fia mio insino all'ultim'erba.--\n Di molti morti io vidi poscia quive\n 95 s\u00ed grande strage, che rispetto a quella\n nullo poeta s\u00ed grande la scrive;\n non quella che riempi\u00e8 i moggi d'anella,\n non quella che la peste fe' in Egina,\n n\u00e9 quella, della qual Lucan favella.\n 100 Di quelli morti tra la gran rovina\n un si lev\u00f2, che solo il cuoio e l'osse\n avea e verminose le intestina.\n E disse:--Poich\u00e9 noi siam nelle fosse,\n son nostri alunni e compagni li vermi.\n 105 Oh fine oscuro delle umane posse!\n E, perch\u00e9 questo io meglio vel confermi,\n guatate i corpi fracidi di noi:\n per me' vedergli, alquanto state fermi.\n Quali ora siete voi, ed io gi\u00e1 foi:\n 110 e quale io sono, tutti torneranno\n que' che son nati e che nasceran poi.\n In questo loco papi meco stanno,\n imperatori, re e cardinali;\n n\u00e9 pi\u00fa che gli altri qui potenzia hanno,\n 115 perch\u00e9 all'estremo tutti quanti equali\n ne fa la morte, ai ben felici atroce,\n e tarda e dolce agl'infelici mali.\n Oh lasso me! L'indugio quanto n\u00f2ce!\n E quel, che si d\u00e9' fare, averlo fatto,\n 120 oh quanto acquista del tempo veloce!\n Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto;\n e questo il fe' la mia pigrizia sola,\n ch\u00e9 non soccorsi, com'io potea, ratto.\n Io fui gi\u00e1 Uguccion dalla Fagiola.--\n 125 Poi come morto ricadde supino,\n ratto ch'egli ebbe detto esta parola.\n Io ingavicchiai le mani, e 'l viso chino\n tenea: per questo il cor s\u00ed m'invil\u00edo,\n ch'io non curava pi\u00fa del mio cammino.\n 130 Ma quella, che guidava il passo mio,\n disse:--Che hai, che stai ammirativo\n e, come pria, venir non hai disio?\n Non sapei tu che ombra \u00e8 'l corpo vivo,\n e che trapassa e fugge come un vento,\n 135 e cibo a' vermi \u00e8 poi, di vita privo?\n Se tu non vuoi, morendo, essere spento,\n cammina s\u00ed, che quella vita cresca,\n che 'l ciel non logra col suo movimento.--\n Come infingardo, a cui l'andar incresca,\n 140 e, perch\u00e9 vada ratto, alcun gli grida,\n ch'allor s'affretta e li passi rinfresca;\n cos\u00ed fec'io al dir della mia guida,\n tanto ch'io trapassai il regno afflitto\n del rio pirata e crudele omicida.\n 145 E dietro alla mia dea andando io dritto,\n pervenni in loco, ove trovai una porta;\n e quel che seguir\u00e1 quivi era scritto,\n il qual io lessi ed anco la mia scorta.\nCAPITOLO X\nDove l'autore discorre delle pene,\nche l'uomo d\u00e1 a se stesso per false opinioni.\n \u00abVoi, che salite al secondo reame,\n intrate qui per questa porta inferna,\n che sempre aperto tiene il suo serrame.\n Dentro ve fa la via una caverna,\n 5 la qual salendo sette miglia gira,\n ove nulla \u00e8 che chiaro occhio discerna.\n Questa conduce al loco, ove mart\u00edra\n l'uomo se stesso, e di s\u00e9 fa vendetta,\n e fassi il colpo, onde piange e sospira\u00bb.\n 10 Vista che avemmo la scrittura e letta,\n intrammo la caverna alla man destra\n per una via oscura ed anco stretta.\n Ma dietro all'orme della mia maestra\n io sempre andai, e per un sasso fesso\n 15 uscimmo f\u00f2ra, a guisa di finestra.\n E su nell'aere, alquanto a noi appresso,\n vidi una donna alata trasmutarse\n in diverse figure spesso spesso.\n Grande come gigante prima apparse;\n 20 poi piccola si fece e lieta e trista;\n giovine e vecchia poi la vidi farse.\n --Chi se'--gridai,--che pi\u00fa cambi la vista,\n che Acchilogo, e nullo essere vero\n par che 'n te sia, ovver che 'n te persista?\n 25 --La Falsa Opinion son del pensiero\n --disse volando,--e questo loco tegno,\n ov'io dimostro il bianco per lo nero.\n Qui sta la Fantasia, qui sta lo Sdegno,\n Speranza, Amor, Timor e Alterezza,\n 30 Sospizion, 'Resia sta in questo regno.\n Io fo povero alcun nella ricchezza\n e fo la povert\u00e1 allegra tanto,\n ch'alcun la porta e nulla n'ha gravezza;\n s\u00ed come avvien che 'n povert\u00e1 alquanto\n 35 equal son due, e l'un non se ne cura,\n e l'altro si lamenta e fa gran pianto.\n Se da s\u00e9 fosse quella soma dura,\n alli due pazienti equal ser\u00eda,\n se l'operante \u00e8 di simil natura.--\n 40 L'Opinion, ovver la Fantasia,\n per l'aer se n'and\u00f2, movendo l'ale,\n e mutava sembianti tuttavia.\n --Quella \u00e8 la grave peste e 'l grave male\n --disse Minerva a me;--quella \u00e8 cagione\n 45 di molto duol, che l'uom nel mondo assale.\n S'alcuno \u00e8 ricco, e la sua opinione\n a questa verit\u00e1 gli contradice,\n egli se stesso in povert\u00e1 ripone.\n Nessun pu\u00f2 esser in stato felice,\n 50 se a quello non concorre il suo parere,\n come concorre al frutto sua radice.\n Come la frenesia, che fa vedere\n un per un altro, e 'l vin, quando ubbriaca\n non lassa ben vedere le cose vere;\n 55 cos\u00ed tre passion, che son la ra'ca\n di tutti i vizi: il troppo amore e spene\n e 'l timor anco all'uom la mente opaca.\n Per queste tre, quando son troppe, avviene\n che si disvia ed erra l'intelletto,\n 60 tanto che 'l ver non pu\u00f2 conoscer bene:\n come alcun che ha il palato infetto,\n che gusta il dolce, e pargli che sia amaro\n e giudica in contrario il proprio obbietto.\n Altramente il superbo ovver l'avaro\n 65 estima alcuna cosa, ed altramente\n l'animo buono e di vert\u00fa preclaro.\n E secondo l'et\u00e1 cos\u00ed la gente\n credon le cose, ed altramente estima\n chi porta l'odio che chi d'amor sente.\n 70 La puerizia ovver l'etade prima\n errando crede che solazzo e gioco\n tra tutti i ben sovran tenga la cima.\n E, poich\u00e9 quell'et\u00e1 tramuta loco,\n dietro all'amor ne va l'adolescenza,\n 75 e i ludi gi\u00e1 passati estima poco.\n Nell'et\u00e1 terza, c'ha pi\u00fa conoscenza,\n reputa i giochi e l'amor esser vano,\n e solo estima onore ed eccellenza.\n Poi nella quarta et\u00e1 dal capo cano\n 80 s'avvede ch'ogni et\u00e1 era ingannata,\n e pone all'avarizia allor la mano.\n Se, quando \u00e8 su la morte, addietro guata,\n il cammin della vita, il qual \u00e8 ito,\n gli pare un'ombra o cosa non mai stata.\n 85 Svegliasi quando del mondo \u00e8 partito,\n e vede ci\u00f2 c'ha tempo esser menzogna,\n rispetto all'eternal, che \u00e8 infinito.\n S\u00ed come spesso avvien, quando alcun sogna,\n che, mentre dorme, gli par manifesto\n 90 aver dell'oro in man quanto bisogna,\n e, quando torna in s\u00e9 e ch'egli \u00e8 desto,\n e' qui si scorna e dice nel suo core:\n --Oim\u00e8! oim\u00e8! perch\u00e9 non fu ver questo?--\n cos\u00ed l'anima umana, quando \u00e8 fuore\n 95 della sua carne, allor ella comprende\n che il mondo \u00e8 sogno, e conosce il suo errore.\n Iti eravamo omai quanto si stende\n quell'ampia valle, e noi trovammo un colle,\n che ben duo miglia su da alto pende.\n 100 Minerva salse il monte e poscia volle\n che dietro a lei seguissi le vestige,\n se non voleva andar s\u00ed come uom folle.\n Quand'io fu' in cima, vidi il lago Stige,\n fatto alla forma ch'io l'avea veduto\n 105 gi\u00fa nell'inferno in ogni sua effige.\n Io era insino al lito suo venuto,\n e per mirar fermai i passi mei,\n per la gran nebbia risguardando acuto.\n --Questa negra palude, che tu v\u00e9i,\n 110 \u00e8 quella, per cui iura il sommo Iove\n --disse Minerva--e iuran gli altri d\u00e8i.\n Ci\u00f2 che cade da cielo, ovver che piove,\n ci\u00f2 che dall'aere o su dal foco cade,\n e ci\u00f2 che l'acqua s\u00e9 purgando move,\n 115 si aduna qui da tutte le contrade:\n ogni sozzura ed ogni sucidume,\n tutta la marcia delle cose frade.--\n Per penetrar la nebbia e 'l folto fume,\n facea cogli occhi miei lo sguardo aguzzo,\n 120 come fa alcun, quand'egli ha poco lume.\n Quanto pi\u00fa m'appressava, maggior puzzo\n senteva al naso e tanto n'era offenso,\n che soffiando io facea dell'aere spruzzo.\n Tutta la timiama ovver l'incenso,\n 125 che mai d'Arabia ovver d'Assiria venne,\n non mitigar\u00eda quel fetore immenso.\n L\u00ed eran l'arpie con pallide penne,\n con facce umane, storte, irate e guerce,\n fetenti s\u00ed, che 'l naso nol sostenne.\n 130 Facean lamenti su le smorte querce,\n e 'l misero Fineo mangiava sotto\n vivande, ch'eran di lor sterco lerce.\n Una di lor mi disse questo motto:\n --O tu, che questo inferno passi vivo,\n 135 dietro alli passi di Palla condotto,\n perch\u00e9 ti atturi il naso e mostri schivo?\n Tu sai che l'uomo nel vostro emispero\n pi\u00fa di noi non \u00e8 netto ovver giulivo:\n ch\u00e9 egli \u00e8 un sacco pien di vittup\u00e8ro,\n 140 e tra gli altri animal che son nel mondo,\n vuole in nettarsi maggior ministero.\n Tu sai ch'e' per la cima e per lo fondo\n e dello corpo suo per nove fori\n sparge il fastidio, pi\u00fa che noi immondo.\n 145 Al sucidume e suoi corrotti umori\n per delicanza concorron le mosche,\n s\u00ed come l'api sopra belli fiori.\n --Trapassa ratto este contrade fosche\n --disse a me Palla--e non gli far risposta:\n 150 basta che l'abbi viste e le conosche.--\n Allora mi partii senza far sosta\n e vieppi\u00fa oltre una gente trovai,\n ch'avean la soma in la lor testa posta,\n la qual convien che portin sempremai.\nCAPITOLO XI\nDove si tratta della pena di Sisifo.\n Noi pervenimmo in una gran foresta,\n ove gente trovai, ch'ognuno un sasso\n avea per soma su nella sua testa.\n Per una piaggia ins\u00fa moveano il passo,\n 5 e, giunti al monte, poi scendeano al piano,\n e poi risalian su laggi\u00fa da basso.\n Venir ver' noi non molto da lontano\n un'alma carca vidi d'un gigante\n maggior sei volte e pi\u00fa d'un corpo umano.\n 10 Io dissi a lei, quand'io gli fui davante:\n --Dimmi chi se', che porti s\u00ed gran soma,\n ch'appena porter\u00eda un elefante.\n --Sisifo son, che 'l gran poeta noma,\n --disse. E poi giunse:--A voi mortali \u00e8 posta\n 15 soma maggior ch'a me, e pi\u00fa vi doma.\n E perch\u00e9 meglio intendi mia risposta\n e che tu sappi ben ch'io non agogno,\n a quel, che ora dir\u00f2, l'orecchio accosta.\n Il timor della morte e del bisogno,\n 20 amor e speme a voi pon maggior pesi,\n che non fa l'enco, quando appare in sogno.--\n E, perch\u00e9 questo dir non ben compresi,\n dissi a Minerva:--O dea, questo sermone\n ben non intendo, se non l'appalesi.--\n 25 Ed ella a me:--Quel Signor, che dispone\n e regge il tutto, a chiunque al mondo nasce\n della sua soma sua gravezza pone.\n Con pena prima sta dentro alle fasce\n e col sudor di colei che 'l nutr\u00edca,\n 30 e di colui che poi, vivendo, il pasce.\n Poi che cresciuti son, chi s'affatica\n dietro all'aratro e la terra rivolta,\n ch\u00e9 non produca spine ovver ortica;\n chi con paura e con fatica molta\n 35 giunge, cercando il mare, alla vecchiezza,\n sepolto dentro a' pesci alcuna volta;\n chi mercatanta per aver ricchezza,\n e quel, che con fatica egli rauna,\n a chi pervenga nulla n'ha certezza;\n 40 _et tamen_ senza sonno e posa alcuna\n la voglia sempre ha fame e mai non s'empie\n ed al pi\u00fa pasto, pi\u00fa riman digiuna;\n chi segue Marte e le sue opere empie\n facendo s\u00e9 centauro biforme,\n 45 armato a ferro indosso e nelle tempie;\n chi mangia a posta altrui e vegghia e dorme\n sol per aver il rimorchiato pasto,\n e va subietto dietro all'altrui orme;\n chi, per sanar all'uom il membro guasto,\n 50 Ippocrate si fa; e chi legista\n per vender le parole e far contrasto.--\n Quand'ella dicea questo, alzai la vista\n inverso il monte e vidi un'altra gente,\n ch'avea la soma di splendor sofista.\n 55 --Chi son color che 'l carco hanno splendente?\n --diss'io a Minerva.--Saria forse quello,\n perch\u00e9 si porti pi\u00fa leggeramente?--\n Ed ella a me:--Perch\u00e9 'l peso sia bello,\n non \u00e8 per\u00f2 che egli sia pi\u00fa lieve,\n 60 n\u00e9 d\u00e1 a colui, che 'l porta, men flagello;\n ch\u00e9 una libra di penne \u00e8 tanto greve,\n non pi\u00fa, n\u00e9 men quant'una libra d'oro\n al dosso che la porta e la riceve.\n E se saper tu vuoi chi son coloro,\n 65 son quelli, dalli quai si signoreggia,\n e per\u00f2 'l peso han con s\u00ed bel lavoro.\n Come la bestia, che ben somereggia,\n va pi\u00fa adornata ed ha miglior prebende\n ed \u00e8 onorata di freno e di streggia;\n 70 cos\u00ed han quelli il peso che risplende,\n ma sotto quel colore sta nascosto\n la soma greve, che la mente offende.\n Per questo gi\u00e1 grid\u00f2 Cesare Agosto:\n --Quando sar\u00e1 ch'io scarchi i pesi gravi\n 75 del pondo imperial, sopra me posto?--\n Grid\u00f2 Gregorio che 'l manto e le chiavi\n ed ogni reggimento ha tanto pondo,\n che gli altri sonno a rispetto soavi.\n Ahi! quanti credon su nel mortal mondo\n 80 alcun aver in poppa il prosper vento,\n e s\u00e9 averlo in prora e non secondo!\n Che se colui, il qual credon contento,\n dicesse quant'\u00e8 afflitta la sua voglia,\n direbbon s\u00e9 aver minor tormento.\n 85 Ahi! quanti son che sguardano alla invoglia\n della gran soma, a cui se lo somiere\n dicesse il suo gran peso e la gran doglia,\n piglierian le lor some volentiere,\n come minori e di pi\u00fa lieve affanno,\n 90 pi\u00fa atte al loro dosso e pi\u00fa leggiere!\n Ahi! quanti son che or a basso stanno,\n che 'n terra con la soma caderi\u00e9no\n del signorile scettro e primo scanno!\n Quanti son ricchi ed in stato sereno,\n 95 che, della povert\u00e1 portando il peso,\n la forza e la vert\u00fa lor verria meno!\n Saul in terra morto and\u00f2 disteso,\n portando la soma alta e con bei fregi,\n che, stando a basso pria, non era offeso.\n 100 Chi sta in alto, il basso non dispregi;\n e chi sta al basso ed ha la soma oscura,\n non abbia invidia a prenci ed a gran regi.--\n E poscia ad altri molti io posi cura,\n ch'ognun sopra la soma era premuto\n 105 da circumstanti suoi per fargli iniura.\n Udii gridar indarno:--Aiuto! aiuto!--\n con pianti e con sospir; ma la pietade\n ivi era sorda a chi non era muto.\n Ed uno a noi grid\u00f2:--Guai a chi cade!\n 110 ch\u00e9, bench'abbia abbondanza di consigli,\n non per\u00f2 trova chi aiutarlo bade.--\n La dea rispose:--O tu, che s\u00ed bisbigli,\n perch\u00e9 al caso tuo cordoglio porto,\n t'adiuter\u00f2, se 'l mio consiglio pigli.\n 115 Se vuoi alla gran soma alcun conforto,\n pensa di quei che portan maggior carchi\n che non hai tu, e portanli pi\u00fa a torto.\n E guarda ben che l'amor non ti carchi,\n e la spene e 'l timor se ti d\u00e1n pena,\n 120 degno \u00e8 che sol di te tu ti rammarchi.--\n Poich'ebbe esto consiglio, un'ora appena\n egli era stato, e quivi un fanciul venne\n con bella faccia e di letizia piena.\n Due ali adorne avea di belle penne\n 125 pi\u00fa che paone, ed in mano avea l'arco,\n dal qual Achille gi\u00e1 'l colpo sostenne.\n Costui gli pose sopra tanto carco,\n mostrando il dolce e celando l'amaro,\n che 'l fece pianger con pianto e rammarco.\n 130 Poi venne un altro, che tutto contraro\n era a quel primo in tutte sue fattezze,\n col viso negro quanto il primo chiaro.\n Questo gli pose ancor molte gravezze,\n poi venne innanti a noi una donna anco\n 135 col riso in bocca e piena d'allegrezze.\n E, bench\u00e9 egli fusse lasso e stanco,\n con altri pesi ancor gli carc\u00f2 il dosso.\n Allora disse:--Oim\u00e8! che vengo manco.--\n Mentre diceva:--Oim\u00e8! che pi\u00fa non posso\n 140 portar tante gravezze,--e' cadde in terra,\n fiaccandosi la testa ed anche ogni osso.\n --Io fui da Lucca e detto Forteguerra\n --diss'egli a noi:--a far la grande impresa\n m'indusse spem, che fa che spesso uom erra.\n 145 Ella mi fece far la molta spesa\n e posemi l'incarco della parte,\n che sempre a chi n'\u00e8 capo troppo pesa.\n --Nulla averebbe potuto gravarte\n --diss'io a lui,--se tu alla scorta mia\n 150 creduto avessi in tutto ovver in parte.\n Ma, s'e' ti piace, volentier vorria\n che mi contassi le doglie penose,\n che la speranza pone in questa via.--\n Ond'egli, sospirando, mi rispose:\n 155 --Sappi che la fallace e vana spene\n principalmente si fonda in due cose.\n O ella aspetta scemarsi le pene,\n ch'ella sostien, o desiando sguarda\n poter avere alcuno amato bene.\n 160 Se l'una e l'altra d'este due si tarda,\n ovver che manchi, l'animo tormenta;\n ma affligge molto pi\u00fa, quand'\u00e8 bugiarda.\n Bench\u00e9 tante fiate a noi ne menta,\n come hai provato, ancor se gli d\u00e1 fede:\n 165 tanto con le losinghe altrui contenta;\n che 'l miser'uomo sempre ratto crede\n quel che desia; ma quel, ch'egli ha 'n temenza,\n non crede si rimova, se nol vede.--\n Poi pi\u00fa non disse; e femmo indi partenza.\nCAPITOLO XII\nDove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona il timore.\n Dietro a Minerva cento passi o quasi\n su salsi un monte e pervenni alla cima\n a veder quei che temon tutti i casi.\n L\u00ed era un piano, e, quando mirai prima,\n 5 vidi una strada insino all'altra sponda\n lunga due miglia, quanto alla mia stima,\n ch'era diam\u00e8tro nella valle tonda:\n quivi saper pu\u00f2 bene il geom\u00e8tra\n quanto quel piano intorno a s\u00e9 circonda.\n 10 Ne' semicerchi della valle tetra\n anime vidi di fuor della strada,\n la qual lastreco avea di nera pietra.\n Ed ognuna dell'alme in alto bada\n un grande sasso, che cader minaccia\n 15 tanto, che par che tosto in capo cada.\n Per questo alzata ins\u00fa tengon la faccia,\n temendo che non cada con ruina\n il sasso a lor in testa e che gli sfaccia.\n Ahi, quanto punge del timor la spina!\n 20 e quanto affligge il core il mal futuro,\n che l'uomo aspetta e quasi lo indovina!\n Pensa, lettor, se stessi sotto un muro,\n che fosse per cadere, o sotto un tetto,\n e se 'l dovervi stare fosse duro!\n 25 Pensa se avessi un uom incontra 'l petto\n coll'arco teso e fuggir non potessi,\n ed ei dicesse:--Tosto ti saetto!--\n Cos\u00ed han questi, di paura oppressi,\n gli archi di contra e per\u00f2 stan tremanti\n 30 che sassi e dardi non percuota ad essi.\n Per dar lor pi\u00fa timor, al volto innanti\n discorrono i Mal sogni e 'l Mal presaggio,\n l'upupa, il gufo e 'l corvo con lor canti.\n Su per la strada era il nostro viaggio,\n 35 e trovai Fleias ch'era qui il primaio\n del gran timor con pallido visaggio.\n --O Fleias,--dissi io,--che a tanto guaio\n se' posto qui e tremi vieppi\u00fa forte\n che 'l vecchio can nel freddo di gennaio,\n 40 Apollo ha posto te a cotal sorte\n per tua superbia e di te fa vendetta,\n che 'n sempiterno questo tremor porte.\n Assai \u00e8 minor pena a chi suspetta\n solo in un punto ricever il duolo,\n 45 che sempre temer l'arco e la saetta;\n ch\u00e9 'l timor seco mena grande stuolo\n d'assalitori, ed ognuno il cor punge:\n adunque \u00e8 meglio aver un colpo solo.\n Per darti pi\u00fa timore ancor s'aggiunge\n 50 all'arco il sasso, e temi che non caggia\n e non ti fiacchi il capo, quando giunge.\n --Nel mondo, ove tu sal' di piaggia in piaggia\n --rispose,--proverai simil doglienza,\n se vi pervieni colla scorta saggia.\n 55 L\u00ed vederai tu il don di provvidenza\n farsi una lima che se stessa rode,\n di mille casi avversi c'ha 'n temenza.\n E vedrai le ricchezze non far prode:\n tanto di povert\u00e1 il timore affligge,\n 60 che 'l possessor di lor lieto non gode.\n Che giova all'uom la vita, se l'effigge\n dell'orribile morte ognor l'accora\n e sempre di paura lo trafigge?\n L'affaticato cibo, che ristora,\n 65 mentre si mangia, infermit\u00e1 e sospiri\n menaccia al proprio corpo, che 'l divora.\n Se suso inverso il ciel ancor tu miri,\n menaccia a te il Giudice di sopra,\n se gli fai cosa, per la qual s'adiri.\n 70 La terra, che convien che ancora il copra,\n e gi\u00fa l'interno ancor gli fa paura,\n s\u00ed come punitor di sua mal'opra.\n Se a destro ed a sinistro si pon cura,\n vede che ogni vizio quivi offende,\n 75 e teme a' suoi coniunti ogni sciagura.--\n Ahi quanto di vergogna il viso accende,\n quando alcun riprendente \u00e8 poi ripreso\n di quel medesmo, del qual e' riprende!\n Cos\u00ed io feci, quando l'ebbi inteso;\n 80 e per\u00f2 dissi:--Prego mi perdoni,\n se, Fleias, col mio dir t'avessi offeso.\n --O tu, ch'andi la strada e che ragioni\n e dietro a dea Minerva movi i passi,\n vedendo d'esto inferno le magioni:\n 85 --cos\u00ed grid\u00f2 un de' miseri lassi\n e poi subiunse:--io prego che tu torche\n verso me il viso, innanti che tu passi.--\n Io mi voltai e vidi un su le forche\n col capo chino tanto, che le guancia\n 90 a lui toccava quasi una dell'orche.\n --Morte e paura io posi in la bilancia\n --subiunse,--e poi la morte col capestro\n elessi a me per men pungente lancia.\n Troppo temendo in me il caso sinestro,\n 95 me stesso uccisi: io son Architofelle,\n che fui nel consigliar s\u00ed gran maestro.\n Meco sta qui Sa\u00fal, re d'Israelle,\n e quei roman, che sol timor gli strinse\n e non vert\u00fa a spogliarsi la pelle.--\n 100 Alquanto inver' di lui li passi pinse\n sol per parlarli; ma la dea non volle\n ch'io parlassi a colui, che s\u00e9 estinse;\n ch\u00e9, se fortuna il ben temporal tolle,\n non lieva per\u00f2 mai d'alcun la spene,\n 105 s'egli da se medesmo non \u00e8 folle.\n --Tu vederai, se tu ammiri bene,\n non tremar nullo, ch'abbia s\u00e9 ucciso:\n risguarda, ed io dir\u00f2 onde ci\u00f2 viene.--\n Per\u00f2 io riguardai con l'occhio fiso;\n 110 poi, v\u00f2lto a lei, diss'io:--Perch\u00e9 non trema\n qualunque dalla vita ha s\u00e9 diviso?--\n Ed ella a me:--Quando la spen si scema\n tanto in alcun, che niente rimane,\n colui non ha amor, n\u00e9 anco t\u00e9ma;\n 115 ch\u00e9 le paure e l'allegrezze umane\n procedon da speranza e dall'amore,\n che porta l'uomo a vostre cose vane.\n Per\u00f2, se tutto, amor e spene, more,\n mor la letizia, che da lor procede,\n 120 e la paura, e sol ha poi il dolore.\n Il qual il disperato fuggir crede,\n fuggendo s\u00e9, e uccide allor se stesso\n con crudelt\u00e1, credendo far mercede.\n E, se speranza non avesse appresso\n 125 il fren d'alcun timor, cresceria tanto,\n che faria stolto per lo troppo eccesso.\n Cos\u00ed il timor, se seco non ha accanto\n dolcezza di speranza, tanto teme\n e tanto vien in doglia ed in gran pianto,\n 130 che nol sostiene e s\u00e9 di morte oppreme;\n ch'ogni timor all'uomo \u00e8 s\u00ed a noia,\n che pi\u00fa tosto vuol morte che lui inseme.\n Nulla allegrezza e nulla cara gioia\n \u00e8 tanto dolce, che rispetto a quella\n 135 non sia pi\u00fa amaro all'uom temer che moia.\n E tu sai ben che l'_Etica_ favella\n che 'l timor troppo nullo portar puote:\n tanto la mente e l'animo flagella.\n E da qui il timor van, se tu ben note,\n 140 in mille modi il suo balestro scocca\n nel mondo all'uom e l'animo percuote;\n tanto che gi\u00e1 come presente tocca\n quel che non \u00e8 e forse fia niente,\n e gi\u00e1 piangere fa la mente sciocca.\n 145 Se a questo e a quel ch'io dissi ben pon' mente,\n nulla pena \u00e8 maggior che star in forse\n di quel che spiace e che p\u00f2 far dolente.\n Ognun ch'al van timor ben si soccorse,\n spregia la morte e sol teme il Monarca,\n 150 che 'l tempo breve e la vita ne porse:\n cos\u00ed senza timor secur si varca.--\nCAPITOLO XIII\nCome l'autore vede la Fortuna.\n Per l'aspero cammin di quella valle\n eravamo iti, al mio parer, un miglio,\n lasciando il van timor dietro alle spalle,\n quando per veder meglio alzai lo ciglio\n 5 e dalla lunga la Fortuna io vide\n mirabil s\u00ed, ch'ancor me 'n maraviglio.\n Minerva a me:--Se ti losinga o ride,\n e s'ella mostra a te il viso giocondo,\n fa' ch'allor ben ti guardi e non ti fide.\n 10 Quella \u00e8 che molti inganna in questo mondo\n col rider suo e spesso alcun inalza\n per abbassarlo e farlo ire al fondo.\n Guarda la faccia sua quant'ella \u00e8 falza\n e che di chiara in torba la trasmuta,\n 15 quando da alto alcuno in terra sbalza.--\n Quando da presso poi l'ebbi veduta,\n conobbi quant'\u00e8 grande quella donna,\n quant'\u00e8 sinistra e quanto alcuno adiuta.\n Era maggior che non fu mai colonna,\n 20 e sol dinanti avea capelli in testa,\n e d'oro fin dinanti avea la gonna.\n Ma dietro calva, e dietro avea la vesta\n tutta stracciata, ed era di quel panno,\n che vedoa porta in dosso, quando \u00e8 mesta.\n 25 Ghignando con un riso pien d'inganno,\n volgea con una man sette gran rote,\n che come spere in questo mondo stanno.\n La quarta er'alta insino onde percote\n con le saette Iove, ove il vapore,\n 30 dal gel costretto, da s\u00e9 l'acqua scuote.\n La terza d'ogni lato era minore,\n e le seconde poi minor che quelle;\n e minime eran poi quelle di fuore.\n Nella met\u00e1 le ruote paralelle,\n 35 dico nella met\u00e1, ch'alla 'ns\u00fa monta,\n erano orate e preziose e belle.\n Ma l'altra parte, quando su \u00e8 gionta,\n gi\u00fa vien calando a quella donna dietro;\n quanto pi\u00fa cala, pi\u00fa del mal s'impronta\n 40 e fassi oscura; e da quel lato tetro\n descender vidi molti a capo basso\n con gran lamento e doloroso metro.\n Poich\u00e9 caduti son con gran fracasso,\n ogni amico li fugge e li dispregia:\n 45 chi li sospinge e chi lor d\u00e1 del sasso.\n Ma alli salenti dalla parte egregia\n ognun si mostra amico ne' sembianti:\n chi li losinga e chi di loda 'i fregia.\n Come da due nel carro triunfanti\n 50 mescolato era il dolce con l'amaro,\n usando inver' di lor contrari canti,\n cos\u00ed su ad alto e giuso due cant\u00e2ro\n nel colmo delle rote e due di sotto,\n un d'allegrezza e l'altro del contraro.\n 55 La dea Minerva gi\u00e1 m'avea condotto\n sino alla donna, che voltava il giro:\n allor parl\u00f2, che pria non facea motto.\n E disse:--Io, che a basso e ad alto tiro\n le sette rote, son la dea Fortuna\n 60 e solo a quei dinanti lieta miro.\n Nullo su ad alto aggia fermezza alcuna\n in me di securt\u00e1 ovver fidanza,\n ch'io mostro faccia chiara, e quando bruna.\n E nullo a basso perda la speranza\n 65 tutta di me, ch\u00e9 spesso io son la scala\n di poner in ricchezza e gran possanza.\n Ma vegga ben ognun, anzi ch'e' sala,\n che non si lagni poi, n\u00e9 faccia grido,\n se 'l mando a quella parte che 'ngi\u00fa cala;\n 70 ch\u00e9, quando si lamenta, ed io mi rido;\n e se me chiama cruda, ed io lui pazzo,\n che 'n tanta sicurt\u00e1 faceva il nido.\n E questo \u00e8 'l gioco mio e 'l mio solazzo,\n atterrar quel dalla parte suprema,\n 75 ed esaltare un vestito di lazzo.\n Se falsa alcun mi chiama e mi biastema,\n io non me 'n curo, e lamentevol voce\n dell'allegrezze mie niente scema.--\n Io riguardai la rota pi\u00fa veloce,\n 80 di cui il cerchio quasi terra tocca;\n e l\u00ed stava uno a gran tormento e croce.\n E quando sotto va l'anima sciocca,\n tra 'l duro suolo e la rota s'accoglie,\n e gli strascina il ventre gi\u00fa e la bocca.\n 85 --Colui che su e gi\u00fa ha tante doglie,\n \u00e8 Ission ed ha tal penitenza,\n ch\u00e9 volle a Iove gi\u00e1 toglier la moglie;\n ch\u00e9 la sposa di Dio sua Provvidenza\n procacci\u00f2 di veder col suo intelletto,\n 90 s\u00ed come vano colla sua scienza.\n Saper si puote bene alcuno effetto,\n quand'\u00e8 futuro, nella sua cagione,\n come puoi nella _Fisica_ aver letto.\n Ma quel che vuol Fortuna e Dio dispone,\n 95 se Dio non lo rivela, mai si vede\n da intelletto creato o per ragione.\n Or mira quel che su nel colmo siede\n del terzo cerchio e pi\u00fa salir non p\u00f2,\n che cos\u00ed ride e securo esser crede.\n 100 Quegli \u00e8 il milanese Barnab\u00f2;\n ma tosto mostrer\u00e1 Fortuna il gioco,\n com'ella s\u00f2le e s'apparecchia m\u00f2.\n L'altro, che sale dietro a lui un poco,\n \u00e8 suo nipote, il qual del reggimento\n 105 il caccer\u00e1 e seder\u00e1 in suo loco.\n E quanto ad una cifra cresce il cento,\n cotanto accrescer\u00e1 il biscion lombardo\n e di Toscana fie in parte contento;\n se non che 'l giglio roscio, c'ha lo sguardo\n 110 sempre a sua libert\u00e1, contro lui opposto\n far\u00e1 che 'l suo pensier verr\u00e1 bugiardo.\n Nella seconda rota in cima \u00e8 posto\n Cola Renzo tribuno, ed \u00e8 salito\n nel colmo, ond'altra volta fu deposto.\n 115 Ma stato \u00e8 troppo folle e troppo ardito,\n c'ha presa la milizia su nel sangue\n de' principi roman tanto gradito,\n per che Colonna ed altri ancor ne langue;\n ma tosto Roma a lui trarr\u00e1 il veleno,\n 120 c'ha nella lingua il malizioso angue.\n Nel primo cerchio, che si volge meno,\n stanno li duci che si mutan spesso:\n per\u00f2 da ogni parte n'\u00e8 s\u00ed pieno.\n E quel, che sale al sommo ed \u00e8 s\u00ed presso,\n 125 tre volte a quella ruota gira intorno,\n e su e gi\u00fa tre volte ser\u00e1 messo.\n Egli \u00e8 chiamato Antoniotto Adorno:\n Genova bella, nella quale \u00e8 nato,\n metter\u00e1 ne' malanni e nel mal giorno.\n 130 Nel quinto cerchio l\u00e1 dall'altro lato\n regina sta magnifica Ioanna\n col capo di Sicilia incoronato.\n Ma la Fortuna, che ridendo inganna,\n mostrer\u00e1 a lei ed a quel che sal poi,\n 135 che chi in lei fida, sta in baston di canna.\n Del sesto cerchio se tu saper vuoi,\n l\u00ed sonno posti i novelli Caini,\n consumatori de' fratelli suoi,\n quei Della Scala spiatati Mastini\n 140 e pi\u00fa crudeli che rabbioso cane;\n ma tosto abbasso calaranno chini.\n Dall'altra rota, che di l\u00ed rimane,\n Ioanni dell'Agnello far\u00e1 il salto,\n mutando il fasto e le sembianze vane.\n 145 E prover\u00e1 quant'\u00e8 duro lo smalto\n del suol di Lucca, quando la percossa\n egli aver\u00e1, cadendo su da alto.\n Romperagli quel caso l'anche e l'ossa;\n ed in un punto le terre, ch'egli ha,\n 150 e Pisa del suo iugo sar\u00e1 scossa;\n ed ei sapr\u00e1 s'\u00e8 duro: e ben gli sta.\nCAPITOLO XIV\nDove trattasi della pena, che d\u00e1 l'Amore, quando ha il vero fondamento.\n Poscia salendo un monte ruinoso,\n noi ci partimmo ed, in un pian saliti,\n trovammo altro mart\u00edr molto penoso.\n Uomin vedemmo insieme molto uniti,\n 5 come di molti corpi un si facesse;\n ma i volti eran distinti e dispartiti.\n Pensa, lettore, un mostro che avesse\n un grande busto, e, bench'egli foss'uno,\n un collo molti capi contenesse.\n 10 Vero \u00e8 che lor color o bianco o bruno\n e lor gionture e lor lineamenti\n aperti si parean in ciascheduno.\n L\u00ed stan dimoni e con spade taglienti\n dividon quelli, e, quando alcun si parte,\n 15 li capi piangon tutti e son dolenti.\n Non credo che spargesse giammai Marte\n cotanto sangue; n\u00e9 fo mai battaglia\n di tai ferite, n\u00e9 si legge in carte.\n Non vale qui lo scudo ovver la maglia;\n 20 ch\u00e9 la iustizia d\u00e1 le gran percosse,\n ed ei fatt'han le spade, che li taglia.\n Vidi un dimonio, che irato si mosse\n ed un recise intorno in ogni canto,\n s\u00ed ch'e' rimase come un fusto fosse.\n 25 Un capo sol rimase e con gran pianto\n a me si volse e disse:--O tu, che mena\n seco Minerva, a me risguarda alquanto.\n Vedi l'amor quanto a noi torna in pena\n E tanto affliggon pi\u00fa le parentele,\n 30 quanto pria strinson con maggior catena.\n Ahi, quanto a' vivi torna amaro il m\u00e8le\n del dolce amor de' figli e de' congiunti,\n quando gli uccide la morte crudele!\n Diece figliuoli in salda etade giunti,\n 35 nove nepoti ebb'io ed un fratello,\n e poi li vidi in un mese defunti.\n Com'io, che 'n questo inferno ti favello,\n intorno intorno son cos\u00ed tagliato\n e, perch\u00e9 troppo amai, ho tal flagello;\n 40 cos\u00ed interviene all'uom, quando l'amato\n figlio o fratel gli \u00e8 tolto, e pi\u00fa tormenta,\n quanto pi\u00fa forte \u00e8 coniunto e legato.\n La casa, onde fui io, \u00e8 tutta spenta;\n fui da Perugia, di santo Ercolano,\n 45 e de' Vencioli la prima somenta.--\n Per la piat\u00e1 ingavicchiai la mano,\n e volea dar risposta a sue parole;\n ma e' spar\u00edo s\u00ed come un corpo vano.\n Ond'io dissi alla dea:--Se tanto duole\n 50 la cosa amata, quand'altrui si toglie,\n ben \u00e8 stolto colui ch'ama e ben vuole.\n Se non voglio d'amor sentir le doglie,\n non posso avere al cor migliore scudo,\n se non che d'ogni amore mi dispoglie.\n 55 E, se questo facessi, sar\u00eda crudo;\n ch\u00e9, se non amo le persone note,\n sarei di carit\u00e1 e di piat\u00e1 nudo.\n N\u00e9 anco il posso far, ch\u00e9 mal si pote\n ben rifrenar a che natura inclina:\n 60 tanto a quel corso son le cose mote.\n --Tra tutte l'altre cose la pi\u00fa fina\n --disse Minerva a me--\u00e8 'l dolce amore,\n se dal ver fundamento non declina.\n Ma, se nel fundamento sta l'errore,\n 65 quanto pi\u00fa l'edifizio cresce o sale,\n tanto fa pi\u00fa ruina e duol maggiore.\n Fundamento \u00e8 che quanto alcun ben vale,\n tanto si stimi e tanto amore accenda,\n quant'egli ha di bont\u00e1 e men di male.\n 70 E, s'egli \u00e8 ben che d'altro ben dependa,\n non s'ami quasi per s\u00e9 esistente,\n se vuoi che, quando \u00e8 tolto, non t'offenda.\n Fundamento \u00e8 che quel, ch'\u00e8 dipendente,\n non s'ami come fermo e per s\u00e9 stante,\n 75 ch'ei da se sol non ha essere niente;\n ch\u00e9 'l Creator le cose tutte quante\n fe' di niente, e, s'egli le lassasse,\n niente tornerian come che innante.\n Adunque come il servo, che estimasse\n 80 essere sue le cose del signorso\n e come proprie sue cos\u00ed le amasse,\n se poi gli fusson tolte, sar\u00eda morso\n di gran dolore ed aver\u00eda li duoli\n per quell'error, nel qual \u00e8 in prima corso;\n 85 cos\u00ed fanno li padri de' figliuoli,\n e de' coniunti li mondani stolti,\n che gli estimano stanti e per se soli.\n E 'l giusto Iobbe de' figliuoli adolti,\n quando f\u00fbr morti, fe' questa risposta:\n 90 --Dio me gli diede e Dio me gli ha ritolti.--\n Tu mi dicesti nella tua proposta:\n --A nullo, amando, voglio avere affetto,\n dacch\u00e9, perduto, tanto amaro costa.--\n Io dico ch'abbi amor, ma sia perfetto\n 95 e temperato s\u00ed, che, se 'l divide\n o Dio od altro, non t'affligga il petto.--\n Ed io a lei:--Maestra, che mi guide,\n dimostra a me ancora un altro vero,\n ch'\u00e8 s\u00ed oscur, che mai mia mente il vide.\n 100 Tu di' che volont\u00e1 ha 'l summo impero\n di nostra barca e che regge il timone\n di tutti i sensi e 'l carnal desid\u00e8ro.\n S'egli \u00e8 cos\u00ed, or dimmi qual cagione\n pi\u00fa volte vince questa volontade,\n 105 che non p\u00f2 far quel che vuol la ragione,\n che par contrario alla sua nobiltade,\n poich\u00e9 libero arbitrio gli \u00e8 concesso,\n s\u00ed che 'l s\u00ed e 'l no sia in sua libertade.\n Io so d'alcun c'ha 'l piede in amor messo\n 110 e non ha forza a poterlo ritrare:\n tanto Amor puote e vince per eccesso.\n Ben so che ogni cosa debbo amare\n in quanto \u00e8 buona, e solo in Dio \u00e8 buona;\n e, bench\u00e9 'l sappia, io non lo posso fare.--\n 115 Ed ella a me:--Vostra natura \u00e8 prona\n agl'impeti de' sensi, e, se v'indura\n per molta usanza e troppo s'abbandona,\n allora l'uso converte natura,\n s\u00ed che ragion non pu\u00f2 guidare il freno\n 120 del desiderio bene a dirittura.\n Di diecemila uno ed ancor meno\n si trova, che co' sensi non s'accorde\n in tutto o in parte col voler terreno.\n L'amor vi pu\u00f2 legar con quattro corde:\n 125 la prima \u00e8 di Cupido la gran fiamma,\n l'altra \u00e8 di cupidigia e voglie ingorde,\n poi de coniunti, figli, padre e mamma,\n e 'l quarto amor d'amici ed \u00e8 s\u00ed poco,\n quanto rispetto a mille \u00e8 una dramma.\n 130 Or sappi di Cupido che 'l gran foco\n e l'amor de' coniunti tanto lega\n e l'amor della borsa e d'ampio loco,\n ch'\u00e8 molto forte che ragion il rega,\n se gran virt\u00fa non rompe il gran legame,\n 135 che tanto forte inver' l'amato piega.\n E, bench\u00e9 Dio ne dica ch'ognun l'ame,\n ciascuna d'este fun s\u00ed forte tiene,\n ch'a lui non lascia ir, bench\u00e9 vi chiame.\n E perci\u00f2 nel Vangelio si contiene\n 140 che amiate Dio col core e colla forza,\n s\u00ed come il primo e pi\u00fa sovrano bene.\n E, se avvien ch'altro amore vi torza,\n rompete quella fun, ch'altrove tira\n colla vert\u00fa, che giammai non s'ammorza.\n 145 Siate come Sanson, commosso ad ira,\n quando li fe' la moglie il grave laccio,\n cio\u00e8 l'amor carnal, a chi ben mira.\n E cos\u00ed, Dio amando senza impaccio,\n colla virt\u00fa che sta nelli capelli\n 150 e non sta nella carne ovver nel braccio,\n d'amor carnal non si senton fragelli.--\nCAPITOLO XV\nCome l'autore riconosce la citt\u00e1 di Dite in questo mondo,\ne quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini.\n Nel terzo regno su per quella piaggia\n noi devenimmo, ed, alzando le ciglia,\n s\u00ed come piacque alla mia scorta saggia,\n vidi di Dite la citt\u00e1 vermiglia,\n 5 di mille miglia intorno, ed in figura\n a Dite dell'inferno s'assomiglia.\n Di ferro ardente avea le grandi mura,\n a ogni cento pi\u00e8 avea una torre,\n con guardian, che mi facea paura.\n 10 Attorno delle mura un fiume corre,\n ardente pi\u00fa che non \u00e8 il fuso rame,\n quando in campana per canal trascorre.\n Bolliva pi\u00fa assai che 'l Bollicame,\n e, perch\u00e9 ferve, per\u00f2 Flegetonte\n 15 il suo vocabol convien che si chiame.\n Dalla ripa alla porta era per ponte\n attraversato e steso un sottil filo,\n pel qual chi in Dite va, convien che monte.\n Non fe' s\u00ed sottil riga giammai stilo,\n 20 n\u00e9 fil\u00f2 s\u00ed sottil giammai aragna,\n com'\u00e8 la via che mena in quell'asilo.\n Su per quel fil sottil la mia compagna\n prima si mosse, e, poich\u00e9 un passo diede,\n disse che andassi dietro a sue calcagna.\n 25 Io non andai, ma tenni fermo il piede,\n dicendo a lei:--Non verr\u00f2, perch\u00e9 temo,\n ch\u00e9 non son io legger quanto tu crede.--\n Cos\u00ed, standomi fermo su l'estremo\n di quella ripa, dicea:--Non verraggio,\n 30 se noi per altra via non anderemo.--\n Palla, per rifrancare a me il coraggio,\n tre volte l\u00e1 e qua 'l filo trascorse,\n come colui ch'assecura il viaggio.\n E, poich\u00e9 la sua man alla mia porse,\n 35 resposi:--Io vegno, da che pi\u00fa ti piace;\n ma forte temo e del cader so' in forse.--\n Su per lo fil pi\u00fa sottil che bambace\n io passai Flegetonte e sua mal'onda,\n ch'ardea di sotto pi\u00fa che una fornace.\n 40 Quando giunse Minerva all'altra sponda,\n ella chiam\u00f2 come chi chiama forte\n un che sia lunge e v\u00f2l che gli risponda.\n E disse:--Aprite a noi queste gran porte,\n ch\u00e9 siam discesi nel maligno piano\n 45 per veder Pluto, il tempio e la sua corte.--\n Risposto fu:--Il vostro passo \u00e8 vano:\n nullo entrar puote, s'e' non porta seco\n o presente o denar nella sua mano.--\n La dea subiunse:--Me' che denar reco:\n 50 per\u00f2 apri a noi tosto, o portinaio,\n a me ed a costui, il qual \u00e8 meco.--\n Mamon, che tra coloro era il primaio,\n la gran porta di Dite in fretta aperse,\n ratto ch'ud\u00ed nominar il denaio.\n 55 Ma, quando vide poi che nulla offerse,\n con grande sdegno ne guard\u00f2 in tortoni,\n e poscia irato este parol proferse:\n --Or dimmi dove son questi gran doni,\n che di' ch'arrechi, o donna, e ch'a noi porti,\n 60 che pi\u00fa che li denar di' che son buoni.\n Ma entrasi cos\u00ed nelle gran corti?\n Uscite fuora e ritornate addietro\n tu e costui, a cui ha' i passi scorti.\n --Da tal Signor il mio andar impetro\n 65 --disse Minerva,--ch'io non ho temenza,\n quantunque mostri a noi il volto tetro.\n E 'l don, che reco meco, \u00e8 la scienza,\n che non si perde mai quand'io la insegno:\n per\u00f2 pi\u00fa che null'oro \u00e8 di eccellenza.\n 70 Palla son io, che a questo loco vegno,\n e son dell'arme, d'arti e di scolari\n prima maestra e forma d'ogni ingegno.--\n Mamon rispose:--Chiunque vuol, impari,\n ch\u00e9 la scienza qui non \u00e8 di pregio,\n 75 e nulla vale a rispetto ai denari.\n Ma, se veder volete il gran collegio\n del nostro Pluto, andate alla man destra,\n e 'l mio consiglio non abbiate a spregio.--\n Minerva a lui:--Ognun male ammaestra,\n 80 se pria no' impara; e mal guida sar\u00eda\n chiunque non sa il cammin, pel quale addestra.--\n Cos\u00ed dicendo, non prese la via,\n ch'egli avea detto, ma sal\u00ed s'un'erta,\n che ben due miglia d'un monte pend\u00eda.\n 85 Nell'altra valle selvaggia e deserta\n Circe trovai, la maladetta maga,\n che fa che l'uomo in bestia si converta.\n Con gli occhi putti e con la faccia vaga\n losinga altrui e con ridente grifo,\n 90 acci\u00f2 che l'alme a sue mal\u00ede attraga.\n Nella sinistra man tenea un cifo,\n il qual empi\u00e8 di s\u00ed brutto veneno,\n che ancor, pensando, me ne viene schifo.\n Io vidi un uomo, a cui lo porse pieno,\n 95 diavolo farsi, quand'ella gliel diede,\n a membro a membro e l'uman venir meno.\n In pi\u00e8 di cigno in prima mut\u00f2 il piede\n e poi le gambe, e poi d'un babbuino\n mise la coda e 'l membro ove si siede.\n 100 Il ventre fe' squamoso e serpentino,\n e negro il petto pi\u00fa che gelso m\u00e9zzo,\n le man pelose e l'ugne quasi uncino.\n Mentre si trasmutava a pezzo a pezzo,\n mise due ali assai pi\u00fa ner che corvo;\n 105 cornuto il capo e 'l viso fe' d'un ghezzo.\n La bocca fe' d'un porco, il naso c\u00f3rvo:\n cos\u00ed dimon si fece a poco a poco\n cogli occhi rosci e collo sguardo torvo.\n Per tutti i nove f\u00f2r gittava foco;\n 110 ma nella bocca egli era acceso piue\n che una fiamma, in che soffiasse coco.\n Mentr'i' ammirava, ancor ne vidi due\n del maladetto cifo abbeverarne;\n e l'un divent\u00f2 lupo, e l'altro bue.\n 115 Io vidi molti poscia trasmutarne\n in cani e volpi ed in leoni ed orsi,\n e draghi farsi dall'umana carne.\n Per tutti i lochi, ch'io avea trascorsi,\n non stetti cosa a veder tanto vaga\n 120 quanto che questa, quand'io me n'accorsi.\n --Ahi, gente fatta alla divina imago\n --disse Minerva,--perch\u00e9 'n te trasmuti\n la bella effigie in lupo ovver in drago?\n Perch\u00e9 visson gi\u00e1 questi come bruti,\n 125 a lor Iustizia questa pena rende,\n che li sembianti umani abbian perduti;\n ch\u00e9 non \u00e8 uom, se 'l vizio tanto apprende,\n che non conosce il male e non ha pena\n e non vergogna e t\u00e9ma, quando offende;\n 130 ch\u00e9 Dio ha posta in voi luce serena,\n che fa che il mal da prima si conosca,\n e vergogna e timor d\u00e1, che 'l raffrena.\n Ma, quando alcun tanto il peccato attosca,\n che non vergogna e che non ha timore,\n 135 segno \u00e8 che quella luce in lui \u00e8 fosca.\n E questo mena poi in pi\u00fa errore,\n ch'e' piace a se medesmo quando pecca,\n e del mal suo s'allegra e dell'angore.\n Ogni bont\u00e1 umana allor \u00e8 secca,\n 140 che loda il vizio per virtude vera,\n e piacegli chi uccide, robba e mecca.\n E, se in tal vizio indura e persev\u00e8ra,\n allora 'n lui 'l peccar si fa _necesse_,\n e di emendarsi al tutto si dispera.\n 145 Sappi anco che non toglie l'uman _esse_\n il male, al qual fragilit\u00e1 conduce,\n n\u00e9 da ignoranza le colpe commesse;\n ch\u00e9 tutta non oscuran quella luce,\n che Dio ha posto in voi, della ragione,\n 150 che t\u00e9ma, duolo e vergogna produce.\n Quel che vedesti, che si fe' dem\u00f2ne\n e fe' l'aspetto tanto brutto e rio,\n fu spoletino e detto Servagnone:\n ladro, assassin, biastimator di Dio\n 155 e dispettoso d'ogni cosa bona\n e nemico ad ogni atto onesto e pio.\n L'altro s'assomigli\u00f2 a Licaona,\n il terzo al mostro posto nel Labrinto,\n che uomo e toro fu 'n una persona.\n 160 N\u00e9 l'un n\u00e9 l'altro ben era distinto:\n or puoi saper di lor qual fu il peccato,\n che 'n lor l'aspetto umano ha tutto estinto,\n e perch\u00e9 'n bestia ciascuno \u00e8 mutato.--\nCAPITOLO XVI\nDelle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani.\n Nullo, se non Iddio, conosce il cuore,\n e vede ogni palese ed ogni occolto;\n ma l'uom p\u00f2 iudicar sol quel di f\u00f2re.\n Per\u00f2 chi estima altrui secondo il volto\n 5 ovver nell'apparenza che fuor vede,\n spesse volte gli avvien ch'egli erra molto.\n E per questo intervien ch'\u00e8 poca fede\n e che gli antichi ed ognun ch'\u00e8 ben saggio,\n si guarda pi\u00fa, e meno ad altri crede.\n 10 Io era ancor nel loco che detto aggio,\n ove sta Circe nella valle trista,\n che 'n bestia sa mutar l'uman visaggio.\n L\u00ed era gente pi\u00fa piacente in vista\n che nullo albergator nel proprio albergo\n 15 o mala putta di losinghe artista.\n E mentre dietro a dea Minerva pergo,\n ella mi disse:--Fa' che qui ti guardi,\n e fa' che sempre tu mi venghi a tergo.\n Se tu per mezzo del mio scudo sguardi,\n 20 tu vederai pel mio cristallin vetro\n i cor di tutti questi esser bugiardi.--\n Onde, sguardando ed a lei stando dietro,\n io vidi ci\u00f2 ch'a me prima era oscuro;\n e forte mi fia a dirlo in questo metro.\n 25 Per queste rime mie, lettor, ti giuro\n che alcun di quelli dentro era un serpente\n e nella vista fuor pareva uom puro.\n Ed alcun altro, quando posi mente,\n di fuor pareva pur un sant'Antonio\n 30 e dentro un lupo rapace e mordente.\n Agnol di f\u00f2re, e dentro era un demonio\n alcun di quei, quando li vedea nudi:\n se dico il ver, Dio mi sia testimonio.\n --O sacra dea, che tanto ben mi scudi\n 35 --diss'io a lei:--oh quanto tradimento!\n quanti Gani stan qui e quanti Iudi!\n S\u00ed come ad Amasa gi\u00e1 prese il mento\n Ioab e disse a lui:--Salve, fratello!--\n mentre l'uccise con pena e tormento;\n 40 cos\u00ed sotto al sembiante blando e bello\n molti di questi nascondon l'inganno,\n che portan dentro al cor malvagio e fello.--\n Ed ella a me:--Quando risurgeranno\n questi cotal dalla falsa apparenza,\n 45 la vista, che han dentro, prenderanno;\n ch\u00e9 Dio ha dato lor questa sentenza,\n che forma umana da lor non si pigli,\n da che han mutata in bestia lor semenza.\n Or mira in alto ed alza su li cigli.--\n 50 Ond'io li alzai e vidi le tre Furie\n col volto irato e cogli occhi vermigli.\n Figura avean di donna, a cui iniurie\n un'altra donna pel tolto marito,\n quando si turba che con lei lussurie.\n 55 Col viso irato, crudele ed ardito\n strigneano i denti e strabuzzavan gli occhi\n inverso me, menacciando col dito.\n --Regina mia--diss'io,--or non adocchi\n che di paura io vengo tutto manco\n 60 e tremanmi le gambe e li ginocchi?--\n Ed ella a me:--Sta' forte e col cor franco,\n e non temer niente i lor fragelli,\n mentre hai lo scudo mio e staimi a fianco.\n Quella che di scorzoni ha li capelli,\n 65 Megera ha nome, crudelt\u00e1 dell'ira:\n vedi c'ha tutti i peli a serpentelli.\n Aletto \u00e8 l'altra, che 'n torton ti mira,\n che ha tanti serpi d'intorno alle tempie,\n e nasce di colei ch'al ben sospira.\n 70 L'altra, c'ha le sembianze tanto scempie,\n \u00e8 quella falsa crudelt\u00e1, che nacque\n del mostro che di cibo mai non s'empie.\n Ella grid\u00f2, ch'al mio parer gli spiacque\n ch'io dicessi:--Cos\u00ed venne Medusa\n 75 per l'amor di colui che regge l'acque.\n Tesifone, costui a faccia chiusa\n vedr\u00e1 il Gorgon: or t'\u00e8 venuto in fallo\n che 'l faccia pietra, s\u00ed come e' far usa.--\n Per mezzo del mio scudo del cristallo\n 80 vedrai quel mostro, ed io a viso nudo\n veder nol curo; ed ella il perch\u00e9 sallo.--\n Io stavo a prova ben dietro allo scudo,\n quando apparve Medusa, il crudel mostro,\n superbo, orrendo, dispettoso e crudo;\n 85 e sopra quelli di quel tristo chiostro\n sol con lo sguardo un tal veneno asperse,\n ch'era pi\u00fa ner che non fu mai inchiostro.\n Allor tutti pigli\u00f4n forme diverse\n dentro alla mente, e secondo le colpe\n 90 cotal figure avean nel cor submerse.\n Alcun si fe' leon ed alcun volpe,\n alcun dimonio, alcun lupo rapace;\n ma tutti av\u00edan di fuore umane polpe.\n --O sacra dea, chi \u00e8 colui che pace\n 95 mostra nel volto e par soave e piano,\n e dentro al cor come un diavol giace?--\n Ed ella a me:--\u00c8 Iacopo d'Appiano.\n Molti son qui de' traditor di Pisa;\n ma egli sopra tutti \u00e8 il pi\u00fa sovrano.\n 100 'Nanti che fusse l'anima divisa\n dal corpo suo, tal era nel pensiero;\n per\u00f2 \u00e8 trasmutato in questa guisa.\n Egli trad\u00ed il nobil messer Piero\n de' Gambacorti e fe' dei figli preda,\n 105 mentre a lor si mostrava amico vero.\n E lasci\u00f2 dopo lui l'avaro ereda\n colui che fe' la bella Pisa schiava\n e per dinar la die', che si posseda.\n E quel secondo, in cui tossico e bava\n 110 sparse Medusa e venenolli il petto,\n e c'ha la mente dentro tanto prava,\n fu re di Cipri, chiamato Iacchetto.\n Al suo fratel maggior diede la morte,\n mentre a riposo giaceva nel letto,\n 115 cio\u00e8 al re Pietro magnanimo e forte,\n che 'n Alessandria gi\u00e1 mise la 'nsegna\n dentr'alla piazza e vinse le sue porte.\n Quel terzo, c'ha la faccia s\u00ed benegna\n e dentro \u00e8 tutto quanto serpentino\n 120 e c'ha la mente di venen s\u00ed pregna,\n fu Della Scala e fu crudel Mastino.\n Il suo fratel maggior uccise pria\n e poi fu del minor ancor Caino.\n Morto il primaio, ed ei sen fugg\u00ed via\n 125 per la paura, ed allor di Verona\n l'altro fratel pigli\u00f2 la signoria.\n Mand\u00f2 pel fratricida e a lui perdona;\n e tanto amore inver' di lui accese,\n che la bacchetta signoril li dona.\n 130 Costui il donator ligato prese\n e stretto el fece mettere in prigione:\n cos\u00ed fu grato a chi fu a lui cortese.\n E poi 'n quell'ora ch'ognun si dispone\n in su l'estremo, e contrito e confesso\n 135 si rende a Dio con gran divozione,\n costui mand\u00f2 il dispiatato messo,\n e fe' mozzare al suo fratel la testa,\n e di vederla content\u00f2 se stesso.\n Or fu mai crudelt\u00e1 maggior che questa?\n 140 Non quella ch'a Tieste fece Atreo,\n quando i figli mangiar gli die' per festa;\n non quella di Nettunno e di Teseo;\n ch'ognun di questi, a chi ponesse cura,\n iniuria il fece cos\u00ed esser reo.\n 145 Ma costui non offesa, non iniura,\n non la cagion, per che fu morto Remo,\n che pria bagn\u00f2 di sangue l'alte mura.\n Ma sol si fece d'ogni piat\u00e1 scemo,\n ch\u00e9 dopo lui 'l fratello non regnasse:\n 150 per questo il fe' morir su nell'estremo.\n O doppio fratricida, se tu lasse\n la doppia prole, il tuo paterno esempio\n degno \u00e8 ch'ancor da lor si seguitasse;\n ch\u00e9 l'uno uccise l'altro crudo ed empio,\n 155 e della Scala fu l'ultima feccia,\n che sen fugg\u00ed del veronese tempio\n dietro a colei che solo in fronte ha treccia.\nCAPITOLO XVII\nCome l'autore vede il tempio di Plutone.\n Continuando per la gran foresta\n io vidi il tempio di Pluton da cesso,\n presso ad un'acqua, che avea gran tempesta.\n E, quando giunto fui insino ad esso,\n 5 vidi ch'era fundato in sulla rena\n di quel gran fiume, che li corre appresso.\n Io forte ammiraria che non sel mena\n quel gran torrente: tanto forte corre,\n quando tra' vento e quando egli \u00e8 'n gran piena,\n 10 non fusse che quel tempio ha una torre,\n che su la pietra viva sta fundata:\n per\u00f2 quell'acqua non la p\u00f2 via t\u00f4rre.\n Quando Minerva fu in sull'intrata,\n mi die' la mano; e, quando dentro fummo,\n 15 ratto dal portinar fu domandata:\n --O voi ch'entrate qui, adorate il Nummo?--\n La dea rispose:--Certo adoro Deo;\n ch\u00e9 fuor di lui ogni altra cosa \u00e8 fummo.--\n Similemente anche risposi eo,\n 20 perch\u00e9 mi ricordai della risposta,\n che fe' san Paulo dentro al Coliseo.\n Io vidi su in una sede posta\n seder Plutone e poscia Radamanto,\n Minos ed Eaco star dall'altra costa.\n 25 Ben mille poi sed\u00eden dall'altro canto\n nel crudel tempio, formato al contrario\n a quel che fece Cristo umile e santo;\n ch\u00e9 in quel di Cristo il pover volontario\n era il pi\u00fa ricco, ed umilt\u00e1 fa grande,\n 30 s\u00ed come apparve in Pietro, suo vicario.\n In questo, in cui avarizia si spande,\n quell'\u00e8 maggior che pi\u00fa aver possede,\n e quel si fa che regga e che comande.\n Iustizia, carit\u00e1 e ferma fede\n 35 fund\u00e2r quest'altro, e 'l sangue e dura morte,\n che die' 'l martirio dietro al primo erede.\n Per\u00f2 sta fermo ed anco \u00e8 tanto forte,\n che nol vincon Sat\u00e1n e tutti i suoi,\n n\u00e9 posson contro lui l'infernal porte.\n 40 In mezzo a quel collegio venne poi\n un mostro armato in forma tanto brutta,\n che, pur pensando, ancor par che mi n\u00f2i.\n La faccia umana avea di mala putta\n e tutto il busto in forma serpentina;\n 45 ed ella d'oro era coperta tutta.\n Sotto suoi pi\u00e8 teneva una regina\n tanto formosa, che la sua beltade\n non parea cosa umana, ma divina.\n E colla coda armata di tre spade\n 50 la percoteva tanto asperamente,\n che ogni gran crudel n'ar\u00eda piatade.\n --Quel c'ha la faccia umana ed \u00e8 serpente\n --disse Minerva,--della belva nacque,\n che diede ad Eva il cibo fraudulente.--\n 55 Poi, rimirando, s\u00ed come a lei piacque,\n io vidi l'idol Nummo del talento,\n che stava presso alle tempestose acque.\n E credi a me, lettor, ch\u00e9 non ti mento,\n che da Pluto e da' suoi era onorato\n 60 vieppi\u00fa che Dio assai per ognun cento.\n Plutone in prima a lui inginocchiato,\n poi tutti gli altri gli offersero un core,\n il don che al sommo Dio sar\u00eda pi\u00fa grato.\n E come Ignazio \u00abIes\u00fa Salvatore\u00bb,\n 65 cos\u00ed tra quelli cori io vidi scritto\n \u00abdenar\u00bb, \u00abdenar\u00bb, \u00abdenar\u00bb dentro e di fuore.\n La vergine, a cu' il petto avea trafitto\n colla sua coda armata il mostro fello,\n menata fu all'idol quivi ritto.\n 70 E come Pirro innanzi al tristo avello\n del padre Achille uccise Polisena,\n stando ella mansueta come agnello;\n cos\u00ed la f\u00e8ra con dispregio e pena\n sacrific\u00f2 la verginetta pura,\n 75 spargendo quivi il sangue d'ogni vena.\n Ed ella intorno intorno ponea cura\n a' circumstanti per aver difese,\n e nullo la subvenne in tanta iniura.\n Un angel venne ed in braccio la prese,\n 80 dicendo:--La donzella ch'\u00e8 qui morta,\n \u00e8 viva in ciel, onde prima discese.--\n E poscia verso la celeste porta\n con lei in braccio mosse il santo volo,\n come falcon che 'ns\u00fa la preda porta.\n 85 Il mostro, che del drago fu figliuolo,\n inver' la gente, ch'era quivi, corse,\n blando leccando alcun come cagnolo.\n Ed alcun altro crudelmente morse\n prima col dente acuto e venenoso,\n 90 poi con la coda, che come uncin torse.\n Nel tempio, a quel di Dio fatto a ritroso,\n Proserpina era reina infernale,\n adulterata spesso dal suo sposo;\n ch\u00e9, non guardando chi, come, n\u00e9 quale,\n 95 purch'al marito suo si dica:--Io pago,--\n la 'spone ad adulterio e ad ogni male.\n E presso al fiume su in un gran drago,\n che diece colli avea e diece teste,\n stava a seder coll'occhio putto e vago.\n 100 Il vestimento suo, il qual ei veste,\n di purpura era, e teneva il pi\u00e8 manco\n dentro nell'acqua di s\u00ed gran tempeste.\n Poi in un cifo ben pulito e bianco\n vidi ch'e' bebbe sangue e inebriosse\n 105 pi\u00fa che briaco, ch'io vedesse unquanco.\n In questo il mostro inver' di noi si mosse;\n e diece teste mison sette corni;\n e fieramente l'un l'altro percosse.\n Quando ser\u00e1, o putta, che tu torni\n 110 al primo stato, alla tua madre antica,\n nel prato, ove coglievi i fiori adorni?\n Tu gi\u00e1 vivesti nel mondo pudica,\n e Luna in cielo e ne' boschi Diana\n innanzi ch'a Pluton tu fussi amica,\n 115 allora quando in ogni cosa vana\n davi del calcio, e quando eri tenuta\n come regina e non come puttana.\n Poscia che quella donna ebbi veduta,\n Minerva di quel tempio rio mi trasse\n 120 per quella porta, ond'ella era venuta.\n E su per una via volle che andasse,\n ove dem\u00f2ni stavan con uncini,\n con reti e lacci, ch'alcun ve cascasse.\n --O dea--diss'io,--qual via vuoi che cammini?\n 125 Or chi ser\u00e1 colui, che quinci vada,\n che in alcun d'esti lacci non ruini?--\n Ed ella a me:--Per mezzo della strada\n chi va e non declina a nulla parte,\n securo va che ne' lacci non cada.\n 130 E, perch\u00e9 qui bisogna senno e arte,\n il fren ti metter\u00f2; e, s'io ti meno,\n non temer mai che possi illaquearte.--\n Cos\u00ed dicendo, ella mi mise un freno;\n poscia mi mise nell'aspro viaggio,\n 135 ch'era d'uncini e lacci e reti pieno.\n Quando io vi penso, ancor paura n'aggio\n di que' dim\u00f2ni e di que' lacci tesi,\n ne' quai cade ciascun che non \u00e8 saggio.\n Da ogni parte io vidi molti presi,\n 140 fra' quai conobbi messer Gualterotto;\n e vennemi piat\u00e1 quando lo 'ntesi.\n E' disse a me:--Perch\u00e9 da me fu rotto\n nel mondo ogni statuto e li decreti,\n per\u00f2 tra questi uncini io son condotto.\n 145 Leggi iustiniane e que' de' preti\n non usa il mondo se non per guadagno:\n per\u00f2 lass\u00fa son fatte come reti.\n Come rompe il moscon la tela al ragno,\n e non la mosca, cos\u00ed gli uomin grandi\n 150 straccian le leggi e danvi del calcagno.--\n Poi disse:--Or satisfa' a' miei domandi:\n dimmi s'\u00e8 ver che li pisan sian schiavi,\n e de' Lanfranchi miei, mentre tu andi.--\n Ed io a lui:--Le signorie soavi\n 155 non si conoscon mai dalli subietti,\n se non poscia ch'e' provan le pi\u00fa gravi.\n Sappi ch'i tuoi pisan son s\u00ed costretti\n sotto quel giogo, che 'l dinar lor mise,\n che i Gambacorti sono or benedetti.\n 160 Poscia che 'l traditor d'Appiano uccise\n messer Pier Gambacorti e i figlioli anchi\n a tradimento e piangendo ne rise\n ed uccise anche i primi de' Lanfranchi,\n egli vendette la citt\u00e1 d'Alfea,\n 165 s\u00ed che li tuoi pisani or non son franchi.--\n Tanto m'avea menato oltre la dea\n continuando per l'aspero calle,\n che, se pi\u00fa detto avesse, io non l'odea.\n Quando noi fummo in una lunga valle,\n 170 la dea Minerva allor mi trasse il camo,\n che m'avea posto in bocca e sulle spalle.\n E, quando un altro monte salivamo,\n vidi color che dietro son cavalli,\n e son dinanzi nepoti di Adamo,\n 175 avvolti di serpenti verdi e gialli.\nCAPITOLO XVIII\nDove si tratta delli centauri.\n Quando giunsi nel monte suso ad alto,\n mirai la valle, maledetta chiostra,\n ove i centauri stanno a far l'assalto.\n Come soldati, quando fan la mostra,\n 5 spronando lor cavalli, van gagliardi,\n o come cavalier che vanno a giostra;\n cos\u00ed i centauri l\u00ed con archi e dardi\n descorron per la valle a mille, a cento,\n veloci pi\u00fa che tigri o leopardi.\n 10 Palla scendea la costa a passo lento:\n e 'l sesto miglio avea a scender forse,\n quand'io ebbi timore e gran pavento;\n ch\u00e9 'l maggior de' centauri s\u00ed s'accorse\n di noi che scendevamo, e presto e fiero\n 15 con ben mille de' suoi, venendo, corse.\n Non si mosse corsier mai s\u00ed leggiero,\n n\u00e9 capriolo ovver corrente cervo,\n com'ei correva superbo ed altiero\n coll'arco teso in man. Ed in sul nervo\n 20 egli avea gi\u00e1 una saetta posta;\n e, giunto, disse col parlar protervo:\n --Fermate i passi e fate la risposta:\n con qual licenza qui, con qual valore\n ardite voi di scendere la costa,\n 25 senza licenza del nostro signore,\n che 'n mezzo il mondo siede triunfante,\n come re principale e imperadore?\n A te saettarei, che vien dinante,\n se non che allo scudo mi rassembre\n 30 amica di Perseo ed al sembiante.--\n La dea rispose:--O animal bimembre,\n a cui ha dato forza il fiero Marte,\n e con cui 'l sol sta in mezzo di novembre,\n l'onor dell'arme \u00e8 anco mio in parte.\n 35 Io son Bellona, che costui scorgo,\n che do nelle battaglie ingegno ed arte.\n Veder lo puoi, se bene sguardi il Gorgo,\n ch'io porto nel mio scudo de cristallo,\n che per difesa innante al petto porgo.--\n 40 Chiron, che inseme \u00e8 uomo e cavallo,\n udito questo, gli fe' reverenza,\n e f\u00e9la far a ciascun suo vassallo.\n Allora io scesi gi\u00fa senza temenza\n ivi fra loro; e, poi ch'io vi fui giunto,\n 45 uomini vidi stare a gran sentenza;\n ch\u00e9 da' centauri a lor bevuto e smunto\n era lo sangue da tutte le vene,\n quanto ve n'era insin ch'era consunto.\n E, quando \u00e8 v\u00f2to, che pi\u00fa non ne viene,\n 50 e' son compressi e messi allo strettoio,\n e trattogli ogni umor con guai e pene.\n Io vidi alcun solo aver l'ossa e 'l cuoio,\n e volergli esser anche il sangue tratto,\n gridando lui:--Oim\u00e8, oim\u00e8, ch'io muoio!--\n 55 Tra lor iustizia ha posto questo patto:\n che poscia son lasciati insin che cresce\n in loro il sangue e l'umor sia rifatto,\n e poi ripresi, ed anco quanto n'esce\n lor tolto \u00e8 'l sangue, e, poich\u00e9 son bevuti,\n 60 restretti sonno e messi alle soppresce.\n Fra quegli spirti magri e desvenuti\n Minerva, andando, tanto mi condusse,\n che tra quei duoli pungenti ed acuti\n io trovai 'l Laberinto; e ch'ello fusse\n 65 nol conoscea, se non ch'io vidi dentro\n quel che del toro Pasife produsse.\n Egli mugghiava fortemente, e, mentro\n stav'io a vederlo e ad udir i lamenti,\n che l'anime facean nel cieco centro,\n 70 ven\u00edan tre alme a quelli gran tormenti\n belle e membrute, pien di sangue e grasse,\n ma nella vista angosciose e dolenti.\n Come leon, che allegro e crudo fasse,\n vista la preda, e mostra maggior ira,\n 75 non altramente Nesso inver' lor trasse,\n il quale am\u00f2 la bella Deianira.\n Trasse il centauro che nutr\u00ed Achille,\n e come sanguesuga il sangue tira.\n Trasse Medon ed Imbro e pi\u00fa di mille;\n 80 ed ognun le succhiava quanto puote,\n come cagnol che succhia le mammille.\n Poscia che l'alme f\u00fbn del sangue v\u00f2te,\n divennon magre, ed ognuna si fece\n qual \u00e8 la fame indosso e nelle gote.\n 85 Diss'io:--O spirti, se parlar vi lece,\n chi foste e perch\u00e9 s\u00e8te s\u00ed destrutti?\n per qual iustizia o colpa o in qual vece?\n --Capitan di campagna fummo tutti\n --rispose l'uno,--e qui per un cammino\n 90 venuti a queste pene e a questi lutti.\n Ed io, che parlo a te, sono Ambrosino,\n figliuol di Barnab\u00f2, del gran lombardo,\n e sol qui tra costor io fui latino.\n L'altro, ch'\u00e8 qui, \u00e8 Annichin Mongardo;\n 95 fra Moriale \u00e8 'l terzo; e questa asprezza\n abbiam, ch'ognun fu crudo e fu bugiardo.\n E molt'erra chi crede aver fermezza\n fede d'uom d'arme ovver di meretrice,\n da che 'l denaio a suo piacer la spezza.\n 100 Se ben attendi al mio parlar che dice,\n vedrai ch'amor e fede mal si fonda,\n quando l'utilitate ha per radice.\n Perch\u00e9 alla colpa la pena risponda,\n noi siam succhiati, che smongemmo altrui,\n 105 quando noi fummo in la vita gioconda.\n Se tra li vivi perverrete vui,\n dite a color che vanno a saccomanno,\n che faccian s\u00ed ch'e' non vengan fra nui.\n Dite a Ioanni Aguto il nostro affanno,\n 110 a Ioan d'Azzo, agli altri compagnoni,\n che per centauri su nel mondo stanno,\n che la lor crudelt\u00e1 li fa pregioni,\n ed e' si fan la corda che li mena,\n ove stan questi del sangue ghiottoni.--\n 115 Ed io a lui:--Ai miseri c'han pena,\n avervi compagnia, o n'han diletto,\n o veramente alquanto il duol raffrena.\n Per\u00f2 mi di' perch\u00e9 hai tu suspetto\n che alcun non venga qui in questa soglia,\n 120 ch\u00e9 non intendo ben perch\u00e9 l'hai detto.--\n Ed egli a me:--Non per ben ch'io lor voglia,\n ma come su in ciel di pi\u00fa consorti\n \u00e8 pi\u00fa letizia, qui \u00e8 maggior doglia.--\n Poi, perch\u00e9 funno allo strettoio attorti,\n 125 per quella afflizion pi\u00fa non mi disse;\n onde n'andammo tra' centauri forti.\n E poco er'ita Palla, che s'affisse;\n e trovammo un gran mostro, in cui coloro\n curson cogli archi, e ciascuno el trafisse.\n 130 S\u00ed come fa il leon che prende il toro,\n che 'l morde e per la fretta nol manduca,\n ma succhia il sangue dove ha fatto il foro,\n ovver come fa l'orso, quando suca\n il favo m\u00e8l; cos\u00ed facean ad asto,\n 135 succhiando il sangue a quel per ogni buca.\n --Diomede son io, che son s\u00ed guasto--\n --diss'egli a me,--che gi\u00e1 gli uomini vivi\n diedi a' cavalli miei per biada e pasto.\n Se tu nel tuo emispero mai arrivi,\n 140 prego che di lass\u00fa da te si dica\n (ed a chi nol puoi dir, fa' che lo scrivi)\n che chi degli altru' affanni ovver fatica\n pasce cavalli o altra cosa vana,\n e chi, robbando, sua vita nutr\u00edca,\n 145 sar\u00e1 menato in questa valle strana,\n ove stan questi del sangue assetiti\n vieppi\u00fa che 'l cervio alla viva fontana.--\n Poscia che avemmo i suoi sermoni uditi,\n Minerva verso un monte la via prese,\n 150 nel qual senz'ali mai saremmo iti;\n ch'avea le ripe sue tanto distese,\n che, secondo che disse la mia scorta,\n nullo mai vi sal\u00ed ovver descese.\n Vero \u00e8 che gi\u00fa ai pi\u00e8 era una porta,\n 155 la quale aveva scritto su l'usciale\n queste parole in una pietra smorta:\n \u00abChi vuol montare ins\u00fa, di qui si sale;\n e suso sta in una gran pianura\n il gran Sat\u00e1n altiero e triunfale\u00bb.\n Allora intrammo quella porta scura.\nCAPITOLO XIX\nCome l'autore trova Satan trionfante nel suo reame.\n Dentro la porta su per una grotta\n fu la via nostra insin in co' del monte\n con poca luce, come quando annotta.\n Quando fui su e ch'io alzai la fronte,\n 5 vidi Sat\u00e1no star vittorioso,\n ove risponde il deritto orizzonte.\n Credea vedere un mostro dispettoso,\n credea vedere un guasto e tristo regno,\n e vidil triunfante e glorioso.\n 10 Egli era grande, bello e s\u00ed benegno,\n avea l'aspetto di tanta mai\u00e8sta,\n che d'ogni riverenza parea degno.\n E tre belle corone avea in testa:\n lieta la faccia e ridenti le ciglia,\n 15 e con lo scettro in man di gran pod\u00e8sta.\n E, bench\u00e9 alto fusse ben tre miglia,\n le sue fattezze rispondean s\u00ed equali\n e s\u00ed a misura, ch'era maraviglia.\n Dietro alle spalle sue avea sei ali\n 20 di penne s\u00ed adorne e s\u00ed lucenti,\n che Cupido e Cilleno non l'han tali.\n Ed avea intorno a s\u00e9 di molte genti,\n che facean festa, e questi tutti quanti\n al suo comando presti ed obbedienti.\n 25 Ma i primi e principal eran giganti\n con orgogliosi fasti e con gran corti,\n con presti servidor, che avean innanti.\n Alla guardia di questi arditi e forti\n erano quei che son viri e cavalli,\n 30 con li lor capitani saggi e accorti.\n Su per li prati ancor vermigli e gialli\n andavan donzellette e belle dame\n con melodie soavi e dolci balli.\n Quand'io stava a mirar tanto reame\n 35 e vedea il gran Sat\u00e1n nell'alto seggio,\n s\u00ed bello ed obbedito pur ch'e' chiame,\n io dissi:--O Palla, or che \u00e8 quel ch'io veggio?\n Gi\u00e1 calo ad adorarlo li ginocchi:\n tanto egli \u00e8 bello, e grande il suo colleggio.--\n 40 Ed ella a me:--O figlio mio, se adocchi\n per mezzo del cristallo del mio scudo\n --allor mel diede ed io mel posi agli occhi,--\n tu vederai il vero aperto e nudo,\n e non ti curerai dell'apparenza,\n 45 alla qual mira l'ignorante e rudo.\n Ch\u00e9 chi \u00e8 saggio risguarda all'essenza,\n ch\u00e9 su in quella sta fundato il vero,\n e non si muta ed ha ferma scienza.--\n Allor mirai e vidi Satan nero\n 50 cogli occhi accesi pi\u00fa che mai carbone\n e non benigno, ma crudele e f\u00e8ro.\n E vidi quelle sue belle corone,\n che prima mi parean di tanta stima,\n ch'ognuna s'era fatta un fier dragone.\n 55 E li capelli biondi, ch'avea prima,\n s'eran fatti serpenti, ed ognun grosso\n e lungo insino al petto su da cima.\n E cos\u00ed gli altri peli, ch'avea indosso;\n ma quelli della barba e quei del ciglio,\n 60 mordendo, el trasforavan sin all'osso.\n Le braccia grandi e l'ugne coll'artiglio\n avea maggior che nulla torre paia;\n e le man fure e preste a dar di piglio;\n e di scorpion la coda e la ventraia;\n 65 nell'ano e presso al membro che l'uom cela\n di ceraste n'avea mille migliaia.\n Argo non ebbe mai s\u00ed grande vela,\n n\u00e9 altra nave, come l'ali sue,\n n\u00e9 mai tessuta fu s\u00ed grande tela;\n 70 ma non atte a volar troppo alla 'nsue,\n se non come l'uccello infermo e stanco,\n che tenta volar alto e cade ingiue.\n Serpentin era il pi\u00e8 deritto e 'l manco;\n e diece draghi maggior che balena\n 75 faceano a lui il seggio e 'l tristo banco.\n E questo a Satanasso \u00e8 maggior pena:\n che sempre ins\u00fa volar s'ingegna e bada,\n e la gravezza sua a terra el mena.\n E Dio permette ben che alla 'ns\u00fa vada;\n 80 ch\u00e9, quanto pi\u00fa volando in alto monta,\n tanto convien che pi\u00fa da alto cada.\n Io 'l vidi in pi\u00e8 levar con faccia pronta\n dall'alto seggio suo, e con orgoglio\n udii ch'e' disse:--O Dio, alla tua onta\n 85 sopra gli astri del cielo or salir voglio:\n io intendo prender l'uno e l'altro polo\n al tuo dispetto, ed ora il ciel ti toglio.--\n Cos\u00ed dicendo, alla 'ns\u00fa prese il volo:\n ben diece miglia ins\u00fa s'era condotto,\n 90 quando 'l vidi calar al terren s\u00f2lo\n a trabocconi e col capo di sotto,\n e come un monte fece gran ruina.\n E, poich\u00e9 'n terra fu col capo rotto,\n la faccia verso il ciel volse supina,\n 95 e fe' le fiche a Dio 'l superbo vermo\n e biastim\u00f2 la Maiest\u00e1 divina.\n Poi si lev\u00f2 s\u00ed come fusse infermo,\n e verso il suo gran seggio mosse il passo\n con mormorio e dispettoso sermo.\n 100 E l\u00ed a seder se puse fiacco e lasso;\n e menacciava Dio, alzando il mento,\n che fe' che 'l suo volar li venne in casso.\n Quando 'l vidi cadere, io fui contento,\n perch\u00e9 conobbi che quanto pi\u00fa sale,\n 105 tanto egli ha pi\u00fa ruina e pi\u00fa tormento.\n Tenendo io 'l bello scudo per occhiale,\n vidi i neri giganti e lor palazzi,\n pieni d'invidia, d'ira e d'ogni male.\n Vidi mutati in pianti lor solazzi\n 110 e che smongono altrui e sono smonti\n dalli centauri e dalli lor regazzi.\n Vidi che li gran sassi e li gran monti\n conducean sopra s\u00e9 per far la torre,\n sopra la qual da loro al ciel si monti.\n 115 S\u00ed come, quando v\u00f2lsono il ciel t\u00f4rre,\n che pusono Ossa sopra il gran Peloro,\n talch\u00e9 Iove grid\u00f2:--Vulcan, soccorre!--\n cos\u00ed in quel pian s'ingegnan far coloro;\n ma, perch\u00e9 la lor possa non seconda,\n 120 ritorna sempre invano il lor lavoro.\n Ed ogni volta che la voglia abbonda\n pi\u00fa che la possa, avvien che mal viaggio\n faccia l'impresa e che 'l fattor confonda.\n Per\u00f2 colui che \u00e8 prudente e saggio,\n 125 perch\u00e9 l'impresa non gli torni invano,\n fa che la possa sempre abbia vantaggio.\n Elli facean le torri nel gran piano,\n e chi portava sassi e chi la malta,\n chi ordinava e chi facea con mano.\n 130 Io vidi una di quelle andar s\u00fa alta\n sin dove del vapor fa pioggia il gelo,\n tal ch'io dicea fra me:--Gi\u00e1 'l cielo assalta;--\n quando Iove percosse su da cielo\n con un gran tuono, e la torre e 'l gigante\n 135 mand\u00f2 a terra il fulgoroso telo.\n Per parlarli, ver' lui mossi le piante\n e dissi:--Chi se' tu, caduto a terra\n di s\u00ed gran torre col capo dinante?\n --Io son Fialte, e fui nella gran guerra\n 140 --rispose,--che facemmo contra Dio,\n che le saette contra noi disserra.\n Cos\u00ed le grandi imprese e 'l lavorio\n fanno il gran signor s\u00ed com'io feci,\n e poi caggiono a terra s\u00ed com'io.\n 145 Cadde Alessandro, il gigante de' greci,\n cadde Priamo e cadde la gran Troia,\n che combattuta fu per anni dieci.\n Cadde Pompeo e Scipio, la gran gioia\n dell'alta Roma e Cesare ed Agosto,\n 150 Dario e Assuero con pena e con noia.--\n Io averia al suo detto risposto,\n se non che a me apparve un altro obietto,\n al qual lo sguardo mio mi venne posto.\n Io vidi che Sat\u00e1n di mezzo al petto\n 155 un serpentello con tre lingue scelse,\n che parea pien di tosco maladetto.\n Tra' giganti el gitt\u00f2 quando lo svelse;\n ed egli il suo venen tra loro sparse,\n ch'era pi\u00fa ner che non son m\u00e9zze gelse.\n 160 Allora ogni gigante un drago farse\n cominci\u00f2 dentro; e, l'uman quindi tolto,\n e' fuor nel viso s\u00ed com'uomo apparse.\n Ma non si pu\u00f2 giammai tenere occolto\n amor, n\u00e9 invidia o colpa ch'aggia il core,\n 165 che non appaia alquanto su nel volto.\n L'imago dentro cominci\u00f2 di fuore\n appalesarsi e mostrarsi in la faccia;\n e questo fe' tra lor guerra e romore.\n S\u00ed come quando il mar prima ha bonaccia\n 170 e poi si turba e tutto in s\u00e9 ribolle,\n e l'acque, che son sotto, sopra caccia,\n e pare ogni onda grande quanto un colle,\n quando la luna solo il fratel mira,\n e tutto il lume suo a noi ne tolle;\n 175 cos\u00ed facean color commossi ad ira,\n e davansi fra s\u00e9 li colpi gravi,\n e con grand'onte l'un l'altro mart\u00edra.\n Non fecer mai abeti s\u00ed gran travi,\n come eran le lor lance lunghe e grosse,\n 180 n\u00e9 mai s\u00ed grandi legni port\u00f4n navi.\n Pensa, lettor, che quei c'hanno gran posse,\n d\u00e1nno gran colpi, e cos\u00ed anche credi\n che, quando coglie, han pi\u00fa gravi percosse.\n E poscia a maggior fatti io mossi i piedi;\n e, poco andato, tanto mi stancai,\n 185 ch'a riposarmi gi\u00fa in terra mi diedi,\n insin ch'apparson li raggi primai.\nCAPITOLO I\nCome l'autore fu a battaglia con Satanasso e, umiliandosi, lo vinse.\n Dell'orizzonte il sole era gi\u00e1 fuora,\n e, per aver la lena, io m'era assiso\n come chi stanco a riposar dimora.\n E, risguardando, tenea in alto il viso,\n 5 perch\u00e9 ammirava il superbo arrogante,\n che fu ribello a Dio in paradiso,\n quando la dea a me su venne avante:\n --Or ti bisogna assai esser gagliardo\n ed usar le tue forze tutte quante.\n 10 --Minerva mia, a cui sto i' a riguardo,\n che di guidarmi dietro a te ti degni\n al loco, ov'io d'andar di desio ardo,\n prego che m'addottrini e che m'insegni\n quai sonno i mostri, che tengon la strada,\n 15 che l'uom non saglia a' tuoi beati regni.\n Da che convien che alla battaglia vada,\n dammi fortezza e dammi la dottrina\n ch'io non sia preso e che vinto non cada.--\n Rispose a questo a me quella regina:\n 20 --Quando il gran mostro su vorr\u00e1 levarte,\n e tu col capo sempre ingi\u00fa declina.\n Questa fie la vittoria, e questa \u00e8 l'arte,\n con che si vince sua superbia ardita:\n va', ch\u00e9, se vuoi, potrai da lui aitarte.--\n 25 Andai, quando la dea ebb'io udita,\n come colui che a duello combatte\n o per dar morte o per perder la vita.\n Quale Dav\u00edd incontra a Goliatte,\n gigante grande, ed egli era fantino\n 30 e non avea all'armi le membra atte;\n tal pareva io, quando presi il cammino\n contra Sat\u00e1n, se non ch'a lui rispetto\n ben mille volte er'io pi\u00fa piccolino.\n Quand'io fui presso e contra al suo cospetto,\n 35 e' s'adir\u00f2 da che m'ebbe veduto,\n e mostr\u00f2 grande sdegno e gran dispetto.\n Io sar\u00eda morto e del timor caduto,\n se non che Palla con voce e con cenni\n mi rinfrancava il cor e dava aiuto.\n 40 Andai pi\u00fa innanti e insino a lui pervenni,\n e del pi\u00e8 il dito, pi\u00fa ch'un trave grosso,\n colle mia braccia avvinchiato gli tenni.\n Allora a stizza vieppi\u00fa fu commosso,\n e le gran braccia stese con grand'ira,\n 45 e 'ns\u00fa tirommi, tenendomi il dosso.\n A questo grid\u00f2 Palla:--A terra mira;\n pensa ch'a darti morte egli t'afferra,\n e per gittarti a basso ins\u00fa ti tira.\n Fa' come Anteo, e vincerai la guerra,\n 50 che tante volte le forze francava,\n quante toccava la sua madre terra.--\n Come colui che se medesmo aggrava,\n che tien le membra come fosson morte,\n cos\u00ed fec'io, quando ins\u00fa mi levava.\n 55 Mirabil cosa! Allora i' fui s\u00ed forte,\n che gli feci abbassare ingi\u00fa le braccia,\n e gi\u00fa mi pose con le mani sporte.\n Le reni in terra, ins\u00fa tenea la faccia;\n e con ingegno e forza e con li morsi\n 60 facea com'uom che volentier si slaccia.\n Cos\u00ed le dita sue da me distorsi,\n che m'avean preso; e s\u00ed me dilungai,\n che cento passi e pi\u00fa a lunga corsi.\n Quando sei spenta, ancor potenzia hai,\n 65 o gran superbia! Per questo fui preso,\n ch\u00e9 d'esto scampo io me ne gloriai.\n Chinossi allora, tutto d'ira acceso,\n il crudel mostro, e con la man feroce\n volea levarmi nell'aer sospeso.\n 70 Allor grid\u00f2 la dea ad alta voce:\n --Abbassa a terra!--Ed i' a terra mi diede\n col ventre e il volto e colle braccia in croce.\n Cos\u00ed prostrato, entrai di sotto al piede\n del gran superbo, col qual chiude il calle,\n 75 il qual senza battaglia mai concede.\n Per questo a terra gi\u00fa diede le spalle\n e nel pian cadde con s\u00ed gran fracasso,\n che tremar fece tutta quella valle.\n Quando vidi caduto Satanasso\n 80 cos\u00ed prostrato, io misi la mia testa\n ed intrai su la via per l'arto passo.\n Come alli vincitor si fa gran festa,\n tal fece a me la scorta onesta e saggia:\n poscia si mosse ins\u00fa veloce e presta.\n 85 Prese la via per la pendente piaggia\n e disse:--Vieni e sempre alla 'ns\u00fa sali,\n ed alla 'ngi\u00fa nullo tuo passo caggia.--\n Mentr'io movea alla 'ns\u00fa del desio l'ali,\n ed io sentii a me gravar le penne\n 90 da una che dicea:--Vo' che gi\u00fa cali.--\n La mia persona abbracciata mi tenne,\n tirandomi alla 'ngi\u00fa con tale scossa,\n ch'appena ritto il piede mi sostenne.\n E del salir s\u00ed mi tolse la possa,\n 95 che, andando ins\u00fa, io non potea seguire\n la scorta, che a guidarmi s'era mossa.\n Dietro alla guida ins\u00fa volea pur gire,\n ed ella mi tirava seco ingiue\n e suso meco non volea venire.\n 100 Cos\u00ed insieme luttando amendue,\n ella tirando ingi\u00fa ed io ins\u00fa lei,\n s\u00ed mi stancava, ch'io non potea piue.\n --Oim\u00e8!--dicea fra me--chi \u00e8 costei,\n che ha le voglie s\u00ed lascive e pronte,\n 105 che vuol menarmi ov'io gir non vorrei?--\n La dea salito avea molto del monte,\n e, v\u00f2lta a me, grid\u00f2:--Perch\u00e9 non vieni?\n perch\u00e9 ristai? perch\u00e9 quass\u00fa non monte?\n Cotesta donna, che ti sta alle reni\n 110 pensa che \u00e8 muliere, e tu se' viro;\n per\u00f2 vergogna t'\u00e8, se la sostieni.--\n Allor con gran fatica e gran sospiro,\n usai mie forze e camminai fin dove\n Palla aspettava col suo dolce miro.\n 115 S\u00ed come sotto il giogo tira il bove\n con tutta la sua possa il grosso trave,\n che, punto dallo stimolo, si move;\n cos\u00ed tirai ins\u00fa la donna grave\n dietro a Minerva per quell'arta via\n 120 contra la forza di sue voglie prave.\n E quanto a poco a poco io pi\u00fa sal\u00eda,\n tanto pi\u00fa la gravezza ven\u00eda manco\n di quella che me 'ngi\u00fa tirava pria.\n Alla mia scorta appena era giunto anco,\n 125 quando di lei nulla sentia fatiga,\n e fui leggero e niente era stanco.\n --Chi \u00e8 colei che d\u00e1 qui tanta briga\n --diss'io a Palla,--e fa che l'uom s'arreste\n e, gi\u00fa tirando i passi, altrui intriga?\n 130 --Parte \u00e8 in voi angelica e celeste\n --rispose quella,--e fa che si cammine\n per sua natura a tutte cose oneste.\n E questa ha sempre le voglie divine:\n della fatica presente non cura,\n 135 sol che conduca altrui poscia a buon fine.\n L'altra \u00e8 parte brutale, vile e oscura;\n e questa guarda al diletto presente\n e per buon fin non sostien cosa dura.\n Questa \u00e8 l'ancilla mal obbediente,\n 140 questa \u00e8 la mala e repugnante legge\n a quella c'ha Dio posta in vostra mente.\n Come il signor, che ben sua casa regge,\n la fante e la mogliera, ch'\u00e8 provosa,\n battendola e privandola, corregge;\n 145 cos\u00ed costei alla ragion ritrosa\n ed arrogante, superba e proterva,\n batter conviensi e dargli poca posa:\n allor verr\u00e1 subietta come serva.\nCAPITOLO II\nDelle cagioni onde viene la superbia, e come ella \u00e8 vizio principale.\n Una giornata inverso l'oriente\n sal\u00eda la strada, ed al merizo \u00e8 v\u00f2lta\n poi anche una giornata similmente.\n Poi inver' la parte, ove lo sol s'occolta,\n 5 gira altrettanto a modo che le scale\n si fan nel campanile alcuna volta;\n poi verso il corno anche altrettanto sale.\n Cos\u00ed per sette giri ins\u00fa si monta\n al regno glorioso ed immortale.\n 10 Su questa via quando Palla fu gionta,\n mostr\u00f2 a me quant'ella ins\u00fa sublima,\n pi\u00fa bella assai che qui 'l dir non racconta.\n E questa via, che noi salimmo in prima,\n \u00e8 stretta ed erta e quanto pi\u00fa su viene,\n 15 tanto \u00e8 pi\u00fa larga e piana inver' la cima.\n In mezzo al gir, che ho detto, si contiene\n la trista valle, ove sua signoria\n co' suoi giganti Satanasso tiene.\n Alquanti ins\u00fa con noi ven\u00edan per via;\n 20 ma eran pochi rispetto agli assai\n d'un'altra gente, che alla 'ngi\u00fa ven\u00eda.\n Ins\u00fa andando, il viso mio voltai,\n e vidi ins\u00fa levato il gran superbo\n ed a seder, come prima, el trovai.\n 25 Ahi! quanto si mostrava a me acerbo\n e quanto egli pareva d'ira pieno,\n io nol potrei giammai spiegar con verbo.\n Intorno intorno spargeva il veneno;\n e i suoi irsuti peli eran serpenti,\n 30 ch'a lui mordeano il volto, il collo e 'l seno.\n Ed ei le labbra si mordea co' denti,\n come fa alcun che se medesmo turba;\n e con tre bocche soffiava tre venti,\n i quali andavan dietro a quella turba\n 35 che 'ngi\u00fa ven\u00eda, e percotea lor tempie,\n come il vento Austro, quando il mar conturba.\n Quasi vessica che di vento s'empie,\n cos\u00ed quel vento infiava le lor teste\n e le lor viste dispettose ed empie.\n 40 Poich'eran fatte assai maggior che ceste,\n s\u00ed come lucciol spargean le parole\n e di quelle fregiavan le lor veste.\n E, come nuovo arnese mostrar s\u00f2le,\n a farsi fama, il nuovo mercatante,\n 45 quasi invitando chi comperar v\u00f2le;\n cos\u00ed mostravan certe merci sante,\n e 'l vento, che dal mostro si deriva,\n soffiando, le portava tutte quante.\n Io ammirando dissi:--O Palla, o diva,\n 50 deh, dimmi, che dimostran queste cose?\n Che io 'l sappia e che altrui lo scriva.\n --Questi tre venti--a me la dea rispose--\n sonno il fomento e sonno la cagione,\n perch\u00e9 le genti son superbiose.\n 55 Il primo vento \u00e8 della nazione,\n per la qual molti mostrano eccellenza\n e voglion soprastar l'altre persone.\n Ma questa loda \u00e8 sol della semenza,\n onde \u00e8 disceso, ch\u00e9 virt\u00fa s'apprezza\n 60 appo li saggi e vera sapienza.\n L'altro vento, che soffia, \u00e8 la ricchezza\n la qual, se megliorasse il possessore\n e seco avesse la vera fermezza,\n meritarebbe loda ed anco onore;\n 65 ma, perch\u00e9 le pi\u00fa volte il buon fa rio,\n enfia qui il capo e poco ha di valore.\n Se il terzo vento saper hai desio,\n \u00e8 quel che toglie il grazioso dono,\n che ne d\u00e1 la natura ed anche Dio.\n 70 Bench\u00e9 da s\u00e9 sia prezioso e buono,\n vostre virtudi se ne porta il vento,\n quando da Dio conosciute non sono.\n --Da che di questo--dissi--m'hai contento,\n dimmi, perch\u00e9 'l superbo \u00e8 tanto grande,\n 75 e perch\u00e9 enfia e fregia il vestimento?\n --Il ragionar che fai, mentre tu ande\n --rispose quella--per questa salita,\n mi piace, ed io far\u00f2 quel che domande.\n Superbia \u00e8 grande, che \u00e8 la prima ardita\n 80 contra la mental legge e la divina,\n e prima fa che non sia obbedita.\n A tutti gli altri vizi ella cammina\n e va dinanti e fagli a Dio ribelli\n e fa che la sua legge ognun declina:\n 85 per\u00f2 \u00e8 maggior tra' vizi falsi e felli.\n Or ti dir\u00f2, e fa' che tu ben odi,\n perch\u00e9 si fregia e gonfia li cervelli.\n Superbia puote essere in tre modi,\n s\u00ed come si dimostra dalla Musa,\n 90 la qual hai letta e che tu tanto lodi.\n Prima \u00e8 superbia nella mente inchiusa:\n questa odia li maggior, questa presume\n pomposa, ingrata ed obbedir recusa.\n Ed a' difetti suoi non vede lume\n 95 e pon mente agli altrui ed \u00e8 perversa,\n iniuriosa e con altier costume,\n con suoi equali, con li qual conversa,\n discorde ed arrogante; e lor dispregia\n ed onteggiando li minori avversa.\n 100 L'altra \u00e8 in bocca, quando ella si pregia,\n vantando con parole e con iattanza,\n che son le lucciol, delle qual si fregia.\n L'altra \u00e8 ne' fatti a dimostrar che avanza;\n ed alcun questo mostra in santitade,\n 105 come gl'ipocriti hanno per usanza.\n Nella scienza alcuno o in beltade\n mostra eccellenza, e chi in adorno manto,\n chi ne' conviti o in altra vanitade.\n E questo vizio or \u00e8 cresciuto tanto,\n 110 che nella mensa e nel vestir non puote,\n pi\u00fa che 'l vassallo, il signor darsi vanto.\n Ora superbia fa le borse v\u00f2te\n all'avarizia, e Venere e la gola,\n ne' servi, in ornamenti e nelle dote.\n 115 Cesar, del qual cotanta fama vola,\n prodigo fu chiamato nel convito,\n perch\u00e9 die' pi\u00fa ch'una vivanda sola.\n Ora la vanit\u00e1, non l'appetito,\n e la superbia gran vivande chiede\n 120 e 'l banco d'oro e d'argento fornito.\n Ed ha Mercurio, Orfeo e Ganimede,\n che serva e suoni e che quell'altro mesca\n innanti a Iove, mentre a mensa siede.\n O farisei, il mio dir non v'incresca,\n 125 ch\u00e9 non vi tocca e non vi s'apparecchia\n con sumpti e fasti il letto ed anche l'\u00e9sca.\n Il mondo, che nel vostro far si specchia,\n per vostro esemplo lassa questo vizio,\n s\u00ed che la lunga usanza non s'invecchia.\n 130 A questo diede esemplo il buon Fabrizio,\n che moderava gi\u00e1 'l triunfo a Roma,\n e Scipion scusoe quasi ogni offizio.\n Ora messere e maestro si noma,\n sol che tre fave egli abbia nel tamburo,\n 135 che risuonin parole a soma a soma.--\n Ben mille poi trovai nel cammin duro,\n ch'av\u00eden del viso infiata s\u00ed la pelle,\n che ciascun occhio in lor facea oscuro.\n Io dissi ad uno:--I' prego che favelle,\n 140 e di' chi fusti e perch\u00e9 tu non vedi\n la terra e 'l cielo e l'altre cose belle.--\n Rispose:--Se del nome mi richiedi,\n detto fui Alardo e fui 'n Parigi artista\n e tanto a vanit\u00e1 ivi mi diedi,\n 145 ch'io curai solo a parer buon sofista;\n e cos\u00ed fen quest'altri, che stan meco:\n per\u00f2 a ciascuno \u00e8 qui tolta la vista,\n ch\u00e9 'n sapienza ognun fu vano e cieco.--\nCAPITOLO III\nDichiaransi gli effetti della superbia.\n Il vento, quale spira Satanasso,\n gonfia le teste e poscia in alto mena\n e poi da alto fa cadere a basso.\n S\u00ed come il vento fa la vela piena,\n 5 io vidi fare a tre la testa grossa\n ed ire in alto e poi cader con pena.\n E nel cadere ebbon s\u00ed gran percossa,\n che Simon mago non die' tal crepaccio,\n quand'egli si fiacc\u00f2 il cervello e l'ossa.\n 10 --Io, che cos\u00ed caduto in terra giaccio\n --disse un di lor,--son quel superbo Sesto,\n che a Lucrezia diede tanto impaccio,\n quand'io gli maculai il letto onesto;\n onde caddi io e 'l mio padre Tarquino\n 15 per tanta offesa e per cotanto incesto.\n E l'altro qui caduto a capo chino\n chiamato fu Nabucodonosorre,\n che a s\u00e9 attribu\u00ed l'onor divino.\n Il terzo \u00e8 quel che fece la gran torre\n 20 gi\u00e1 di Babel e chiamato Nembrotte,\n che volle contra Dio rimedio porre.\n E cento volte noi tra 'l d\u00ed e la notte\n innalza il vento, che 'n testa percuote;\n e poi cadiam con l'ossa fiacche e rotte.\n 25 Qui anche sta il novello nipote\n e 'l sesto prete grande, a cui del regno\n gonfia anche il vento la testa e le gote.\n E quand'\u00e8 divenuto grosso e pregno,\n cade da alto e gran fiacco riceve,\n 30 s\u00ed come noi e s\u00ed com'egli \u00e8 degno.\n In lui apparve ben quant'egli \u00e8 grieve\n la signoria e dispettosa e dura\n d'alcun villan, che da basso si lieve.--\n Tanto i' avea preso, andando, dell'altura,\n 35 che vidi aver Sat\u00e1n, quand'io mi volse,\n la faccia sua ver' noi a derittura.\n Allor soffi\u00f2, e quel vento mi colse\n e nella fronte s\u00ed forte percosse,\n che ogni forza di salir mi tolse.\n 40 Io ser\u00eda in gi\u00fa tornato, se non fosse\n che grid\u00f2 Palla:--Gi\u00fa 'n terra ti poni,\n se vuoi che 'l vento il capo non t'ingrosse.--\n Per\u00f2 mi posi in terra in ginocchioni,\n il petto e 'l viso umiliai di botto,\n 45 e cos\u00ed ins\u00fa mi mossi in groppoloni.\n Quando la dea mi vide esser condotto\n in tanta altura, ch'ella vide stare\n il gran Sat\u00e1n ai nostri piedi sotto,\n su ritto ed erto mi fece levare.\n 50 Allor d'un dubbio, ch'io avea concetto,\n cos\u00ed lei cominciai a domandare:\n --Come poteo il mostro maladetto\n desiderar a Dio esser equale,\n ch'esser non puote e nol cape intelletto?\n 55 Ch\u00e9 'l desiderio sempre move l'ale\n dietro all'obietto dalla mente appreso,\n e questo nulla mente apprender vale.--\n La dea rispose, quando m'ebbe inteso:\n --In due superbie offese il Creatore\n 60 il rio Sat\u00e1n, e quelle io t'appaleso.\n Se, sol per sua bont\u00e1, alcun signore\n levasse un servo gi\u00fa da basso limo\n e ponessel in stato e grande onore,\n ed ei dicesse fra se stesso:--Io stimo\n 65 meritar pi\u00fa che quel che m'ha donato,\n per mia bont\u00e1, ed esser pi\u00fa sublimo;--\n costui ser\u00eda superbo e ser\u00eda ingrato.\n In questo modo enfi\u00f2 Satan le ciglia\n contra colui che allor l'avea creato.\n 70 E da che 'l servo in possa s'assomiglia\n al suo signor, quant'egli, al parer mio,\n pi\u00fa di dominio e d'eccellenzia piglia;\n cos\u00ed fec'egli, che innalz\u00f2 il disio\n ad aver possa a far quelle due cose,\n 75 le qua' solo a s\u00e9 serba il sommo Dio,\n cio\u00e8 creare e le cose nascose\n saper, che sonno occulte nel futuro:\n per questo il gran superbo a Dio s'oppose.\n Alla tua mente omai non \u00e8 oscuro\n 80 come il vil verme volle assomigliarse\n al primo Ben supremo, eterno e puro.\n Dunque superbia prima \u00e8 reputarse\n d'aver il ben da s\u00e9 e ch'a lui vegna\n per sua bont\u00e1 o per suo ben guidarse.\n 85 E cresce poi che si reputa degna\n di maggior fatti: allor presume e pensa\n com'ella a' suoi maggiori equal pervegna.\n Per questo poi incorre in pi\u00fa offensa;\n c'ha invidia a' grandi ingrata e sconoscente\n 90 del don, che 'l suo maggiore a lei dispensa.\n Anche non \u00e8 a lor obbediente,\n ch\u00e9 li dispregia e non cura lor legge;\n e questo di pi\u00fa male \u00e8 poi semente,\n ch'ella s'adira, s'altri la corregge,\n 95 e sta proterva e 'l peccato difende,\n odia chi l'ammonisce e chi la regge.\n Per questo poi in altro mal descende,\n ch\u00e9 non medica il male, il ben non ode;\n cos\u00ed mai a sanit\u00e1 atta si rende.\n 100 E, perch\u00e9 \u00e8 pomposa, ama le lode;\n s\u00ed come il foco s'avviva da' venti,\n cos\u00ed se ne esalta ella e se ne gode.\n Di mille vizi da lei discendenti\n comprender p\u00f2i che nascon d'esto seme,\n 105 se nella mente tua ben argumenti.\n Perch\u00e9 la gente ben vivesse inseme,\n fe' Dio la fede e fe' le parentele;\n e la superbia l'una e l'altra oppreme,\n ch'ella, a chi la fa grande, \u00e8 infedele,\n 110 fa parte tra compagni e lor divide,\n e ne' coniunti \u00e8 spietata e crudele.\n Romul per questo il suo fratello uccide:\n nullo mai grande un altro grande appresso\n senz'odio o invidia veder\u00e1, n\u00e9 vide.\n 115 Il dispiatato sangue, il grande eccesso\n delli fratelli qui non si ricorda,\n da che tra li maggiori avviene spesso.\n Se ben la citra, Italia, non s'accorda\n della tua gente, or pensa la cagione,\n 120 la qual fa in te discordante ogni corda.\n Sostenne gi\u00e1 Pompeo e Scipione\n star nella barca e non guidare il temo\n e star nel campo sotto altrui bastone.\n Ma nelle barche tue esser supremo\n 125 vuol ciascheduno ed esser soprastante\n chi servir deggia nel vogar del remo.\n Per questo le tue membra tutte quante\n han odio insieme, e per questo \u00e8 mestiero\n che 'l capo signoreggino le piante.\n 130 Per questo il grande teme e regge alt\u00e8ro,\n e quello che sta a basso, nel cor porta\n quel che superbia figlia nel pensiero.\n Indi diventa la iustizia morta\n nel mal punire e nel premiare il bene:\n 135 per\u00f2 la nave tua va cos\u00ed torta.\n O dea Iunon, perch\u00e9 tarda e non viene\n tra cotal gente un Lico crudo e diro,\n da che politico ordin non sostiene?\n Perch\u00e9 non regge tra li serpi un tiro?\n 140 perch\u00e9 non regge nelle selve un ranno,\n che gli arbori consumi a giro a giro?\n L'altre province sotto un capo stanno;\n ma per le parti tue e per le s\u00e8tte,\n pi\u00fa che nell'idra in te capi si fanno,\n 145 ch'un ne rammorti, e rinasconne sette.\n Ma un verr\u00e1, che convien che ti dome,\n e che le genti tue tenga subbiette:\n e tiro e ranno sia in fatti e nome.--\nCAPITOLO IV\nOve trattasi del vizio dell'invidia e della sua natura.\n Condutti avea gi\u00e1 Febo li cavalli\n alla pastura sotto l'Oce\u00e1no\n e gi\u00e1 mostrava i crin vermigli e gialli,\n quando Palla mi die' lo scudo in mano,\n 5 dicendo:--Questo la notte fa luce\n e 'l corpo opaco fa parer diaf\u00e1no.--\n Poi l'altra piaggia salse la mia duce;\n e l\u00ed trovai una gran porta aperta,\n che al vizio dell'Invidia ci conduce.\n 10 Forse tre miglia avea salita l'erta,\n quando la vidi star nella sua corte\n inordinata, confusa e diserta.\n Era giganta e con le guance smorte,\n con molte lingue ed ognuna puntuta,\n 15 e suoi capelli eran di serpi attorte.\n Non fu saetta mai cotanto acuta,\n quant'ella in ogni lingua avea un coltello;\n e tossico parea quel ch'ella sputa.\n Duo ner diavoli avea dentro al cervello;\n 20 e, bench\u00e9 'l corpo e 'l capo avesse opaco,\n col bello scudo io vedea dentro ad ello.\n Nel core un vermicello e pi\u00fa gi\u00fa un draco\n vidi, ch'aveva dentro alle 'ntestina,\n e avea la coda aguzza pi\u00fa ch'un aco.\n 25 La pelle umana avea e serpentina,\n unita una con l'altra e inseme mista,\n e di cigno li pi\u00e8, con che cammina.\n Sempre pallida sta e sempre trista;\n ma, quando vede il male over che l'ode,\n 30 alquanto ride e rallegra la vista.\n Di vipera \u00e8 la carne ch'ella rode;\n e ben \u00e8 ver che mangia carne umana;\n ma solo quando pute, gli fa prode.\n Per\u00f2 la carne, ch'\u00e8 pulita e sana,\n 35 prima la imbrutta, corrompe e disquarcia,\n e, quando pute, nel ventre la 'ntana.\n E come mosca \u00e8 avida alla marcia,\n cos\u00ed \u00e8 ella ghiotta di bruttura:\n di questo il ventre e la bocca rinfarcia.\n 40 Quando a s\u00ed brutta cosa io ponea cura,\n gli usc\u00ed un dimon di bocca quatto quatto\n e tra le genti and\u00f2 come chi fura.\n E del venen, che di lei avea tratto,\n mise all'orecchie a quelli e parol disse;\n 45 e poi, ov'era pria, ritorn\u00f2 ratto.\n Parve che quel venen al cor corrisse;\n come licor che per condotto vada,\n mi parve che alle man poi riuscisse.\n Nel core un drago, ed in man si fe' spada\n 50 puntuta quant'un ago e s\u00ed tagliente,\n quanto rasoio suttilmente rada.\n Il drago, che nel cor occultamente\n era rinchiuso, le man furiose\n fece ad ognun de tutta quella gente.\n 55 Io vidi poi molt'anime ulcerose,\n piene di schianze siccome il mend\u00edco,\n che alla porta del ricco invan si pose.\n In questo usc\u00ed, 'n men tempo ch'io non dico,\n l'altro diavolo come un traditore,\n 60 che nuocer vuole, mostrandosi amico.\n Trasse l'Invidia allor tre lingue f\u00f2re\n s\u00ed lunghe, che un'asta all'altra posta,\n al mio parer, non sarebbe maggiore.\n Ed alla gente, che gli stava a costa,\n 65 mostrava quelle schianze ovver la rogna,\n con tre gran lingue scoprendo ogni crosta.\n E, come fa il ghiotton che si vergogna,\n che mira qua e l\u00e1, perch\u00e9 suspetta\n ch'altri a sua ghiottonia mente non pogna;\n 70 cos\u00ed facea la belva maladetta,\n che ritir\u00f2 le tre lingue nefande,\n quando quel che percote se n'addetta.\n Oh, detestanda bocca, a cui vivande\n son maculare il bene e farlo poco,\n 75 e palesare il male e farlo grande!\n Poi vidi con tempesta e con gran foco\n uscir di fuor di lei il gran dragone\n ed assalir la gente di quel loco.\n E, come in Colco fece gi\u00e1 Iasone,\n 80 cos\u00ed un dimonio a lui li denti trasse,\n grandi e puntuti quanto uno spuntone.\n E 'n terra ar\u00f2, perch\u00e9 li seminasse.\n Nacqueno allor del maladetto seme,\n come che pianta a poco a poco fasse,\n 85 uomini armati ed uccisersi inseme;\n e tanto sangue fu in quel loco sparto,\n ch'ancor, pensando, la mia mente teme.\n Allora il verme, ch'era il mostro quarto,\n gli rose il core, ond'ella si ritorse\n 90 come la donna, quando \u00e8 presso al parto.\n E, poich\u00e9 dentro al petto egli a lei morse,\n divent\u00f2 grande e fessi un basalisco,\n e s\u00fa sin alla bocca li trascorse.\n Ancor dentro nel cor ne contremisco,\n 95 pensando ch'egli uccide chiunque sguarda:\n per\u00f2 vedi, lettor, s'io stetti a risco.\n Non fe' s\u00ed gran tempesta mai bombarda,\n quanto fec'egli, quando fuor usc\u00edo,\n venendo a me con la crista gagliarda.\n 100 Ma, quando vide s\u00e9 in lo scudo mio,\n perch\u00e9 lo sguardo suo \u00e8 che uccide,\n l\u00ed si specchi\u00f2 e subito mor\u00edo.\n Quando l'Invidia morto il figliol vide,\n le man si morse con sospiri e pianto,\n 105 con gran singolti, voci ed alte gride.\n Allor inver' di lei mi feci alquanto,\n dicendo:--O brutta e maladetta f\u00e8ra,\n o crudelt\u00e1, che 'l mondo guasti tanto,\n nel bel giardin di sempre primavera\n 110 tu da primaio insidiosa intrasti\n con falsit\u00e1 e con bugiarda c\u00e9ra;\n i primi nostri, vergognosi e casti,\n servi facesti di concupiscenza;\n e i gran doni di Dio per\u00f2 f\u00fbr guasti.\n 115 Non ti ritenne poi l'alta innocenza\n del iusto Abel, ch'era il primaio buono,\n nato nel mondo d'umana semenza.\n N\u00e9 che 'n quel punto egli facea il dono\n d'offerta a Dio: allora pi\u00fa feroce\n 120 tu l'uccidesti senza alcun perdono;\n per che gridoe la terra ad alta voce\n per lo sangue innocente; e cos\u00ed fece\n per l'altro, il qual tu occidesti in croce.\n Le man fraterne armasti nella nece\n 125 del bel Iosef, ed a ci\u00f2 consentire\n facesti i suoi fratelli tutti e diece.\n Non avesti piat\u00e1 del gran mart\u00edre\n dell'et\u00e1 puerile e del lamento\n del vecchio padre, che volea morire,\n 130 quando del figlio vide il vestimento\n tinto di sangue; e tu, o f\u00e8ra cruda,\n stavi ridente e col volto contento.\n Ahi, belva trista e d'ogni piat\u00e1 nuda!\n A te Pilato, sol per saziarte,\n 135 dimostr\u00f2 il Re gi\u00e1 tradito da Iuda,\n tinto di sangue e con le vene sparte.\n Per recarti a piat\u00e1, disse:--Ecco l'Uomo\n fragellato nel corpo e in ogni parte.--\n Ma tu, crudele, allora festi como\n 140 cane alla preda, che l'ira il trafigge,\n o come l'orso, quando vede il pomo;\n ch\u00e9 allor gridasti:--Tolle, crucifigge;--\n e niente ti mosse, o dispiatata,\n in tanta maiest\u00e1 l'umile effigge.\n 145 Superbia \u00e8 la tua madre, onde se' nata;\n e 'l timor vile \u00e8 quel che ti notr\u00edca,\n ed anco \u00e8 'l padre, dal qual se' creata.\n Per\u00f2 d'ogni virt\u00fa tu se' nemica,\n mentre vuoi esser tu la pi\u00fa eccellente\n 150 e che di te meglio d'altri si dica.\n Odio tu porti a quel ch'\u00e8 pi\u00fa splendente,\n s'e' tua virt\u00fa ecclissa o falla meno\n come il lume maggior il men lucente.\n Allor nel core ti nasce il veneno\n 155 inver' di quello, e cerchi che s'estingua\n quello splendor ch'\u00e8 pi\u00fa del tuo sereno.\n E col rancor del core e colla lingua\n giammai non posi e colli denti stracci\n la carne umana marcia che t'impingua,\n 160 insidiando con occulti lacci.--\nCAPITOLO V\nDi tre spezie d'Invidia e di Cerbero, dal quale l'autore fu assalito.\n Mentr'io dicea, ed ella strignea i denti\n irata verso me ed era morsa\n da' suoi capelli, ch'erano serpenti.\n E gi\u00e1 Minerva avea la via trascorsa,\n 5 al mio parer, un gittar di balestro,\n ond'io per giunger lei mi mossi a corsa.\n Per\u00f2 partimmi e pel cammin alpestro\n s\u00ed ratto andai, ch'io fui appresso a lei\n come scolar che va dietro al maestro.\n 10 Ed ella a me:--Li figli, che li piei\n seguitan d'esta belva e 'l suo calcagno,\n se vuoi sapere, or nota i detti miei.\n Sappi che, quando alcun, sol per guadagno\n o altro bene, d'invidia s'accende\n 15 contra il vicino artista ovver compagno,\n questo ha alcuna scusa, s'egli offende;\n ch\u00e9 sempre alla cagion, che 'l bene scema,\n alcuna invidia ovver rancor si stende.\n Ma, se la volont\u00e1 la gran postema\n 20 ha dell'invidia senza essere lesa,\n e senza pro e senza alcuna t\u00e9ma,\n cotale invidia non pu\u00f2 aver difesa;\n ch\u00e9 sol malizia ha quel rancor commosso\n senza esser adontata ovver offesa:\n 25 s\u00ed come il can che non pu\u00f2 roder l'osso,\n che, quando vede ch'altro cane il rode,\n con impeto, abbaiando, gli va addosso.\n E questo non fa ei che gli sia prode;\n ma sol malizia el fa esser nemico,\n 30 talch\u00e9 si duol di quel ch'altri si gode.\n Cotal invidia il vizioso antico,\n s\u00ed come \u00e8 scritto, alli giovani porta,\n in quel che senza posa egli \u00e8 inico.\n La terza invidia, che chiude ogni porta\n 35 della piat\u00e1 nell'uomo e che \u00e8 segno\n ch'ogni luce mentale in lui sia morta,\n \u00e8 quella c'ha il cor tanto malegno,\n che del dono, che d\u00e1 Dio ovver natura,\n concepisce odio ed anche n'ha disdegno\n 40 ch\u00e9, quando \u00e8 bona alcuna creatura\n e p\u00f2 far pro ed offesa non reca,\n nulla scusa ha colui che gli ha rancura.\n Dunque sola malizia \u00e8 che l'acceca\n e move a invidia; e tal colpa di rado\n 45 riceve grazia della sua botteca.--\n Cos\u00ed Minerva a me di grado in grado\n li membri dell'invidia mi descrisse\n e quel ch'\u00e8 pi\u00fa difforme dal men lado.\n E pi\u00fa detto averebbe; ma s'affisse,\n 50 perch\u00e9 trovammo in terra una catena\n maggior che da Vulcan giammai uscisse;\n la qual era s\u00ed grande, che appena\n l'averebbon portata due cameli,\n se l'avesseno avuta in su la schiena.\n 55 --Cerbero, che ha a serpenti tutti i peli\n --disse a me Palla,--d'esta fu legato\n nelle tre gole, c'ha tanto crudeli,\n quand'egli dal fort'Ercol fu menato\n nel mondo su, come menar si s\u00f2le\n 60 un fero toro a forza e suo mal grato.\n Giunto che fu presso ove luce il sole,\n perch\u00e9 negli occhi il raggio gli percosse,\n forte latr\u00f2 con tutte e tre le gole.\n E con tal forza addietro ingi\u00fa si mosse,\n 65 che aver\u00eda tratto seco il forte Alcide\n inver' l'inferno, credo, se non fosse\n ch'egli sguard\u00f2 le braccia ardite e fide\n del buon Teseo, ed egli li sobvenne,\n quando alla 'ngi\u00fa cos\u00ed calar lo vide.\n 70 Cerber, tirato, su nel mondo venne,\n forte latrando con tutti e tre i musi,\n perch\u00e9 la mazza d'Ercole sostenne.\n Poi che fu su, tenne gli occhi suoi chiusi\n ch\u00e9 sempre il raggio lucido \u00e8 noioso\n 75 agli occhi infermi ed alle tenebre usi.\n Quando mor\u00ed il grand'Ercol virtuoso,\n ch\u00e9 la camicia la vita li tolse,\n tinta del sangue che era venenoso,\n quel can malvagio allora si disciolse,\n 80 ch\u00e9 colli denti esta catena rose;\n e libero fugg\u00ed dovunque v\u00f2lse.\n L'Invidia allor quiritta questa pose\n in questo loco, ch'a lei \u00e8 subietto;\n ed halla qui tra l'altre infernal cose.--\n 85 Minerva appena a me questo avea detto,\n ch'io cominciai udire il trino abbaio\n di Cerber, cane orrendo e maladetto.\n E come un gran rumor, che da primaio\n confuso pare e, quanto s'avvicina,\n 90 tanto egli par pi\u00fa vero ed anco maio,\n cos\u00ed facea del can la gran ruina.\n E po' el vidi venir con tre gran bocche,\n correndo gi\u00fa per quella piaggia china.\n --Guarda--disse la dea,--che non ti tocche;\n 95 ch\u00e9, s'e' la bava addosso altrui attacca,\n mestier non \u00e8 che mai pi\u00fa cibo imbocche.--\n Le fiere gole, con che 'l cibo insacca,\n quando latrava, parean tre gran tane,\n vermiglie come sangue e come lacca.\n 100 Minerva avea il mele ed avea il pane;\n e fenne un misto ed al mostro gittollo:\n allor tacette quel rabbioso cane\n e, per pi\u00fa averne, ratto stese il collo\n e ventiloe la coda ed alz\u00f2 'l mento\n 105 come il mastin, quando non \u00e8 satollo.\n Mentr'egli, per pi\u00fa averne, stava attento,\n la dea accenn\u00f2 ch'io prendessi la via;\n ond'io quatto su andai a passo lento.\n Quando Cerber s'avvide ch'io fugg\u00eda,\n 110 mi risguard\u00f2 e poi scosse la testa\n e con tre gole borbott\u00f2 in pria.\n Poscia corse ver' me con gran tempesta,\n come alla preda affamato lione,\n quando adirato sta nella foresta.\n 115 --Fa', fa' che ratto a lui lo scudo oppone\n --grid\u00f2 Minerva,--se non vuoi morire,\n ov'\u00e8 scolpito l'orribil Gorgone.--\n Il gran periglio d\u00e1 maggior ardire,\n se non dispera; ed io lo scudo opposi,\n 120 quando su contra me il vidi venire.\n Egli lo morse coi denti rabbiosi;\n poi li ritrasse a s\u00e9, perch\u00e9 s'avvide\n che al cristallo non eran noiosi.\n Allor gridai:--O Palla, che mi guide,\n 125 perch\u00e9 tu a questa volta m'hai lasciato?\n perch\u00e9 tu a me medesmo sol mi fide?--\n Per questo corse e posemise a lato,\n dicendo a me:--Perch\u00e9 'l timor t'assale,\n da che natura ed io t'abbiamo armato?\n 130 Per questa piaggia, per la qual tu sale,\n se tu non lassi l'arme da te stesso,\n nulla nuocerti pu\u00f2 over far male.--\n Quando questo dicea, ed ivi appresso\n in terra vidi guasto un corpo umano,\n 135 mezzo corroso e con lo petto fesso.\n Ed era senza piedi e senza mano\n s\u00ed come un corpo ch'a' lupi rimagna,\n e brutto e lacerato a brano a brano.\n Di simil corpi, l\u00ed 'n quella campagna,\n 140 cos\u00ed disfatti, n'era un grand'acervo,\n il qual mi demostr\u00f2 la mia compagna.\n Quel primo, ch'io trovai, disse:--Io fui servo\n gi\u00e1 d'Atteon e fui 'l primo che 'l morsi,\n quando mi parve trasmutato in cervo.\n 145 Ma poi, quando fui qui, ed io m'accorsi\n ch'io fui il cane e ch'egli era uomo vero;\n ma per la 'nvidia l'intelletto torsi.\n E noi, che stiamo in questo cimitero,\n siam cos\u00ed rosi, ch\u00e9 rodemmo altrui\n 150 con lingua e fatti e dentro nel pensiero.\n Quel grande invidioso \u00e8 qui tra nui,\n che volle a s\u00e9 che un occhio si traesse,\n perch\u00e9 al compagno sen traesson dui:\n ed anco ha doglia, quando 'l ben vedesse.--\nCAPITOLO VI\nDichiarasi come l'invidia si oppone alla virt\u00fa.\n Mentr'io admirando stava stupefatto,\n vidi quegli uomin guasti rifar sani\n e nelli membri interi ed in ogni atto.\n E poi vidi venir ben mille cani,\n 5 latrando contra loro inseme in frotta,\n mordaci e grandi pi\u00fa che cani alani.\n Come in la mandra fa la lupa ghiotta,\n che morde e guasta ed anco uccide e strozza;\n cos\u00ed facean quei can di quegli allotta.\n 10 Quale rimane ai lupi alcuna rozza,\n cos\u00ed li vidi rosi, e s\u00ed rimasi\n e cogli occhi cavati e lingua mozza,\n e senza mani e piedi e senza nasi,\n e sviscerati e le budella sparte,\n 15 e col cor dentro roso e petti spasi.\n Io vidi un, ch'era guasto in ogni parte;\n al qual io dissi:--Prego che mi dichi\n chi fusti, e vogli a me appalesarte.\n --Io fui al tempo de' romani antichi\n 20 --rispose quello,--che Roma a ragione\n visse in virt\u00fa e cogli atti pudichi.\n Fui con molt'altri contra Scipione:\n ah, invidia, nemica di virtude!\n ah, invidia, ch'a bont\u00e1 sempre t'oppone!\n 25 Non valse a lui mostrar le membra nude\n pien di ferite in ragion delle spese,\n che richiesono a lui le lingue crude.\n Non valse a lui mostrar che ne difese;\n e che, s'egli non fosse, dir non valse,\n 30 sarian le roman case state incese;\n ch\u00e9, quando per virt\u00fa in gloria salse,\n allor l'Invidia, per tirarlo a basso,\n contro lui mosse mille lingue false.\n Ond'egli fuor di Roma mosse il passo,\n 35 dicendo:--O madre ingrata al figliol pio,\n o patria invidiosa, ora ti lasso:\n tu non possederai il corpo mio.\n Ed io, che parlo, fu' il primo tra quelli,\n ch\u00e9 invidia contro lui mi fe' s\u00ed rio.\n 40 Per\u00f2 son posto qui alli fragelli,\n che tu hai visti, e invidia ne tormenta\n in quello che ne fe' malvagi e felli.\n Iustizia fa ch'ognun di noi diventa\n san nelli membri, e cos\u00ed fa rifarne\n 45 almen nel mese delle volte trenta.\n E, come noi mangiammo l'altrui carne\n s\u00ed come cani, e cos\u00ed per vendetta\n da invidiosi can fa divorarne.--\n E gi\u00e1 la dea ins\u00fa n'andava in fretta,\n 50 ond'io partimmi e non gli fei risposta;\n e, mentr'io andava per la strada incerta,\n trova' una fossa occulta in la via posta,\n e senza voglia mia il pi\u00e8 vi posi,\n e caddi in terra alla sinistra costa.\n 55 Subito mille cani, ivi nascosi,\n vennon contro di me con grandi gridi\n e colli denti di cani rabbiosi.\n Ahi, quanto io ammirai, quando li vidi!\n Ed anco ebbi timor di lor concorso,\n 60 quando disseno:--Preso \u00e8; uccidi, uccidi!--\n S\u00ed come il can quando \u00e8 percosso e morso,\n ch'ogni altro can gli abbaia e fagli guerra,\n quando grida per doglia o per soccorso,\n cos\u00ed la Invidia fa, quand'altri \u00e8 'n terra;\n 65 e quando vede alcun condutto al laccio,\n manifesta il venen che dentro serra.\n Io m'ingegnai di terra levar 'vaccio.\n Mirabil cosa! Quand'io fui levato,\n ognun fugg\u00edo e nessun mi die' impaccio.\n 70 E gi\u00e1, salendo, io era tanto andato,\n che giunsi all'altra spiaggia inver' ponente,\n ove Avarizia tiene el principato.\n Ivi trovai fuggire una gran gente,\n con s\u00ed gran furia, che l'un dava inciampo\n 75 nell'altro per fuggir velocemente.\n S\u00ed come quando in rotta \u00e8 messo un campo,\n che par ch'ognun disperso si dilegue\n tra spini e fiumi e monti in loro scampo,\n e con la spada il vincitor li segue,\n 80 forte correndo, e spesso avvien ch'un solo\n mille gi\u00e1 messi in fuga ne persegue;\n cos\u00ed fuggendo andava quello stuolo,\n tra 'l qual conobbi Bencio da Fiorenza,\n che fu di Giorgio Benci gi\u00e1 figliuolo.\n 85 Io dissi a lui:--Un poco sussistenza\n prego che facci e che di dir ti piaccia\n perch\u00e9 fuggite voi, per qual temenza.--\n Rispose, andando e voltando la faccia:\n --Donna sta qui, per cui fuggiam s\u00ed forte:\n 90 ella col suo timor ne mette in caccia.\n In questa piaggia tien la brutta corte\n ed \u00e8 chiamata trista Povertade,\n spiacente tanto, ch'appena \u00e8 pi\u00fa Morte.\n Per mezzo delle spine e delle spade\n 95 noi la fuggiamo per ogni periglio,\n per mezzo a' fiumi e per l'aspre contrade.--\n Allor per veder quella alzai il ciglio\n e dalla lunga vidi quella vecchia,\n ch'\u00e8 ostetrice prima ad ogni figlio.\n 100 Avea i peli canuti ad ogni orecchia;\n \u00e8 dispiacente s\u00ed, che a lei appena\n la Morte in displicenzia s'apparecchia.\n Malanconia e fame seco mena;\n e per suoi damigelli avea gaglioffi;\n 105 e di miseria la sua corte \u00e8 piena.\n E barattieri ha seco e brulli e loffi\n e quelli a cui non fa bisogno punga,\n e nudi che sospiran con gran soffi.\n Per questo van fuggendo tanto a lunga,\n 110 e la fatica mai non li fa stanchi:\n tanto han timor che costei non li giunga.\n Il loco, ove fugg\u00edano, io mirai anchi\n e vidi l'altra corte, dove vanno,\n ove lor pare alquanto esser pi\u00fa franchi.\n 115 L\u00ed stava una regina in alto scanno\n ed era grande in forma gigantea,\n e vestita era d'oro e non di panno.\n E, bench\u00e9 fosse adorna come dea,\n nientemeno avea volto lupardo\n 120 e la sua vista traditrice e rea.\n Mentr' i' a vederla ben drizzai lo sguardo,\n io vidi cosa, ch'il creder vien meno;\n ma io 'l dir\u00f2, e non sar\u00f2 bugiardo.\n Vidi che della poppa del suo seno\n 125 lattava e nutricava un piccol drago;\n ma ben parea a me pien di veneno.\n Mentre el suggea desideroso e vago,\n da quel, ch'egli era pria, si fe' pi\u00fa grande\n che un grosso trave rispetto d'un ago.\n 130 Allor richiede aver maggior vivande,\n ch\u00e9 tutto il latte, che la madre stilla,\n non basta al grande iato, ch'egli spande.\n Per\u00f2, affamato, prende la mammilla\n e cava il sangue, e quel convien che suchi;\n 135 e, perch\u00e9 \u00e8 poco, il venen disfavilla.\n --Convien che ad altra preda ti conduchi\n --disse colei:--o figlio, io non ti basto,\n da che hai pi\u00fa fame quanto pi\u00fa manduchi.--\n Allora il drago, per aver il pasto,\n 140 tra quelle genti rapace si mosse,\n come fa il lupo tra le mandre el guasto.\n E, non sguardando qualunque si fosse,\n or questo or quel divora e 'l sangue beve\n colli suoi denti e coll'ultime posse.\n 145 E, s'egli cresce al pasto che riceve,\n e quanto cresce, tanto ha pi\u00fa appetito,\n convien ch'ogni gran cibo a lui sia breve.\n Vidi poi il drago crudele ed ardito\n venir ver' me con s\u00ed grande tempesta,\n 150 che di paura io sarei tramortito,\n non fusse che Minerva presta presta\n a me soccorse, e tra lui e me si mise,\n e, quando venne, gli tagli\u00f2 la testa.\n Mirabil cosa! Sette ne rimise,\n 155 e tutte e sette quelle teste nuove\n anco la dea gli tagli\u00f2 e ricise.\n Nacquene in lui ancor quarantanove;\n e fu quell'idra, gi\u00e1 morta da Alcide,\n quando nel mondo fece le gran prove.\n 160 Quando dea Palla di questo s'avvide,\n che ogni capo ne rimette sette,\n quantunque volte la spada il ricide,\n non con quell'arme pi\u00fa gli resistette,\n ma disse a me:--Qui \u00e8 bisogno il foco:\n 165 quest'\u00e8 quell'arme ch'a morte lo mette.--\n Descender vidi allora su 'n quel loco\n una gran fiamma, e quel serpente estinse\n e f\u00e9llo come pria diventar poco.\n In questo modo la mia scorta el vinse.\nCAPITOLO VII\nOve trattasi del vizio dell'avarizia.\n Io stava ancora a quel dragone attento,\n a cui, mangiando, fame cresce tanto,\n quanto a sei cifre crescerebbe un cento,\n quando la dea mi disse:--Or mira alquanto\n 5 a quella lupa cruda, che ha la 'nvoglia\n s\u00ed preziosa e s\u00ed adorno il manto.\n Ben converr\u00e1 che, quando ella si spoglia,\n la sua bruttura ed i figliol dimostri,\n che parturisce sua bramosa voglia.--\n 10 Allor mirai e vidi cinque mostri,\n quand'ella si spogli\u00f2 il bel mantello,\n ch'avean diversi volti e vari rostri.\n Il primo avea il viso umano e bello;\n e quanto pi\u00fa ven\u00eda verso la coda,\n 15 tanto era serpentino e rio e fello.\n Minerva disse a me:--Quella \u00e8 la Froda,\n che guast\u00f2 il vero amore e vera fede,\n che fa temer che l'un l'altro non proda.\n Quell'altro mostro, che dietro procede,\n 20 che ha faccia umana e lingua tripartita\n e che trascina il petto e non sta in piede,\n \u00e8 quella biscia maladetta ardita,\n che nacque prima del drago crudele,\n che diede morte, promettendo vita.\n 25 Il terzo mostro, che ha in bocca il m\u00e8le\n e porta nella man la spada nuda\n nascosa dietro, sol perch\u00e9 la cele,\n \u00e8 quel dimon, ch'entr\u00f2 nel cor di Giuda,\n quando col bascio il gran Signor trad\u00edo\n 30 per l'appetito della lupa cruda.\n Il quarto mostro, pi\u00fa malvagio e rio,\n \u00e8 quel che 'l secol d'oro e l'et\u00e1 lieta\n conturb\u00f2 prima con dir \u00abtuo\u00bb e \u00abmio\u00bb.\n E 'l coltel sanguinoso e la moneta\n 35 vedi che porta, ed \u00e8 pien di veneno,\n fiero e rapace senza nulla piet\u00e1.--\n Poi tanti mostri partur\u00edo del seno\n e tanto brutti la bramosa lupa,\n ch'a numerargli ognun ne verr\u00eda meno.\n 40 --Ella \u00e8 nel ventre tanto grande e cupa\n --disse Minerva,--e mena a tanti lacci,\n ch'ogni intelletto grande e legge occ\u00fapa.\n Perch\u00e9 nel fundamento ben lo sacci,\n attendi ch'avarizia \u00e8 voglia accesa\n 45 di conservar o ch'acquistar procacci.\n Se ad acquistar questa voglia fa impresa,\n sta in faticosa cura e sempre in moto\n e sempre al pasto con la mente attesa;\n ch\u00e9 sempremai 'l voler, quand'\u00e8 rimoto\n 50 da quel ch'egli desia, si move e corre,\n insin ch'\u00e8 pien, se gli par esser v\u00f2to.\n E, perch'empier non puossi e fame t\u00f4rre\n giammai l'avaro e bramoso appetito,\n salvo al desio non voglia termin porre,\n 55 per questo avvien che quanto pi\u00fa \u00e8 ito\n oltra, acquistando, tanto s'affatica:\n per\u00f2 tal cura cresce in infinito.\n E quanto vien pi\u00fa verso l'et\u00e1 antica,\n tanto pi\u00fa cresce e per amor del pasto\n 60 ogni altro amor disprezza ed inimica.\n Quinci escon i gran mal, che 'l mondo han guasto;\n ch\u00e9, quando questa brama non s'affrena,\n sforzando, ruba altrui con onte ed asto\n Questa \u00e8 che al furto ed alle forche mena\n 65 e fa l'usura e barattier ricetta;\n questa \u00e8 d'inganni e di menzogne piena.\n Questa fa che 'l figliol la morte aspetta\n del vivo padre, e, per esser ereda,\n spesse fiate a lui la morte affretta.\n 70 Questa \u00e8 che assassina, uccide e preda,\n dispregia Dio, all'uom \u00e8 traditrice,\n e meretrica ed in molt'atti \u00e8 feda.\n Questa \u00e8 'l mal seme e questa \u00e8 la radice\n d'ogni altro mal; ch\u00e9 di lei uscir puote\n 75 ogni altro vizio, s\u00ed come si dice.\n L'altra avarizia ancor, se tu ben note,\n \u00e8 voglia accesa a conservare in arca;\n e questa fa cadere in molte mote.\n Questa \u00e8 troppo tenace e troppo parca;\n 80 ed \u00e8 senza piat\u00e1 e non sobviene,\n se il bisognoso chiede o si rammarca.\n Deh, dimmi, avar, che giovan l'arche piene,\n se l'Avarizia s\u00ed ti tien la mano,\n che a te, n\u00e9 ad altri non ne puoi far bene?\n 85 E forse lasserai erede estrano,\n che non vorresti, e forse sar\u00e1 alcuno,\n che dir potrai:--Ho conservato invano.--\n Or non sai tu ch'ogni ben \u00e8 comuno\n nel gran bisogno e che nell'ampia mensa\n 90 parte ci ha 'l nudo povero e digiuno?\n Ma ci\u00f2 ch'avanza o che mal si dispensa,\n il bisognoso pu\u00f2 dir che gli \u00e8 tolto\n e la indigenza iniustamente offensa.--\n Quando tutto il processo ebbi raccolto,\n 95 i' dissi a lei:--Non ho bene compreso\n un detto, che 'l pensier mi grava molto.\n Tu di' che la Menzogna, s'io l'ho inteso,\n \u00e8 figlia della lupa iniqua e ria,\n che dopo il pasto ha pi\u00fa 'l disio acceso.\n 100 Or come \u00e8 questo, dacch\u00e9 nacque in pria\n del petto invidioso del serpente,\n ch'\u00e8 menzonaio e padre di bugia?--\n Ed ella a me:--Non \u00e8 inconveniente\n ch'un atto rio di pi\u00fa radici nasca,\n 105 com'io ti mostrer\u00f2 apertamente.\n Tu sai che fura alcun, perch\u00e9 si pasca;\n ed alcun fura per la voglia sola,\n che ha d'esser ricco, e per mettere in tasca.\n Tu vedi ben che l'uno e l'altro imbola,\n 110 ed un di questi da avarizia \u00e8 mosso,\n e l'altro el move il vizio della gola.\n Perch\u00e9 tal dubbio sia da te rimosso,\n dir\u00f2 dove virt\u00fa e 'l mal si fonda;\n e chiaro tel dir\u00f2 quantunque posso.\n 115 Non vien dal fior, n\u00e9 anco dalla fronda,\n s'egli \u00e8 amaro e vizioso il frutto,\n ma da la raica e 'l ramo, onde seconda.\n E cos\u00ed l'atto, s'egli \u00e8 bello o brutto;\n e, s'egli ha 'n s\u00e9 bont\u00e1 ovver malizia,\n 120 vien dalla volont\u00e1, ond'\u00e8 produtto;\n ch\u00e9 'l voler, intendendo, el fine inizia\n e sa 'l perch\u00e9 e 'l modo, e l'ordin guida;\n ed ella fa il fin buono ed anche 'l vizia.\n Onde, se alcun per bene un uomo uccida,\n 125 servando l'ordin iusto, cotal atto\n non far\u00eda lui colpevole omicida.\n Il tempo \u00e8 poco: omai andiam pi\u00fa ratto.--\n Ond'io mi mossi; e forse eravamo iti\n quant'un grosso balestro avesse tratto,\n 130 ch'io risguardai agli oppositi liti\n e vidi il mostro opposito e distante\n a la lupa rapace e suo' appetiti.\n Le mani avea forate tutte quante,\n i piedi avea di gallo e la gran cresta,\n 135 e d'uomo il volto e tutto altro sembiante.\n Genti eran seco, che facean gran festa;\n ed egli stava in mezzo grasso e croio;\n poi si spogli\u00f2 e don\u00f2 a lor la vesta.\n Poi, poco stando, ed ei prese un rasoio\n 140 e scorticossi, e poi le ven si punse;\n e don\u00f2 a quelle genti il proprio cuoio\n e poscia il sangue, che da s\u00e9 desmunse.\n Alfin e' divent\u00f2 come Eco trista,\n ch'ancor risponde e d'amor si consunse.\n 145 La dea a me:--L'immago, che hai vista,\n del prodigo \u00e8, c'ha suoi atti contrari\n a quella lupa, che bramando acquista.\n Egli non cura robba, n\u00e9 denari;\n dissipa e fonde e li suoi ben ruina.\n 150 Quest'altra aduna e tien con modi avari.\n Il liberal per mezzo a lor cammina:\n cos\u00ed ogni virt\u00fa giammai non erra,\n s'ella alle parti estreme non declina.\n Da un lato l'avaro a lei fa guerra,\n 155 amando troppo l'oro e per eccesso;\n dall'altro quel che mai la borsa serra:\n ch\u00e9 la pecunia e l'altro ben, concesso\n all'uso umano, egli ama tanto poco,\n che non mira ond'\u00e8 e quanto e come spesso:\n 160 per\u00f2 oppositi stanno in questo loco.--\nCAPITOLO VIII\nDove si ragiona del vizio dell'avarizia\n Un gran torrente, poi, polito e chiaro\n trovammo in quella via, che gira in tondo,\n ove pena sostien chiunque fu avaro.\n E presso al fiume, ov'egli \u00e8 pi\u00fa profondo,\n 5 vidi del miser Cadmo le figliuole\n con brocche in mano; e nessuna avea fondo.\n E, quando alcuna empire l'idria v\u00f2le,\n perch\u00e9 'l lor vaso \u00e8 sfondato di sotto,\n quanto s\u00fa metton, gi\u00fa convien che sc\u00f3le.\n 10 E sempre stan con l'appetito ghiotto,\n affaticate, che credono empire,\n quando che sia, ognuna il vaso rotto.\n Migliaia vidi posti a tal mart\u00edre,\n che di quel fiume stanno su la rupe,\n 15 ed un di loro a me cominci\u00f2 a dire:\n --S\u00ed come noi le voglie rotte e cupe\n nel mondo avemmo e sempremai bramose\n pi\u00fa che mai cagne ovver che magre lupe,\n cos\u00ed iustizia qui 'n pena ne pose,\n 20 che sitibondi stiamo appresso all'onda\n dell'acque s\u00ed abbondanti e copiose.--\n Poscia una donna vidi in sulla sponda\n come un gigante e col vestire adorno,\n con bella faccia e con la treccia bionda.\n 25 Dinanti a lei ed anche intorno intorno\n stavano molti, ch'eran pi\u00fa assititi\n che Orlando, quando alfin son\u00f2 'l corno.\n E, bench\u00e9 siano al fiume in sulli liti,\n non mai per\u00f2 verun dell'acque toglie,\n 30 ch\u00e9 dal voler di Dio sonno impediti.\n La bella donna di quell'acqua coglie\n con diligenza, con una gran brocca,\n per saziar le lor bramose voglie,\n ed a quell'alme la trasfonde in bocca;\n 35 ma la lor sete tanto pi\u00fa s'accende,\n quanto pi\u00fa acqua in gola lor trabocca.\n Ella mi disse:--O tu, che vivo ascende\n e contemplando vai questo reame,\n la pena di costoro alquanto attende.\n 40 Bench\u00e9 'l poeta Copia mi chiame,\n nientemen mia acqua mai fa spenta\n la sete a questi e loro ardenti brame.\n Or pensa la lor pena se tormenta,\n da che l'arsura lor mai non s'estingue,\n 45 n\u00e9, quantunque acqua beva, si contenta.\n Per\u00f2 qui stanno ianti colle lingue,\n come sta il can che ha corso, e con gran folla\n corrono a me, che la lor sete impingue.\n --O voglia ingorda e cupa mai satolla,\n 50 a cui la sete maladetta cresce,\n quanta pi\u00fa acqua del mio fiume ingolla,\n qual tutta l'acqua, che nutr\u00edca pesce,\n non saziar\u00eda e non far\u00eda dir:--Basta,--\n n\u00e9 quanta n'entra in mare ovver che n'esce:\n 55 nel mondo, onde mi mena la dea casta\n --risposi a Copia,--non \u00e8 questa sete,\n al mio parer, cotanto ingrata e vasta.--\n La donna a me:--Lass\u00fa non conoscete,\n rispetto a quell'arsura che mart\u00edra,\n 60 quant'\u00e8 poca quell'acqua, che bevete.\n La millesima parte, chi ben mira,\n quando:--Vorrei--si dice, o:--Se avesse!\n non si chiede del ben, che l'uomo disira.\n S\u00ed come 'l ricco chiese che daesse\n 65 un gocciol d'acqua Lazzaro col dito,\n che la sua lingua tanto non ardesse,\n tal chiede l'uom rispetto all'appetito;\n colui ch'empirsi d'un gocciol si fida,\n di tutto il fiume mio non ser\u00eda emp\u00edto.\n 70 Qui sta Pigmalion, e qui sta Mida,\n che di far oro col tatto a Dio chiese,\n e per tal don di s\u00e9 fu omicida.\n Ancora chiedon con le voglie accese:\n a lor, n\u00e9 ad altri mai potei dar tanto,\n 75 ch'elli dicesson ch'io fussi cortese.--\n Rispose a questo un ch'era quivi accanto:\n --Pensa se io, a cui non d\u00e1i niente,\n mi debbo lamentar e far gran pianto.--\n E mentre che per questo io posi mente,\n 80 egli mi disse:--Io son preite Anti\u00f3co,\n e son dannato qui tra questa gente.\n Idropico giammai, fabbro, n\u00e9 cuoco\n non ebbon s\u00ed gran sete; e sempre chiedo\n che questa donna mi dia bere un poco.\n 85 Maggior dolor non \u00e8, s\u00ed com'io credo,\n che di eccellenza aver gran desid\u00e8ro\n o di ricchezza o d'ira o d'atto fedo;\n ch\u00e9, se quel ch'uom disia non viene invero,\n l'animo affligge, e, se inver venisse,\n 90 ha sempre mancamento e non \u00e8 intero.--\n Risponder gli volea, quand'esto disse;\n ma per la folla e per la grande stretta\n convenne ch'io sospinto addietro gisse,\n per\u00f2 che quella gente maladetta\n 95 fanno gran calca, ed insieme s'oppreme\n ciascun, che l'acqua in prima a lui si metta.\n Per questo poi turbar li vidi inseme,\n s\u00ed come quei fratelli f\u00ean la guerra,\n in Tebe nati dal serpentin seme,\n 100 e come nel teatro alla gran terra\n ne' giuochi salii dispiatati e crudi,\n s\u00ed come dice Seneca e non erra,\n stavano disarmati senza scudi\n li condannati, chiusi in poco spazio,\n 105 colli coltelli in mano, a petti nudi,\n e di lor carne facean tanto strazio,\n finch\u00e9 l'un l'altro crudelmente uccide,\n ch'ogni Erode crudel ne saria sazio.\n Quando cotanto mal l'occhio mio vide,\n 110 dissi a Minerva:--Io prego mi contenti\n d'un dubbio, pria che pi\u00fa in alto mi guide.\n Di tutti i cieli e di tutti elementi,\n se nell'Apocalisse io ben discerno,\n di tutti i regni e di tutti li venti\n 115 commesso ha Dio agli angeli il governo\n s\u00ed come a motor primi e generali,\n s\u00ed che lor moto vien dal pi\u00fa superno.\n Ora mi di': se li ben temporali\n sono commessi ad agnol che sia buono,\n 120 da che son seme di cotanti mali?\n Ch\u00e9, se penso l'origine, onde sono,\n cavati son d'inferno, ove natura\n nascosto avea cos\u00ed nocivo dono.\n Ed anco questo don, s'io pongo cura,\n 125 tutte le volte nuoce a' possessori,\n se l'appetito a s\u00e9 non pon misura.\n E Satanasso disse:--Se mi adori--\n quando nell'alto monte men\u00f2 Cristo,\n --io ti dar\u00f2 e regni e grandi onori.--\n 130 Adunque da lui \u00e8 cotale acquisto:\n nullo guadagno grande e ratto viene,\n se non con froda o con rapina misto.\n Chiaro \u00e8 lo testo che questo contiene,\n ch\u00e9 nell'Apocalisse chi ben cerca,\n 135 questo testo e la chiosa vedr\u00e1 bene.\n Dice: \u00abQualunque per guadagno merca,\n convien che della bestia porti il segno\u00bb,\n come chi serve a Dio porta la cherca.\n E questa bestia, come fermo io tegno,\n 140 \u00e8 un diavolo; e la froda e la bugia\n il segno son del serpente malegno.\n Ed anco in ci\u00f2 che fa, convien che sia\n Cristo simile al Padre e che ambedoi\n tengan un modo, un ordin e una via.\n 145 Ma Cristo solo a' buon seguaci suoi,\n s'io ben estimo, commise ogni cosa\n alta e perfetta, e questo veder puoi.\n Del sangue suo la sua dotata sposa\n commise a Pietro e l'una e l'altra chiave,\n 150 la qual d'aprir il ciel ora si posa.\n E quella dolce Madre, a cui disse:--Ave--\n gi\u00e1 Gabriello, diede al suo diletto,\n il qual am\u00f2 con pi\u00fa amor soave.\n Il nome suo commise al vaso eletto,\n 155 che 'l predicasse tra 'l popul gentile,\n e che alla fede el facesse soggetto.\n Ma la pecunia, come cosa vile,\n commise a quel discepol, ch'era rio\n lupo rapace in mezzo al santo ovile.\n 160 Questo ne dice Cristo, al parer mio,\n che nullo puote mai, s\u00ed come ei pone,\n a Mammona servir ed anco a Dio.\n S\u00ed come alcuno espositor espone,\n delle divizie Mammona \u00e8 ministro;\n 165 sicch'egli alle divizie si prepone.--\n Quand'ebbi detto, il cammino a sinistro\n prese la dea ed alla mia proposta\n mi disse:--L'opra dimostra il maistro;--\n e non mi volle dare altra risposta.\nCAPITOLO IX\nDel vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami.\n Gi\u00e1 er'io gionto in su la piaggia quarta,\n ove l'Accidia sta ad impedire\n l'andar alla vert\u00fa per la via arta,\n quando la dea mi cominci\u00f2 a dire:\n 5 --Accidia \u00e8 tedio ed un increscimento\n di far il bene ovvero a Dio servire;\n ch\u00e9 sempre a quella cosa si sta attento,\n che d\u00e1 diletto ovver piacere al cuore,\n ed ogni altra \u00e8 con pena e con istento;\n 10 e tanto ogni vert\u00fa ha pi\u00fa valore,\n quanto \u00e8 prodotta con pi\u00fa allegrezza\n e con maggior fervor di buon amore,\n ch\u00e9 amor ogni virt\u00fa pone in altezza,\n e tanto piace a Dio ed \u00e8gli accetto,\n 15 che 'l ben, quanto ha d'amor, tanto l'apprezza;\n e come amor il ben fa pi\u00fa perfetto,\n cos\u00ed l'accidia, ch'all'amor s'oppone,\n el fa essere vile e fallo infetto.\n E sappi che di questo \u00e8 la cagione\n 20 la sensualit\u00e1, che sempre \u00e8 prona\n a ci\u00f2 che contradice alla ragione;\n e se al ben far la volont\u00e1 la sprona,\n vi va con tedio, se vert\u00fa assueta\n non l'ha domata pria e fatta buona.\n 25 Ma, se corre a virt\u00fa gioconda e lieta,\n e spiace a lei ci\u00f2 ch'a ragion dispiace,\n segno \u00e8 ch'\u00e8 buona, domata e quieta.--\n Coll'occhio, poi, che meglio e pi\u00fa vivace\n prende certezza e pi\u00fa il ver conferma,\n 30 vidi l'Accidia ed ogni suo sequace.\n Ell'era vecchia, magra, trista e 'nferma,\n e posta tra le spine e campi incolti,\n debile s\u00ed, che 'n pi\u00e8 non stava ferma.\n E mostri intorno intorno ell'avea molti,\n 35 ch'avean orribil forma ed apparenza,\n e tutti malanconici ne' volti.\n --La prima sua figliola \u00e8 Sonnolenza,\n che si distende ovver dorme o sbaviglia,\n quando di Dio si parla o di scienza;\n 40 e, se di risi o giochi si bisbiglia,\n sta colle orecchie e sta cogli occhi attenta\n e vigilante e colle liete ciglia.\n L'altra \u00e8 la Tepidezza pigra e lenta,\n in cui caldo d'amor s\u00ed poco serve,\n 45 ch'adopra come fiamma quasi spenta;\n noiosa a chi l'aspetta ed a chi serve,\n non cura il tempo che veloce vola,\n n\u00e9 fa che, operando, si conserve.\n La Negligenza \u00e8 la terza figliuola,\n 50 che sempre indugia nel tempo veloce,\n gravata ancor d'accidiosa stola.\n Per lei grid\u00f2 gi\u00e1 Curio ad alta voce\n al grande imperator che sempremai\n a cosa apparecchiata indugio n\u00f2ce.\n 55 Mentre lo 'ndugio va di crai in crai,\n il tempo manca e crescono gli affanni,\n e li novelli aggravan li primai.\n E, mentre Negligenza tra li panni\n e tra la spen del \u00abben farem\u00bb si siede,\n 60 il tempo corre in sua ruina e danni.\n Il quarto mostro, che 'n gi\u00fa move il piede,\n Mollizia \u00e8, nemica del costante,\n che alquanto sale e poscia addietro riede.\n E, bench\u00e9 alla 'ns\u00fa mova le piante,\n 65 quando egli avvien che trovi cosa dura,\n per debilezza torna e non va innante,\n e perde il palio, che sta su l'altura,\n che sol si d\u00e1 a chi ben persev\u00e9ra\n insino al fine e 'nsin che 'l cammin dura.\n 70 E, perch\u00e9 ben conoschi questa fiera,\n de' suoi figliol dir\u00f2 la radice anco,\n ond'ha origin questa brutta schiera.\n E sol perch\u00e9 in loro \u00e8 scemo e manco\n il vigor dell'amor, e per\u00f2 avviene\n 75 ch'ognun di loro \u00e8 tristo, lento e stanco.\n Non \u00e8 che mai da s\u00e9 sia grave il bene,\n ma \u00e8 la voglia ch'estima se stessa\n di non poter, e per\u00f2 nol sostiene.\n E l'altra figlia, ch'a lei pi\u00fa s'appressa,\n 80 Malizia ha nome, il mostro pi\u00fa rubesto,\n che di pensar malfar giammai non cessa.\n E, perch\u00e9 questo a te sia manifesto,\n sappi che Accidia in la virt\u00fa ha tedio,\n e ci\u00f2 ch'a ragion piace, a lei \u00e8 molesto.\n 85 E, perch\u00e9 a lei nel ben non piace sedio,\n anco su vi s'attrista ed \u00e8gli amaro,\n da lui si parte per trovar rimedio;\n e, per aver all'angoscia riparo,\n fugge dalla virt\u00fa, ch'a lei \u00e8 noiosa,\n 90 inverso il vizio, alla virt\u00fa contraro.\n Lasciato il bene, su nel mal si posa;\n ivi si pasce e diletta e s'impregna\n di questa figlia rea e maliziosa.--\n Dicendo questo a me la dea benegna,\n 95 io vidi mover con veloci passi\n la vecchia pigra e trista, che l\u00ed regna.\n E li suoi mostri, che pria parean lassi,\n si mosson dietro a lei gagliardi e presti\n s\u00ed come giovin, che correndo spassi.\n 100 E non parean pigri, tristi e mesti,\n ma ratti e tosti e con facce gioconde,\n non sonnolenti, ma attenti e d\u00e8sti.\n Ed io, che non sapea la cagion onde\n questo avvenisse, dissi:--O dea, al fatto\n 105 quel, che tu gi\u00e1 m'hai ditto, non risponde.\n Io veggio che costor van tutti ratto:\n adunque non \u00e8 ver quel che si dice,\n ch'ognun di lor sia infermo, lento e sfatto.--\n Ed ella a me:--Questo non contradice\n 110 a quel che ho detto, se ben tu riguardi,\n ch'amor d'ogni atto umano \u00e8 la radice.\n Ora costor solleciti e gagliardi\n corron cogli appetiti inverso il male,\n e quando vanno al ben, van pigri e tardi;\n 115 ch\u00e9, come sai, la parte sensuale,\n se non si doma, al mal ratto si move\n e verso il ben par ch'abbia fiacche l'ale.--\n Poscia Minerva mi condusse dove,\n nel mezzo del cammin, trovai due vie;\n 120 maravigliar mi f\u00ean le cose n\u00f2ve,\n ch\u00e9 su nell'una dolci melodie\n gli angeli cantan, s\u00ed dolci canzone,\n ch'io me n'innamorai quando l'od\u00ede.\n E come a Roma nel campo d'Agone\n 125 il premio si mostrava ai forti atleti,\n d'ingrillandarli di belle corone;\n cos\u00ed quegli angiol colli volti lieti\n prometteano a chi sal, con dolce invito,\n di coronarli e di farli quieti.\n 130 --Venite su--diceano--al gran convito\n del nostro Re e del celeste Agnello,\n che sol contentar pu\u00f2 'l vostro appetito.\n Su pel viaggio tutto onesto e bello\n venite al gran Signor, che su v'aspetta,\n 135 e noi ognun di voi come fratello.\n Su troverete ci\u00f2 ch'all'uom diletta,\n su senza morte \u00e8 sempiterna vita,\n su sta la securt\u00e1 non mai suspetta.--\n Io mi credea che tutti a tanta invita\n 140 salisseno correndo ins\u00fa devoti,\n bench'assai dura fusse la salita.\n Ed io ne vidi pochi tardi e pioti\n e gravi andar s\u00ed come Idropisia\n e come infermi e d'ogni fervor v\u00f2ti.\n 145 Quando poi rimirai all'altra via,\n bench\u00e9 fusse lotosa e pien di spine,\n per quella quasi ognun ratto corr\u00eda.\n E, perch\u00e9 su per quella ognun cammine,\n stavan dem\u00f2ni con coron d'ortiche,\n 150 che conduceano altrui a mortal fine.\n Tra le punture e tra le gran fatiche\n andava ognun sollicito e giocondo\n e con gran festa alle cose impudiche.\n E, quand'io vidi i servitor del mondo\n 155 servir senza gravezza e con disio\n e li serventi a Dio con tanto pondo:\n --Di questo il tipo--dissi nel cor mio--\n fu quando Iuda and\u00f2 ratto e fest\u00edno\n a tradir quel che fu ver uomo e dio,\n 160 e vigilante and\u00f2 fin al mattino;\n e Pier nel ben non vegli\u00f2 solo un'ora,\n ma stava dormiglioso a viso chino,\n quando Cristo gli disse:--Sta' su ed \u00f2ra:\n non vedi Iuda tu, il qual non dorme,\n 165 ma ratto corre al mal e non dimora?--\n E questo esemplo al ver tutto \u00e8 conforme.--\nCAPITOLO X\nDel vizio dell'ira e delle sue specie.\n Noi divenimmo in su la quinta strada,\n e trovai sangue in ogni lato sparso,\n come in su l'erbe cade la rugiada.\n Ed ogni luogo ivi era guasto ed arso,\n 5 s\u00ed come Erode, a gran furor commosso,\n arse le navi in la citt\u00e1 di Tarso.\n Poi risguardai e vidi un fiume rosso,\n tutto di sangue e grande quanto il Reno,\n ed anco, al mio parer, era pi\u00fa grosso.\n 10 Ahi, quanto di stupor io venni meno,\n vedendo un fiume spumoso e fumante,\n di sangue uman s\u00ed grosso e tanto pieno!\n S\u00ed come manca il cuor all'elefante,\n vedendo il sangue ovver liquor sanguigno,\n 15 cos\u00ed mancava a me il core e le piante.\n Per l'argine del fiume s\u00ed maligno\n andai tanto, insino ch'io trovai\n tre belle donne col viso benigno.\n E vidi dietro a lor, quando mirai,\n 20 tre gran diavoli s\u00ed orrendi e brutti,\n che s\u00ed deformi non f\u00fbn visti mai.\n Addosso alle tre donne intraron tutti\n e trasmut\u00e2ro lor belle sembianze,\n e gli atti umani in lor furon destrutti.\n 25 Quelle lor facce, pria benigne e manze,\n si f\u00ean crudeli e divent\u00f4n di cane,\n e di scorzon si f\u00ean le bionde danze.\n Di coltei sanguinosi arm\u00f4n le mane;\n e le gran serpi, ch'avean nelle teste,\n 30 soffiavan gracilando come rane.\n Di ferro arruginato f\u00ean le veste\n e di ceraste fenno le cinture,\n col morso e col venen troppo moleste.\n Quand'io vidi mutar le lor figure,\n 35 conobbi le tre Furie infernali,\n a s\u00e9 ed anche altrui amare e dure.\n Di pipistrello avean le lor brutte ali,\n e 'l collo e 'l dosso avvolti di serpenti,\n con viste acerbe, crudeli e mortali.\n 40 --Queste, che mordon se stesse co' denti,\n sonno dell'ira il vizio triforme:\n in cotal modo ell'usan tra le genti.\n Quella che nella vista \u00e8 men difforme\n e che par men molesta in questo loco\n 45 e che si desta e poi ratto si addorme,\n \u00e8 l'Ira prima: \u00e8 lieve e dura poco,\n s\u00ed come fiamma accesa nella stoppa\n tosto si lieva, e poi s'estingue il foco.\n E, bench\u00e9 nel durare non sia troppa,\n 50 il colpo furioso, quando coglie,\n non fa men male a chi in quello s'intoppa.\n E questa tra le case si raccoglie\n e tra la turba pronta e garrizzaia\n e tra gli amici, il marito e la moglie.\n 55 L'altr'Ira \u00e8 dentro, e di fuor non abbaia,\n ma pensa far vendetta e non favella,\n sol perch\u00e9 l'ira di fuor non appaia.\n Questa \u00e8 chiamata Ira amara e fella;\n cerca vendetta e nel cuor si richiude;\n 60 e poscia alfin si placa e non flagella;\n ch\u00e9, bench\u00e9 pensi le vendette crude,\n passando il tempo lungo, e l'ira passa\n e le man placa, pria di piat\u00e1 nude.\n E l'Ira terza mai vendetta lassa,\n 65 rabbiosa nello cor, e sempre seve,\n insin ch'occide o, divorando, abbassa.\n Questa \u00e8 detta Ira difficile e grieve;\n crudele e tirannesca ovver superba,\n che mai non posa, se 'l sangue non beve.\n 70 Megera \u00e8 questa con la vista acerba;\n di ratta occision non \u00e8 contenta,\n ma per pi\u00fa tormentar la vita serba.\n Ella si gode quando altrui tormenta:\n guarda quant'ha crudele e brutta faccia\n 75 e che d'ogni piat\u00e1 la cera ha spenta!--\n Io vidi l'Ira poi con crudel faccia;\n e fe' le fiche a Dio il mostro rio,\n stringendo i denti ed alzando le braccia.\n Mentre cos\u00ed faceva, ei partor\u00edo\n 80 orrendi mostri e prima la Biastema\n col viso alt\u00e8ro e biastimante Dio.\n Ahi, creatura vil, di bont\u00e1 scema,\n putrido verme e posto in gran bassezza,\n come biastemi la Vert\u00fa suprema?\n 85 Ch\u00e9, da che l'Ira sempre mai disprezza\n colui, con cui si turba, or pensa quince\n se pecchi, dispregiando tanta altezza.\n E, se ti levi contra il primo Prince,\n sol per tal atto diventi idolatra:\n 90 tanto il furor e cecit\u00e1 ti vince.\n --Quell'altro, che ha la faccia iniqua ed atra,\n \u00e8 Sdegno inchiuso nella fantasia,\n il qual, quand'esce fuor, com'un can latra,\n e dice contumelia e villania\n 95 ed avvilisce, obbrobri recitando\n con la rabbiosa voce e con follia.\n Il terzo mostro ancor brutto e nefando,\n Immania ha nome ed Inumanitade,\n ch'\u00e8 come un cane o bestia, divorando.\n 100 Questo tra 'l sangue crudo e tra le spade\n prende diletto e, bench\u00e9 altri gridi,\n non ha misericordia, n\u00e9 pietade.\n Dall'ira escon battaglie ed omicidi,\n insulti, oltraggi, onte, risse e guerra,\n 105 le grandi espulsion de' propri nidi.\n Se 'l detto mio attendi, che non erra,\n questa \u00e8 che ha guasto il mondo e le gran ville\n e che li gran reami gitta a terra.\n Questa \u00e8 ch'uccise Ett\u00f2r ed anche Achille,\n 110 e che ha divisa Italia e che redusse\n Roma e Cartago in foco ed in faville.\n Quando Dio l'uomo da prima produsse,\n non l'arm\u00f2 gi\u00e1 di denti ovver d'artigli,\n sol perch\u00e9 pio e mansueto fusse.\n 115 Ma 'l miser'uomo, purch\u00e9 ira il pigli,\n f\u00e8ra crudel si fa, e nella vista\n par ben ch'ad un dimonio s'assomigli.\n E, se saper tu vuoi quanto s'attrista,\n quando Ira sua vendetta far non puote,\n 120 e quanta doglia in se medesma acquista,\n ella si morde i labbri e si percote,\n e rompe e spezza e furiosa mira,\n e svelle a s\u00e9 la barba dalle gote.\n E ci\u00f2 che far non pu\u00f2 la crudel Ira\n 125 incontro altrui, adopera in se stessa\n e fassi preda a s\u00e9 e si mart\u00edra.\n E, se la spen di far vendetta cessa\n o troppo tarda, allora questa f\u00e8ra\n piange per la vendetta non concessa.\n 130 Perch\u00e9 ben abbi la scienza intera,\n ira \u00e8 disio d'alcun mal vindicarse,\n ch'alcun riceve e vendicarlo spera.\n Onde, se alcun vedesse iniuriarse\n da un grande eccellente ovver signore,\n 135 ed ei non possa o speri d'aiutarse,\n costui non move l'ira, ma furore,\n e questo \u00e8 sol, ch\u00e9 gli manca la spene,\n ch'accende il sangue a stizza presso al core.\n E sappi ancora ch'ira solo avviene\n 140 per mal che l'uom riceve iniustamente:\n per\u00f2 apparenza di iustizia tiene.\n Per questo avvien ch'ogni irato si pente,\n quando si vede a torto aver punito\n colui che non ha colpa ed \u00e8 innocente.\n 145 Ed, ogni volta ch'alcuno \u00e8 impedito\n da quel che molto spera o far intende,\n se non \u00e8 forte, \u00e8 dall'ira assalito.\n E chiunque ha seco l'ira, parvipende\n colui che 'l turba; e, s'egli \u00e8 parvipenso,\n 150 questa \u00e8 prima cagion che d'ira accende;\n ch'ognun diventa di furore accenso,\n ch'\u00e8 dispregiato o che riceve oltraggio,\n se alto cor non spregia, quando \u00e8 offenso.--\n Poi seguitammo ins\u00fa nostro viaggio.\nCAPITOLO XI\nTrattasi della pena dell'ira.\n Insieme su andammo per la riva\n del crudel fiume; e non era ito molto,\n ch'io vidi il suo principio, onde deriva.\n Non fu giammai s\u00ed gran popul raccolto,\n 5 quanto una gente, ch'io vidi in un piano,\n d'anime nude, quando alzai il volto.\n Ognun di loro avea la spada in mano;\n tra se medesmi facean la gran guerra,\n spargendo i membri in terra e 'l sangue umano.\n 10 Ancora il cuore il pianto fuor disserra,\n quand'io ricordo i colpi delle spade\n e 'l sangue vivo, che correa per terra.\n E, quando cos\u00ed sparto in terra cade,\n trascorre a valle; e questa \u00e8 la cagione\n 15 che 'l fiume fa di tanta crudeltade.\n Da quella parte, dove il sol si pone,\n le Furie volar io vidi veloci,\n pi\u00fa che alla preda mai nessun falcone,\n con spade sanguinose e con gran voci,\n 20 con facce irate e con serpenti in testa,\n irsute in alto e tumide e feroci.\n Giammai si mosson venti a pi\u00fa tempesta,\n quando il lor re a loro apre la gabbia,\n che li tien chiusi nella gran foresta,\n 25 quanto le Furie si mosson con rabbia,\n cogli occhi accesi e toscosi serpenti,\n col fuoco in mano e con rabbiose labbia.\n E, come a suon di tromba e di stormenti\n s'accende a pi\u00fa furor la gran battaglia,\n 30 cos\u00ed facean tra s\u00e9 le crudel genti.\n Ognun perfora l'altro, smembra e taglia.\n Non viddon tanto sangue i miser prati\n dell'Affrica, di Troia e di Tessaglia.\n Tutti si son nemici e tutti irati;\n 35 e nullo colpo lor mai fere indarno,\n ch\u00e9 son, se non di spade, disarmati.\n Pensando, ancor m'impallido e descarno,\n vedendo che del sangue de' tapini\n si facea il fiume vie maggior che l'Arno.\n 40 Megera poi de' guelfi e ghibellini\n trasse le insegne fuor tutte resperse\n di sangue vivo e peli serpentini.\n E l'una contra l'altra and\u00e2ro avverse,\n e tanto sangue su quel pian si sparse,\n 45 che tutta quella terra sen coperse.\n Di questo il fiume vidi maggior farse:\n allor le Furie corson come l'oca\n dentro in quel fiume nel sangue a bagnarse.\n Ahi, cieca Italia, qual furor t'infoca\n 50 tanto che 'n te medesma ti dividi,\n onde convien che manchi e che sie poca?\n Non guardi, o miseranda, che ti guidi\n dietro a due nomi strani e falsi e vani?\n che per questo ti sfai e i tuoi uccidi?\n 55 Per questo i tuoi figliol s\u00ed come cani\n rissano insieme e fan le gran ruine,\n e i cittadini fai diventar strani.\n Non sapendo il principio ovvero 'l fine,\n l'offesa o il beneficio, prendi parte\n 60 contra li tuoi e citt\u00e1 pellegrine.\n Pel sangue effuso e per le membra sparte,\n li tuoi figlioli a' mal nati fratelli\n e te a Tebe \u00e8 degno assomigliarte;\n ch\u00e9, allora allora nati, f\u00fbn ribelli\n 65 tra se medesmi ed uccisonsi inseme,\n con dure lance e con crudi coltelli.\n Ma tu se' peggio che 'l serpentin seme,\n ch'elli, in cinque scemati, f\u00ean la pace,\n e tu la cacci quanto pi\u00fa ti sceme.\n 70 S\u00ed come alcun, che, ascoltando, tace\n e che attende e mostrasi contento,\n udendo il ver ch'agazza e che gli piace,\n cos\u00ed stett'io; e poscia pi\u00fa di cento\n corsono addosso ad un con gran corruccio\n 75 e ferito il lasci\u00f4n in gran tormento.\n Ed egli, v\u00f2lto a me:--Io son Uguccio,\n che ressi gi\u00e1 lo popul di Cortona,\n tra i quali fui come tra pesci il luccio.\n Cos\u00ed ferita \u00e8 qui la mia persona,\n 80 ch\u00e9 la iustizia, secondo l'offese,\n agli offendenti angoscia e pena dona.--\n Ahi, quanta doglia allor il cor mi prese,\n quando in tormenti vidi quel signore,\n che vivo fu magnanimo e cortese!\n 85 Per mitigare alquanto a lui 'l dolore,\n diss'io:--Cortona \u00e8 retta da Francesco,\n pregio di casa tua e gran valore.\n Da lui venuto son quaggi\u00fa di fresco;\n convien che a lui di te novelle io porti,\n 90 se mai di questo inferno quaggi\u00fa esco.\n Minerva, che m'ha qui li passi scorti,\n di senno ha dato a lui s\u00ed gran tesoro,\n c'ha i mentali occhi a tutti i casi accorti.\n Il popul cortonese ha buon ristoro\n 95 de' loro affanni e lieto vive adesso,\n subietto all'onde celestine e d'oro.--\n Pi\u00fa dir volea, se non che un appresso,\n che ben di mille colpi era feruto,\n e senza gambe e mezzo 'l capo fesso,\n 100 grid\u00f2:--Io fui da te gi\u00e1 conosciuto.--\n Perch\u00e9 pe' colpi io ben nol conoscea,\n risposi:--Al mio parer, mai t'ho veduto.--\n Ed egli a me:--So' il prence d'Alborea,\n che, quando nella vita io era vivo,\n 105 fui crudo pi\u00fa che Silla ovver Medea.\n Di sangue al grande fiume io feci un rivo\n sol delle genti nate in Catalogna,\n 'nanzi ch'io fussi della vita privo.\n Io dir\u00f2 'l vero a te e non menzogna:\n 110 ben ventimila ne mandai al sonno,\n che dester\u00e1 la tromba, che non sogna.\n --Iudice mio,--diss'io--signore e donno,\n di quel ch'io veggio in te e che mi dici,\n gli occhi la doglia testificar ponno.\n 115 Io mi ricordo de' gran benefici,\n che nella vita lieta a me donasti\n con quell'amor, qual \u00e8 tra veri amici.\n Or che li membri tuoi veggio s\u00ed guasti,\n io delle pene tue tanto mi doglio,\n 120 che con parol non posso dir che basti.\n Ma una cosa da te saper voglio:\n per mancamento di quale vertude\n tu diventasti s\u00ed senza cordoglio?\n --Quella che, alzando ed abbassando, lude,\n 125 tradimenti--rispose--e lusinghe anco\n delle person del mondo, che son Iude,\n nullo stato alto lassano esser franco;\n e quanto ha di timore alcuna cosa,\n tanto ha d'amore e di clemenza manco.\n 130 E, se la Signoria non prende a sposa\n la Virt\u00fa mansueta ovver Clemenza,\n \u00e8 a s\u00e9 ed anche altrui pericolosa;\n ch\u00e9, quando ira s'aggiunge alla potenza,\n se la vert\u00fa benigna non raffrena,\n 135 fa pi\u00fa ruina, quant'ha pi\u00fa eccellenza.\n S\u00ed come Dio, ridendo, rasserena,\n e, turbato egli, tornar\u00eda in caosse\n la terra, il cielo e ci\u00f2 che frutto mena:\n il gran Nettunno, quando irato fosse,\n 140 turbar\u00eda il mare, ed infiar\u00edansi l'onde,\n e le nereide ancor ser\u00edan commosse;\n cos\u00ed, le Signorie stando iraconde,\n quanto pi\u00fa alto son, maggior fracasso\n e maggior mal convien che ne seconde.\n 145 Innanzi che di qui tu movi il passo,\n sappi: chi spregia altrui, a s\u00e9 a rispetto,\n riputando s\u00e9 alto ed altrui basso,\n d'ira e di crudelt\u00e1 viene in effetto;\n ch\u00e9 sempre ira invilisce e parvipende,\n 150 se bene hai inteso ci\u00f2 che Palla ha detto.\n Dall'ira crudelt\u00e1 nasce e discende,\n e voglio che tu sappi da me ancora,\n ch'Ira Superbia in sua maestra prende,\n ed ogni vizio scorge ed avvalora.--\nCAPITOLO XII\nTrattasi di certi che furono viziosi nell'ira, e si passa\na discorrere del vizio della gola.\n Non medico giammai meglior se trova,\n n\u00e9 pi\u00fa esperto nella medicina\n che quel che pria l'infermit\u00e1 in s\u00e9 prova.\n Cos\u00ed mostr\u00f2 quell'anima tapina,\n 5 che della crudelt\u00e1 mi disse il vero;\n poscia soggiunse con vera dottrina:\n --Ogni animo in se stesso \u00e8 molto alt\u00e8ro,\n se estima alcuno a s\u00e9 esser fedele,\n e poscia il trova falso e non sincero.\n 10 Se non \u00e8, molto pi\u00fa si fa crudele:\n per questo, Silla dinanzi al senato\n mor\u00ed per l'ira grande e sput\u00f2 il fele;\n ch\u00e9, come a te Minerva ha gi\u00e1 'nsegnato,\n contra chi inganna e contra chi dispreggia,\n 15 agevolmente ognun diventa irato.\n Per\u00f2 colui che, lusingando, freggia\n con atti e risa e con dolci parole,\n e poscia inganna come chi dileggia,\n quel ch'\u00e8 ingannato, tanto irar si suole\n 20 e tanto incrudelir di quell'inganni,\n quanto fidava, e tanto mal gli vuole.\n Per questo posto son tra li tiranni,\n che, bench\u00e9 mostrin faccia mansueta,\n nascondon lor vendetta sotto a' panni.\n 25 Per cotal colpa io venni a questa meta:\n i traditori a me f\u00fbn la cagione\n ch'io diventai crudele e senza pi\u00e8ta.--\n Domizian mostrommi e poi Nerone\n e molti altri tiranni, e nulla staccia\n 30 ha tanti fori, quant'han lor persone.\n Forata e fessa avean tutta la faccia,\n ed avean mozzo l'uno e l'altro piede\n e dagli omeri suoi ambe le braccia.\n --Tutta questa gran turba, che tu vede,\n 35 la notte--disse--risanan le piaghe;\n poi la mattina, quando il giorno riede,\n prendon le spade ovver l'acute daghe;\n tra s\u00e9 fan la battaglia irati e fieri,\n s\u00ed ch'elli stessi a s\u00e9 d\u00e1nno le paghe.--\n 40 Io stava ad ascoltarlo volentieri,\n se non che Palla disse che n'andassi,\n per\u00f2 ch'altro vedere era mestieri.\n Per una stretta via v\u00f2lse ch'intrassi:\n sempre salendo, giunsi su in un balzo,\n 45 ove vendetta della gola fassi.\n Io dir\u00f2 'l vero, e forse parr\u00e1 falzo:\n vidi in terra utricelli su in quel giro\n ovver vessiche, quando il viso innalzo.\n E, lamentando con molto sospiro,\n 50 gridavano a gran voci:--Omei, omei!--\n come persona afflitta e che ha mart\u00edro.\n Per ammirazion fermai li piei\n dicendo:--Che vessiche o che utricelli\n son questi, che tu odi e che tu v\u00e9i?--\n 55 E poscia m'appressai a un di quelli\n e dissi:--O utricello ovver vessica,\n prego, se puoi, che tu a me favelli\n e con aperta voce tu mi dica\n chi s\u00e8te voi, innanzi che su varchi,\n 60 e quale affanno o doglia vi affatica.--\n Rispose come alcun che si rammarchi:\n --Stomachi siamo noi e molto offensi,\n stomachi siam del troppo cibi carchi;\n ch\u00e9 Dio ne fece, se tu ben il pensi,\n 65 nel corpo umano, ed anco la Natura,\n che 'l cibo a' membri per noi si dispensi.\n E l'uomo ha fatto di noi sepoltura\n a tutti gli animali: il troppo e spesso\n fa generare in noi ogni bruttura.\n 70 In noi si sepelisce arrosto e lesso;\n e, quando nostra voglia \u00e8 piena e sfasta,\n s'adduce il terzo, il quarto e 'l quinto messo.\n Con savoretti or questo or quel si tasta;\n per dilettar la gola e la sua porta,\n 75 aggrava noi gridanti:--Oim\u00e8, che basta!--\n Per\u00f2 'l mal cresce, e la vita s'accorta;\n ch\u00e9, perch\u00e9 'l cibo in noi non ben si cuoce,\n si manda a' membri crudo e non conforta.\n La quantit\u00e1 del vin, che tanto n\u00f2ce,\n 80 si corrompe pel troppo; e quinci \u00e8 'l grido\n delle incurabil doglie e di lor croce.\n L'animal bruto a Cerere e a Cupido\n non acconsente e non prende acqua o \u00e9sca,\n se no' al bisogno, ed anco non fa nido.\n 85 E, bench\u00e9 a noi ed a natura incresca,\n il miser'uomo intana dentro al petto\n ci\u00f2 ch'anda o vola o che nel mar si pesca.--\n Io stava ad ascoltar con gran diletto,\n quando Palla mi disse:--Volta il viso.--\n 90 Ond'io 'l voltai, s\u00ed come a me fu detto.\n E, risguardando ben con l'occhio fiso\n per l'aer tenebroso e quasi opaco,\n io vidi cosa, che spesso n'ho riso.\n D'un'acqua fresca vidi un ampio laco,\n 95 ed un altro di vin, ch'era s\u00ed grande,\n che maggior mai nol chieder\u00eda briaco.\n Intorno a questi eran tutte vivande,\n ed anco vini eletti v'eran tutti,\n che bevitor ovver ghiotton domande.\n 100 Di sopra appresso avean tutti que' frutti,\n che mai f\u00fbnno in giardino ovver reame\n o da Natura fusson mai produtti.\n L\u00ed stavan genti dolorose e grame,\n che per brama del pasto maggior pianti\n 105 facean che 'l tristo, in cui entr\u00f2 la fame.\n Prostrati in su li liti tutti quanti,\n quando assetiti voglion prender l'onde,\n e l'acqua e 'l vino a lor fuggon dinanti.\n In questo i pomi con le verdi fronde\n 110 si fletton giuso sotto le lor ciglia\n alle bocche affamate e sitibonde.\n L'uva s'abbassa bianca e la vermiglia,\n s\u00ed che tocca la bocca a loro o quasi;\n poi si ritr\u00e2nno, e mai nessun ne piglia.\n 115 Cos\u00ed scornati e delusi rimasi,\n mirano al cibo su le mense posto\n e dell'ottimo vin pien tutti i vasi.\n Se, per prendere il lesso ovver l'arrosto\n ovver il vino, alcun le man distende,\n 120 da sua presenza si fuggon tantosto.\n In mezzo all'acqua, che 'l laco comprende,\n Tantalo vidi stare insin al labbro;\n e mai dell'acqua ovver de' frutti prende.\n S\u00ed grande sete mai non ebbe fabbro,\n 125 n\u00e9 giovin ch'abbia la febbre terzana,\n che fa la lingua e lo palato scabbro,\n quant'egli ha sete in mezzo alla fontana,\n quando vuol bere e l'acqua da lui fugge,\n s\u00ed che sua spene sempre torna vana.\n 130 E, perch\u00e9 egli niente ne sugge,\n spesso sbaviglia e batte i denti a v\u00f2to,\n ch\u00e9 di fame e di sete si destrugge.\n Cos\u00ed privato di cibo e di poto\n sta tra li frutti con bramosa voglia\n 135 ed assetito dentro l'acqua a noto.\n --O tu, che sali s\u00fa di soglia in soglia\n --disse uno a me,--nel mondo, onde tu vieni,\n a questa, che tu vedi, \u00e8 simil doglia?\n Ch\u00e9 alcun tra gli ampi campi e cofan pieni\n 140 bramoso sta e fame non si tolle,\n ch\u00e9 l'avarizia el tien con duri freni.\n Ver \u00e8 che d\u00e1 di morso alle cipolle\n spesso spesso messere Buonagiunta,\n ricco pisan; ma non che si sattolle.--\n 145 Ancora al detto suo fe' questa giunta:\n --Tra molti cibi sta la voglia magra,\n acci\u00f2 che dal dolor non sia trapunta;\n ch\u00e9 'l mal del fianco, febbre e la podagra,\n perch\u00e9 del cibo troppo non s'imbocchi,\n 150 menaccia con la doglia acuta ed agra.\n Ma certo non fu' io di quegli sciocchi:\n io son Pier tosco, che dissi:--Addio, lume,\n ch'i' ho pi\u00fa caro il vin, che non ho gli occhi.\n Il medico dicea:--Bevi del fiume,\n 155 ch\u00e9, se tu bevi mai rinchiuso in botte,\n convien che 'n te il vedere si consume.\n Del buon liquore, che al lor padre Lotte\n fecer le figlie, io bevvi un grosso vaso,\n dicendo:--O giorno, addio, ch'io vo di notte.--\n 160 Quel poco lume, che m'era rimaso,\n ch\u00e9 l'altro m'avea tolto la taverna,\n ecclips\u00f2 tutto calando in occaso:\n per\u00f2 sto qui ed ho la sete eterna.--\nCAPITOLO XIII\nDelle specie e rami discendenti dal vizio della gola.\n Io stava ad ammirar cogli occhi attenti,\n quando Palla mi disse:--Ch\u00e9 non miri\n del vizio della gola i gran tormenti?--\n Allor mirai; e giammai li mart\u00edri\n 5 dir non potrei con questo parlar brieve,\n a' quai conduce Bacco, e li sospiri,\n non per colpa del vin che si riceve\n (che utile \u00e8 da s\u00e9 e ben conforta,\n se temperatamente altrui lo beve),\n 10 ma perch\u00e9 la fortezza, ch'\u00e8 gi\u00e1 morta,\n par che susciti alquanto nel presente:\n per\u00f2 la gente matta e non accorta\n a questo mira; ed anco che splendente\n entra e soave, e non sguardan li matti\n 15 che 'l troppo morde, poi, pi\u00fa che serpente.\n Quindi son gli occhi rossi e i nervi attratti,\n il furor cieco, rabido e rubesto,\n e di scimia canini e porcini atti.\n Quando Minerva m'ebbe detto questo,\n 20 vidi una donna tutta brutta ed unta,\n e col volto lascivo e disonesto,\n ch'avea la vesta stracciata e consunta,\n e di cane e di porco avea due grugni\n e lingua a spada armata su la punta\n 25 e le man fure ed artigliose l'ugni,\n e, come fa 'l leon, quando divora,\n mangiava il pasto, ch'avea tra li pugni.\n --O tu, che qui contempli la signora\n --disse a me un,--che regge questo loco,\n 30 sobvieni al gran dolor, il qual m'accora.\n Alla mia lingua, ch'arde come foco,\n un poco d'acqua con la man mi dona,\n che tanto incendio in lei rifreddi un poco.--\n Ed io fra me:--Quest'\u00e8 quella persona,\n 35 che non sobvenne a Lazzaro mend\u00edco,\n s\u00ed come Luca nel Vagniel ragiona.--\n Ed io risposi a lui:--Tu sai, amico,\n che Abraam, a cui chiedesti l'acque,\n rispose a te, s\u00ed come anch'io ti dico:\n 40 --Lazzaro gi\u00e1 alla tua porta giacque\n infermo e nudo, e chiedeva mercede;\n e di lui mai in te piat\u00e1 non nacque.\n Dio vuol che chi abbund\u00f2 e non ne diede\n al povero di Dio, quando ne chiese,\n 45 egli non n'abbia qui, quando ne chiede.--\n Ahi, quanto si scorn\u00f2, quando m'intese!\n E dicea seco com'uom che borbotta:\n --Io mi credea che fussi pi\u00fa cortese.--\n Ed io lo addomandai e dissi allotta:\n 50 --Perch\u00e9 la lingua qui ha maggior pena\n che gli altri membri, e pi\u00fa \u00e8 incesa e cotta?--\n Rispose:--Nella mensa lauta e piena\n Cerere e Bacco fan le teste calde;\n la lingua allor nel van parlar si sfrena\n 55 con motti lerci e con parol ribalde;\n e, mentre il buon Falerno i cor fa lieti,\n balestra le iattanze ardite e balde.\n Allor s'apre il serrame alli secreti:\n sempre mal tace la mensa satolla,\n 60 se i mangiator virt\u00fa non fa star cheti.\n Quivi si sparla che fama si tolla,\n quivi la lingua d\u00e1 le gran percosse\n e strazia l'altrui vita, rode e ingolla.\n Per questo noi abbiam le lingue rosse\n 65 d'ardente foco e abbiamole puntute,\n come di spada ognuna armata fosse.\n Se vuoi saper dell'anime perdute,\n che stanno qui pel vizio della gola,\n che solo in general forse hai vedute,\n 70 qui stanno li scolar di monna Ciuola;\n tra' quali \u00e8 Ciaffo, e fu di Camoll\u00eda,\n che pi\u00fa degli altri usava quella scola.\n Egli anche dice che si bever\u00eda\n del vino il laco, quando egli s'approccia,\n 75 se non che tosto se ne fugge via;\n e dice che, a la bocca se la doccia\n di Fontebranda avesse e fusse Greco,\n la bever\u00eda sin all'ultima goccia.\n E molti altri compagni son qui meco,\n 80 tra' quali \u00e8 la brigata spendereccia\n che fe' del molto avere il grande spreco.\n Chi spreca, quando egli ha la bionda treccia,\n degno \u00e8 che, quando giunge al capo cano,\n venga di povert\u00e1 sino alla feccia.\n 85 Da Leonina infino a Laterano\n stanno anche meco mille ghiottoncelli,\n e dicono che gli uomin di quel piano\n prendon per paternostri i fegatelli,\n l'aman per tempo in cambio della Chiesa,\n 90 corrono alle taverne ed ai bordelli.--\n Io l'ascoltava colla mente attesa,\n quando Palla mi fe' del partir cenno;\n onde n'andai per la via da noi presa.\n Cinquanta passi e men da noi si fenno,\n 95 ch'ella mi disse per farmi ben dotto:\n --Contra golosit\u00e1 fa' ch'abbi senno.\n Sappi che gola \u00e8 appetito ghiotto\n d'aver diletto in pasto e s\u00ed bramoso,\n che vince la ragion e tienla sotto.\n 100 S'\u00e8 naturale, non \u00e8 mai vizioso;\n e vizioso si fa, se sfrena tanto,\n che a Dio ed a ragion vada a ritroso.\n Questo appetito pu\u00f2 sfrenar nel quanto:\n in troppo prender pasto, in troppo stare\n 105 a mensa, in troppi cibi, in buffe e canto.\n Nel quale ancora questo pu\u00f2 peccare,\n quando non fame l'appetito sveglia\n ovver bisogno, ma sol dilettare.\n Ahi, come \u00e8 dur s\u00ed ben guidar la breglia\n 110 tra 'l quanto e 'l qual nel pasto, ch'uom non cada,\n se molta vert\u00fa attenta non ci veglia!\n Ch\u00e9 questo passo ognun convien che guada\n del prender pasto; ma servar misura\n \u00e8 forte, se vert\u00fa ben non vi bada.\n 115 Quand'altri sfrena s\u00ed, che troppo cura,\n perch\u00e9 con dilicanza s'apparecchi,\n costui pecca nel qual ed epicura.\n Non in un modo i cibi, ma in parecchi,\n non per bisogno 'i cuoce e s'affatica:\n 120 per\u00f2 Natura fa che raro invecchi.\n Ahi, gola miseranda! ch\u00e9 la mica\n col favor della fame ha pi\u00fa diletto\n che le molte vivande, e me' notr\u00edca.\n Mira colui che quivi sta a rimpetto.--\n 125 Ed io sguardai, e ben due passi e piue\n aveva il collo lungo sopra il petto.\n --Colui desider\u00f2 'l collo di grue\n --disse a me Palla,--a dar pi\u00fa dilettanza\n alla sua gola, il cibo andando ingiue.\n 130 Or l'ha s\u00ed lungo, ch'ogni struzzo avanza;\n e la sua gola sempre di sete arde,\n n\u00e9 mai di poter bere egli ha speranza.\n Nel tempo ancor si pecca, se ben guarde:\n in questo peccan le persone stolte,\n 135 ch'al pasto sempre lor par esser tarde.\n Non due fiate il d\u00ed, ma vieppi\u00fa volte\n il poto e 'l cibo da questi si prende,\n come le bestie fan, che son disciolte.\n Nel modo d'usar cibi anco s'offende,\n 140 ch'alcuno \u00e8 scostumato, alcun ghiottone,\n alcun le braccia su la mensa stende.\n Anche \u00e8 vorace alcun come lione;\n ed alcun su nel cibo soffia il fiato,\n alcun per fretta va incontra 'l boccone.--\n 145 Quando Minerva questo ebbe parlato,\n quell'Epicur col collo di cicogna\n rispose e disse con lungo palato:\n --Ancor detto non t'ha ci\u00f2 che bisogna,\n ch\u00e9 non t'ha detto le cinque figliuole,\n 150 perch\u00e9 nomarle forse si vergogna.\n La prima figlia, che saper si v\u00f2le,\n \u00e8 Immondizia del cibo, che guasto\n corromper in lo stomaco si suole;\n ch\u00e9, quando ha troppo vin con troppo pasto,\n 155 perch\u00e9 cuocer nol pu\u00f2, fuor per la bocca\n corrotto esala e fa al naso contrasto,\n e sopra erutta e sotto quello scocca,\n il qual balestra come traditore,\n che apposta alle calcagne, e 'l naso tocca.\n 160 La seconda figliola \u00e8 vie peggiore,\n Ebetudo, di mente inferma e mesta,\n che toglie all'intelletto ogni valore.\n La terza ha nome brutta e trista Festa,\n di buffonie e di giuochi; e questa \u00e8 quella\n 165 che al Batista gi\u00e1 tagli\u00f2 la testa.\n La quarta \u00e8 quella che troppo favella.\n La quinta \u00e8 truffe ed opere scurrile:\n questa in la lingua porta la fiammella,\n e nullo \u00e8 vizio pi\u00fa che questo vile.--\nCAPITOLO XIV\nDella lussuria e delle sue specie.\n Su nell'ultima piaggia io era giunto;\n e, quando per la strada io movea 'l passo,\n scontrai Cupido, il qual m'avea trapunto,\n non per\u00f2 mai ch'e' mi gittasse al basso:\n 5 timor di Dio e vergogna del mondo\n mi tennon ritto come quadro sasso.\n Trovai adunque lui vaghetto e biondo,\n de cui belt\u00e1 negli altri versi scrissi,\n che mai s\u00ed bello fu, n\u00e9 s\u00ed giocondo.\n 10 Ma ora veggio ben che 'l falso dissi;\n ch'egli \u00e8 crudele e brutto e pien di tosco,\n chi ben rimira lui cogli occhi fissi.\n Quando mi vide, egli fugg\u00ed in un bosco,\n ch'era ivi appresso, ove nulle eran frondi;\n 15 ma era smorto, secco e tutto fosco.\n --Perch\u00e9, Cupido, da me ti nascondi?\n --chiamava io forte, dietro seguitando;--\n perch\u00e9 pur fuggi, perch\u00e9 non rispondi?\n Io son colui che teco venni, quando\n 20 le ninfe mi mostrasti e la via dura,\n e sempre stetti presto al tuo comando.\n Demostra la tua faccia bella e pura.--\n Allor voltossi, ed era s\u00ed travolto,\n che, quando el vidi, mi mise paura.\n 25 Egli era smorto, e gli occhi brutti e 'l volto;\n e su nel capo nero avea due corni,\n e gli atti avea pazzeschi come stolto.\n Allor fuggio da me com'uom che scorni,\n coll'arco in mano e cogli oscuri dardi;\n 30 n\u00e9 credo che pi\u00fa a me giammai ritorni.\n La dea a me:--Se questo Amor riguardi,\n egli \u00e8 cosa infernal, e chi lo scuopre\n conosce i modi suoi falsi e bugiardi.\n Chiamato \u00e8 'l forte dio nel mondo sopre\n 35 da quegli stolti, che sol guardan f\u00f2re\n all'apparenza, che spesso il ver copre.\n Ma, perch\u00e9 sappi ben che cosa \u00e8 amore,\n sappi che amore \u00e8 presente diletto\n ovver futur piacer, che spera il core.\n 40 E questo puote aver triplice obietto:\n primo \u00e8 l'utilit\u00e1, qual se si toglie,\n manca l'amor, che all'util facea aspetto.\n L'altro \u00e8 amor vero, a cui le verdi foglie\n non secca tempo o loco, e che sta fermo\n 45 ad ogni caso, che Fortuna voglie;\n e non \u00e8 losinghiero in atti o sermo\n e coll'amico sta costante e vivo,\n quando \u00e8 in avversit\u00e1 povero o infermo.\n E questo vero amore, il qual descrivo,\n 50 si chiama virtuoso ovver onesto,\n tesoro alli mortal celeste e divo.\n Il terzo amor, ch'io dico dopo questo,\n \u00abpiacer concupiscibile\u00bb si chiama,\n ch\u00e9 sol da corporal desio \u00e8 desto.\n 55 E questo \u00e8 il folle amore, il qual tant'ama,\n quanto dura il diletto e la bellezza,\n e poi si secca in lui la verde rama.\n Questo \u00e8 Cupido, di cui gran fortezza\n racconta il mondo e ch'a nullo perdona\n 60 e che infiamma li dii e la vecchiezza;\n e che gi\u00e1 fer\u00ed Febo si ragiona,\n quando la bella Dafne si fe' alloro,\n che imperatori e poeti incorona;\n e ch'egli porta le saette d'oro,\n 65 e Pluto innamor\u00f2, quando gli piacque,\n e Iove fe' mutar in cigno e toro.\n Di questo anco si dice ch'egli nacque\n di quella che fu data a dio Vulcano,\n nata de' membri osceni in mezzo all'acque.\n 70 E dal ver, forse, questo non \u00e8 strano;\n ch\u00e9 di Venus, cio\u00e8 concupiscenza,\n nasce Amor cieco, fanciullesco e vano;\n e da quel nasce poi la rea semenza\n di molti vizi, a' quai lussuria induce.\n 75 E, perch\u00e9 n'abbi perfetta scienza,\n sappi che la Natura e l'alto Duce\n ad alcun fin perfetto ha ordinato\n ogni appetito che 'n voi si produce.\n E, se da quel buon fin \u00e8 disviato,\n 80 quanto quel fine ha pi\u00fa perfezione,\n chi erra in quello fa maggior peccato.\n Tra tutte cose uman, che sonno buone,\n la meglio \u00e8 conservar l'umana spece,\n prima nell'esser, poi in coniunzione.\n 85 Ed a questi duo fin l'alto Dio fece\n l'appetito lascivo: a questo solo,\n ed a null'altro fine usarlo lece.\n Di questo al padre nasce il bel figliolo\n e tutta prole umana, il degno frutto\n 90 fatto a laudare Dio nell'alto polo.\n E, se questo buon fin fusse distrutto,\n mancar\u00eda l'uomo, amore e parentele\n e stato di vert\u00fa verr\u00eda men tutto.\n Adunque quel peccato \u00e8 pi\u00fa crudele,\n 95 dal qual questo buon fine \u00e8 impedito;\n e questa specie a Dio pi\u00fa \u00e8 infedele.\n Questo \u00e8 il vizio nefando subdomito,\n pien di vergogna detestando scelo\n e strazio umano e infernale appetito,\n 100 pel qual il foco piobbe gi\u00e1 da cielo\n infino a terra e aprilla ed engollosse\n insieme il biondo col canuto pelo,\n l'un ch'era stato, e l'altro che non fosse\n corrotto tanto. Ahi, smisurato eccesso,\n 105 che Dio facesti che tant'ira mosse!\n Per questo in terra fu il diluvio messo,\n quando Dio vide che malizia tanto\n avea corrotto l'uno e l'altro sesso.\n E, per disfar cotanto infetta pianta,\n 110 No\u00e8 serv\u00f2 e i figli dentro all'arca,\n sola nel mondo la progenie santa.\n Natura d'esta offesa si rammarca\n innanti a Dio e priega ch'egli scocchi\n le sue saette quel sommo Monarca.\n 115 Dell'altro vizio omai convien ch'io tocchi,\n ch'\u00e8 grosso come trave, e quasi stecca\n vien reputato da' miseri sciocchi.\n Dicon che uomo e femmina non pecca,\n consentendosi insieme, essendo sciolti,\n 120 se l'un coll'altro fornicando mecca.\n E, perch\u00e9 in questo error son ciechi molti,\n tanto \u00e8 pi\u00fa grave il mal, se ben discerno,\n quanto nel suo error ne tien pi\u00fa involti.\n Sappi che ha ordinato Dio eterno\n 125 che tutti gli animali, i cui figlioli\n richiedon padre e madre e suo governo,\n che insieme s'apparecchino duo soli,\n (o reptile che sia o quadrup\u00e9de,\n o che in acqua ovvero in aere voli),\n 130 e stiano uniti insieme in questa fede,\n ch\u00e9, quando avvien che alcun di loro si parte,\n s'abbandonan li figli, s'e' non riede.\n E, se il padre e la madre ognun ci ha parte\n gi\u00e1 nella nata ovver nascenda prole,\n 135 pensa se pecca qual di loro si parte;\n ch\u00e9, se l'un lassa l'altro, quando vuole,\n chi il patrimonio e senno d\u00e1 alli figli?\n chi guarda e d\u00e1 la dote alle figliole?\n Per\u00f2 determinonno i gran consigli\n 140 della ragione e delli saggi antichi\n che sien le mogli e sien padrifamigli.\n Questa la casa e quel di fuor notr\u00edchi\n i maggior fatti, ed insieme coniunti\n nel matrimonio fedeli e pudichi.\n 145 Del terzo vizio se vuoi ch'io racconti,\n \u00e8 l'adulterio; e pi\u00fa pericoloso\n nullo \u00e8 nel mondo e che pi\u00fa altri adonti.\n Quando la moglie si tolle allo sposo,\n l'animo mite rabido diventa:\n 150 tanto al consorzio uman questo \u00e8 noioso.\n Per questo Troia fu deserta e spenta,\n e la real progenie fu disfatta\n in Roma, che di Troia fu sementa.\n Questo peccato in ciel gran colpa accatta;\n 155 ch\u00e9 avviene spesso che 'l marito pasce\n gli altrui bastardi e la moglie gli allatta.\n E, quando cresce ed \u00e8 fuor delle fasce,\n avvien che alcuna al fratel si marita\n e forse al proprio padre, del qual nasce.\n 160 Perch\u00e9 la moglie \u00e8 col marito unita\n in una carne in fede ed amor puro\n per tutto il tempo che dura lor vita,\n per\u00f2 chi cerca averla, \u00e8 ladro e furo;\n e, se la donna ad adulterio piega,\n 165 commette anco peccato grave e duro,\n ch'\u00e8 traditrice, fuia e sacril\u00e9ga,\n ch'al matrimonio e fede fa lo 'nganno\n ed anco al sacramento che la lega;\n e dell'altrui sudore e dell'affanno\n 170 spesso nutr\u00edca li figlioli altrui,\n onde \u00e8 tenuta a soddisfar il danno\n al marito, che crede che sian sui.--\nCAPITOLO XV\nTrattasi pi\u00fa in particolare delle specie\ne de' rami discendenti della lussuria.\n --Di questa brutta porca di Lussuria,\n bench'abbia in s\u00e9 materia copiosa,\n conviene ch'io ne parli con penuria.\n Da che Natura e Dio la tien nascosa,\n 5 non puote alcun giammai senza vergogna\n parlar di s\u00ed nefanda e brutta cosa.\n E forse el fece Dio, perch\u00e9 bisogna\n che l'Innocenza pura non impari\n la puzza occulta di questa carogna.\n 10 Ma ora li maggiori han fatto chiari\n s\u00ed li minori e dotti anco in quell'arte,\n che pi\u00fa che i mastri sanno gli scolari.\n Di questo vizio dir\u00f2 d'ogni parte\n in general, ch\u00e9, se tutto distinto\n 15 volessi dire, impirei troppe carte.\n Il quarto membro (e poi dir\u00f2 del quinto)\n \u00e8 l'atto, che fe' Pasife col toro,\n madre del mostro chiuso in Laberinto.\n Nel quinto pecca ciascun di coloro,\n 20 che, losingando ovver rapendo, tolle\n la vergin 'nanti al suo marital toro.\n E, perch\u00e9 d'esto mal ardito e folle\n il futur matrimonio \u00e8 impedito,\n per\u00f2 l'antica e nova Legge volle\n 25 che quello strupador gli anelli il dito\n e facciagli la dote, o che la testa\n perda, se quella nol vuol per marito.\n L'altro \u00e8 chi stupra, losinga o molesta\n le vergin sacre del santo collegio,\n 30 che fu gi\u00e1 in Roma nel tempio di Vesta.\n E questo male \u00e8 detto \u00absacrilegio\u00bb;\n ch\u00e9 quella cosa, ch'\u00e8 dicata a Dio,\n s'imbrutta o sforza e trattase in dispregio.\n E l'altro male ancor nefando e rio\n 35 \u00e8 con parenti, ed \u00e8 chiamato \u00abincesto\u00bb,\n ch\u00e9 macula l'amor onesto e pio.--\n Quand'io diceva:--Quanto mal \u00e8 questo!--\n vedemmo dalla lunga Citarea;\n ond'ella and\u00f2 pi\u00fa ratto ed io pi\u00fa presto.\n 40 Dimonio ella mi parve e none dea,\n quando la vidi, e non pareva bella\n com'era, quando apparve al iusto Enea.\n Di fuor adorna avea la sua gonnella;\n e, quando la scoprii, s\u00ed brutta fiera\n 45 mai vista fu s\u00ed come pareva ella.\n Minerva a me:--Questa puttesca c\u00e8ra\n nel mondo \u00e8 bella solo in apparenza,\n che fa la cosa falsa parer vera.\n E qui rassembra la Concupiscenza;\n 50 e per\u00f2 'l nome del pianeto piglia,\n che sopra quella parte ha pi\u00fa influenza.\n Cupido \u00e8 il primo mostro, ch'ella figlia,\n il qual \u00e8 fanciullesco, stolto e cieco\n in quella parte, che nell'uom consiglia.\n 55 Egli \u00e8 che verso Dio fece esser bieco\n gi\u00e1 Salamone, ed Aristotil prese\n s\u00ed, che fu cavalcato come pieco.\n E, bench\u00e9 paia saggio nel palese,\n Cupido nel secreto e luoghi occolti\n 60 \u00e8 come un pazzo e fa le grandi offese.\n Egli esser fa li saggi matti e stolti,\n e fanciulleschi quei dell'et\u00e1 vecchia\n negli atti turpi, lascivi e disciolti.\n Quest'\u00e8 che fa che l'antica si specchia\n 65 la faccia guizza e fa le trecce bionde\n del pelo altrui, che si pone all'orecchia.\n L'altro \u00e8 turpe parlar parole immonde.\n Ahi, quanto \u00e8 ragionevol che si taccia\n quel che Natura occulta e che nasconde!\n 70 Il turpe eloquio a poco a poco caccia\n da s\u00e9 vergogna, il qual \u00e8 primo freno,\n ch'\u00e8 posto all'uom che peccato non faccia.\n E 'l parlar brutto e turpe ovver osceno\n dimostra il core; ch\u00e9 quel vaso versa\n 75 sempre il liquor, del qual \u00e8 dentro pieno.\n L'altra figliuola iniqua e pi\u00fa perversa\n \u00e8 l'odio di Dio, come si legge:\n tanto Lussuria fa la mente avversa!\n Non che quel sommo Ben, che tutto regge,\n 80 mai odiar si possa per se stesso;\n ma odiare si p\u00f2 nella sua legge.\n Ad ogni vizio, che 'n mal far \u00e8 messo,\n sempre ogni impedimento \u00e8 odioso,\n ma pi\u00fa alla lussuria per eccesso;\n 85 per\u00f2 che l'atto suo \u00e8 furioso,\n e quanto pi\u00fa il disio corre fervente,\n tanto lo 'mpedimento \u00e8 pi\u00fa noioso.--\n Poscia nel fango vidi una gran gente\n coll'arco in mano e colle dur saette;\n 90 e ferivansi insieme crudelmente.\n E, perch\u00e9 scudo mai niun si mette,\n n\u00e9 arme indosso, mai non tranno in fallo,\n quantunque volte l'un l'altro saette.\n Ed un grid\u00f2:--Io son Sardanapallo\n 95 lussurioso, che nel gran reame\n non vissi come re, ma come stallo,\n vestito come donna tra le dame,\n seguendo della carne ogni talento:\n or posto son tra 'l fango e tra 'l letame.\n 100 Vivo ebbi l'arra, ed ora ho 'l pagamento;\n ch'ogni peccato la pena riceve\n prima nel mondo e poi qui ha 'l tormento.\n Vero \u00e8 che su nel mondo \u00e8 ratto e brieve,\n e qui ogni dolor dura in eterno\n 105 ed anco \u00e8 pi\u00fa intenso e vieppi\u00fa grieve,\n per\u00f2 che 'l mal, il qual \u00e8 sempiterno,\n rispetto a quella doglia, ch'\u00e8 finita,\n nulla ha proporzion, s'io ben discerno.\n E sappi ben che su la mortal vita\n 110 ha l'uom della lussuria molte pene,\n se la ragion e vert\u00fa non l'aita.\n La prima \u00e8 trista e furiosa spene:\n quant'\u00e8 maggior l'amore, il quale aspetta,\n tanto, aspettando, pi\u00fa pena sostiene.\n 115 L'altra \u00e8 la gelosia sempre suspetta:\n ci\u00f2, che timor possiede o gelosia,\n assai tormenta pi\u00fa che non diletta.\n Ogni amadore ed ogni signoria\n vuol esser sola ed odia ed inimica\n 120 ogni consorte ed ogni compagnia.\n L'altra \u00e8 il periglio, affanno e la fatica.\n Mai vil gaglioffo chiese il suo bisogno,\n quanto amor chiede la cosa impudica;\n e poscia, avuto, passa come un sogno\n 125 quel ch'era chiesto con tanto fervore\n e con parol, di quali ancor vergogno.\n E va languendo il misero amadore,\n chiedendo aiuto alli suoi gran mart\u00edri,\n e dice, se non l'ha, che tosto more.\n 130 Cogli occhi lagrimosi e con sospiri\n dietro alla 'manza va il misero amante,\n per grazia a lei chiedendo che lui miri.\n E quel, che acquista con fatiche tante\n e con le spese, ratto si dilegua\n 135 s\u00ed come un'ombra che fugge davante.\n E, perch\u00e9 amore i duo amanti adegua,\n abbassa i grandi ed, a vilt\u00e1 condutti,\n convien che altra colpa ne consegua;\n ch\u00e9 si fan femminili e fansi putti,\n 140 mostrando amore; e di questo poi nasce\n la bestialit\u00e1 e gli atti brutti.\n E, perch\u00e9 Venus si notr\u00edca e pasce\n di Bacco e Cerer, ch'ogni virt\u00fa enerva\n e fa l'infermit\u00e1 con le sue ambasce,\n 145 il corpo infermo e la mente fa serva\n e f\u00e1lla oscura, e quella parte toglie,\n ove si posa e risplende Minerva.\n In questa mota qui tra queste troglie\n stan li nefandi e vili ermafroditi,\n 150 che, essendo maschi, altrui si fecen moglie.\n E i lor mariti ancor qui son puniti\n e posti meco qui tra queste mote,\n e tutti siam di duri archi feriti;\n ch\u00e9 questa \u00e8 iusta pena, se ben note,\n 155 ch\u00e9 quel ch'\u00e8 amato dall'amor lascivo\n \u00e8 l'arco e la saetta, che percuote\n il cor del tristo amante, quando \u00e8 vivo;\n e l'atto consumato \u00e8 'l brutto fango,\n il qual infastidisce e viene a schivo:\n 160 ed io qui questo in sempiterno piango.--\n DEL REGNO DELLE VIRT\u00da\nCAPITOLO I\nDel paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero della scienza\ndel bene e del male.\n Lasciata addietro avea la prava terra\n e delli vizi la maligna schiera,\n e trapassata avea tutta lor guerra.\n E sopra l'orizzonte gi\u00e1 'l sole era\n 5 ben quattro gradi, in quella parte posto,\n che li fa state e qui fa primavera;\n quando, per poter giungere pi\u00fa tosto,\n andava dietro alla scorta benegna,\n la qual a seguitar m'era disposto,\n 10 Detto m'avea che nullo \u00e8 che pervegna\n ad alto fine ovver a nobil cosa,\n se non chi s'affatica e chi s'ingegna.\n Ond'io per quella via s\u00ed faticosa\n andava in fretta come il pellegrino,\n 15 che, 'nsin che giunge al termine, non posa.\n Quando fui presso al fin di quel cammino,\n il paradiso vidi ch'\u00e8 terrestro,\n il qual fe' Dio per singular giardino.\n E, s'egli \u00e8 bello, pensisi il Maestro,\n 20 il qual el fece e posel dove il sole\n ha pi\u00fa vert\u00fa e 'l cielo a lato destro.\n L\u00ed era un pian di rose e di viole\n e d'altri fiori e di maggior fragranza\n che qui, dove siam noi, esser non suole;\n 25 ch\u00e9 ogni frutto, quanto ha pi\u00fa distanza\n da quello loco, tanto ha vert\u00fa meno,\n e quanto pi\u00fa s'appressa, in virt\u00fa avanza.\n Tra quelli fiori e l'aere sereno,\n e tra le melodie di quel piano\n 30 io trapassai di dolci canti pieno.\n Da quel giardino er'io poco lontano,\n ch'io vidi un serafino in su la porta,\n ch'\u00e8 posto l\u00ed da Dio per guardiano,\n il qual un gran coltel nella man porta;\n 35 e l'uno e l'altro \u00e8 di color di foco,\n talch\u00e9 lor fiamma al sol non parea smorta.\n Quando appressato a lui mi fui un poco,\n egli mi disse, la spada vibrando:\n --Guarda come trapassi in questo loco,\n 40 dal qual per colpa fu l'uom messo in bando,\n non solamente per gustar del pomo,\n ma perch'e' trapass\u00f2 di Dio il comando.--\n Minerva a me insegnato avea siccomo\n l'intrata da quell'angelo si chiede,\n 45 senza il qual modo non v'entra mai uomo.\n In terra mi prostrai da capo a piede,\n ed ivi in croce spasi le mie braccia\n come nel legno Quel che a noi si diede.\n E dissi:--O angel, prego ch'e' ti piaccia,\n 50 per amor del Signor, ch'\u00e8 s\u00ed cortese,\n che nullo, che a lui torni, mai discaccia,\n che l\u00ed mi lassi entrar nel bel paese.\n Tu sai ch'Egli al ladron su nella croce\n simile grazia fe', quando gliel chiese.--\n 55 L'angel allora, al suon di questa voce,\n la porta apr\u00edo e diedene l'entrata,\n levando via il coltel tanto feroce.\n Come buona speranza il cor dilata\n d'allegrezza, cotal a me quell'orto\n 60 dava letizia e la contrada grata,\n ove null'uom giammai sarebbe morto\n senza sua voglia e non gi\u00e1 per natura,\n ch\u00e9 sol per grazia ven\u00eda tal conforto;\n ch\u00e9 nulla cosa, c'ha in s\u00e9 mistura\n 65 di qualit\u00e1 ed opposita azione,\n di venir men puote esser mai secura.\n Mentr'io ascoltava la dolce canzone\n degli uccelletti, ed io vidi venire\n due venerande ed antiche persone.\n 70 Il meno antico a me cominci\u00f2 a dire:\n --Come tu in questo luogo se' intrato?\n con qual potenzia vien'? con qual ardire?--\n Minerva allor rispose:--Io l'ho menato;\n l'agnol di Dio a lui la porta aperse,\n 75 quando umilmente da lui fu pregato.\n Gi\u00fa del centro d'inferno, ove s'immerse,\n colle mie mani io da primaio el trassi,\n e feci s\u00ed, ch'in quel loco non perse.\n Palla son io, che gli ho guidato i passi\n 80 per mezzo a' vizi e tra le fiere crude\n insino a voi, ai qual vuol Dio che 'l lassi,\n ch\u00e9 demostriate a lui ogni vertude:\n quass\u00fa venute sonno e quass\u00fa stanno,\n quando fugg\u00eer del mondo, ch'\u00e8 palude.\n 85 Tornar io voglio al mio beato scanno:\n a questi lascio te, dolce figliuolo:\n costor inverso il ciel ti guidaranno.--\n Cos\u00ed dicendo, in alto prese il volo;\n ed io, piangendo, dissi:--O dolce Palla,\n 90 perch\u00e9 di te cos\u00ed mi lasci solo?\n Dietro alli passi tuoi ed alla spalla\n lasciato ho 'l mondo, o scorta e mia auriga,\n il qual, rispetto a questo, \u00e8 una stalla.\n E sempre, andando ins\u00fa con gran fatiga,\n 95 le tue vestige, o donna, seguitai,\n tra 'l mezzo delli mostri e di lor briga.\n Ora, che tu cos\u00ed lasciato m'hai,\n per tutto l'universo, che ti trovi,\n io ander\u00f2 cercando sempremai.--\n 100 Un degli antichi padri ed a me novi,\n disse:--Non \u00e8 bisogno tanto pianto,\n ma con noi insieme omai i passi movi\n per questo paradiso in ogni canto.\n Enoc \u00e8 questo primo, ed io Elia,\n 105 quai Dio ne pose in questo loco santo.\n Delle vert\u00fa ti mostrerem la via.--\n Allor pel prato di que' fiori belli\n una con lor mi mossi in compagnia,\n tra verzillanti foglie ed arbuscelli\n 110 e tra le melodie dolci e gioconde,\n ch'ivi faceano inusitati uccelli,\n quando trovai un arbor senza fronde,\n ch'era di spoglio di serpente avvolto,\n s\u00ed come un'edra ch'un ramo circonde.\n 115 Lo spoglio avea di forma umana il volto;\n e l'arbore di spine era pien tutto\n intorno a s\u00e9, siccome luogo incolto.\n Ogni altro legno ivi era pien di frutto,\n e di be' fiori e frondi fresco e bello;\n 120 e questo solo era secco e destrutto,\n e su non vi cantava alcun uccello.\n E, non sapendo perch\u00e9 questo fusse,\n il padre Enoc addomandai di quello.\n --L'arbor profano \u00e8 questo, che produsse\n 125 --rispose Enoc--il frutto del suo ramo,\n col qual il drago il primo uomo sedusse,\n quand'egli ingann\u00f2 Eva e poscia Adamo\n a non servare a Dio obbedienza\n col pomo dolce, ov'era il mortal amo.\n 130 \u00abLegno\u00bb chiamato fu \u00abdella scienza\n del bene e mal\u00bb; che \u00e8 prima solo bene,\n poscia del mal il ben ha sperienza.\n Le pi\u00fa fiate al miser uomo avviene\n ch'e' non conosce il ben, se non in quella\n 135 che n'\u00e8 privato o c'ha contrarie pene.--\n Poscia trovammo la pianta pi\u00fa bella\n del paradiso, la pianta felice,\n che conserva la vita e rinovella.\n Su dentro al cielo avea la sua radice\n 140 e gi\u00fa inverso terra i rami spande,\n ove era un canto, che qui non si dice.\n Era la cima lata e tanto grande,\n che pi\u00fa, al mio parer, che duo gran miglia\n era dall'una all'altra delle bande.\n 145 --Questa gran pianta di gran maraviglia\n --disse a me Enoc--\u00e8 l'arbore vitale,\n che vita dona a chi suoi frutti piglia.\n Fitto nel cielo sta il suo pedale;\n indi vien la vert\u00fa, che gli d\u00e1 Dio,\n 150 che possa l'uomo rendere immortale.\n Un ramoscello dall'angelo pio\n n'ebbe gi\u00e1 Set e piantollo in la fossa\n del padre Adamo suo, quando mor\u00edo.\n E quello crebbe e f\u00e9ssi pianta grossa,\n 155 e poscia posta fu nella piscina,\n che sol di sanar uno ebbe la possa;\n ch\u00e9 profetato avea Saba regina,\n che su dovea morir quel gran Signore,\n che far\u00eda nuova legge e pi\u00fa divina.\n 160 Allor il legno di tanto valore\n da Salamon fu di terra coperto,\n insin ch'a far suo frutto apparse f\u00f2re;\n ch\u00e9, quando piacque a Dio, venne su ad erto,\n e di quel legno la croce si fece,\n 165 ove l'Agnel di Dio per noi fu offerto,\n quando su 'n quella il prezzo satisfece.--\nCAPITOLO II\nDella condizione del paradiso terrestre\ne de' fiumi, che quindi escono.\n E poscia:--Flecte ramos, arbor alta.\n --Elia e Enoc insieme alto cant\u00e2ro,\n come chi in coro la sua voce esalta.\n Alla lor prece l'arbore preclaro\n 5 gi\u00fa s'abbass\u00f2, ed e' colson le fronde,\n che son s\u00ed dolci, che vince ogni amaro,\n dicendo a me:--Del frutto, che nasconde\n quest'arbor dentro a s\u00e9, nullo ne coglie\n salvo che l'alme felici e ioconde.\n 10 E poi mi f\u00ean gustar di quelle foglie,\n che porgono alla 'ngi\u00fa que' santi rami,\n le quai mi content\u00f4n tutte mie voglie.\n O cupidigia, che tanto t'affami\n e che quanto pi\u00fa mangi e pasto hai preso,\n 15 tanto apri pi\u00fa la bocca e pi\u00fa ne brami,\n se gustassi del legno al ciel disteso,\n ratto faresti come san Matteo,\n quando il nostro Signor egli ebbe inteso:\n che lasci\u00f2 la pecunia e 'l teloneo,\n 20 e s\u00ed gli piacque, ch'a rispetto a quello\n ogni altro cibo gli era amaro e reo.--\n Quindi n'andammo in un boschetto bello,\n dove Adamo fugg\u00ed e steo nascosto,\n quando mangi\u00f2 del cibo amaro e fello,\n 25 allor che non sostenne un sol fren posto,\n un sol comando, il quale Dio gli diede,\n ma fu ardito a romperlo s\u00ed tosto.\n Ei si nascose. Oh matto chiunque crede\n fuggir ovver celarsi da Colui\n 30 che tutto puote ed ogni cosa vede!\n E poscia mi partii con ambidui\n tra' belli fiori di quel prato adorno;\n e, quando ad una fonte io giunto fui,\n considerai che era mezzo giorno,\n 35 ch\u00e9 'l sol toccava in alto gi\u00e1 'l zenitto,\n e nullo corpo facea ombra intorno.\n Dicea fra me, ins\u00fa mirando fitto:\n --Com'\u00e8 che qui il caldo non offende,\n da che li raggi ins\u00fa rifletton ritto?\n 40 Ch\u00e9 'n quella obliquit\u00e1 che 'l raggio scende,\n come si prova nella prospettiva,\n in tale a parte opposta si distende.\n Per\u00f2, se 'l raggio ingi\u00fa ritto deriva,\n per linea retta ritorna in quel verso,\n 45 ed ei l\u00ed si raddoppia e si ravviva.\n E questo luogo \u00e8 pian, pulito e terso\n assai a questo, e nol torce in oblico\n concusso alcun, che 'l raggio mandi sperso.--\n Allor mi disse il padre pi\u00fa antico:\n 50 --Tu forse ammiri che qui non fa male\n il troppo caldo noioso e nimico.\n Sappi che, dove il giorno \u00e8 sempre equale\n alla sua notte, quanto il d\u00ed riscalda\n il sol, che 'nver' zenitto suso sale,\n 55 tanto la notte col fresco risalda;\n e per\u00f2 quella patria, se pon' cura,\n fie temperata, n\u00e9 fredda, n\u00e9 calda.\n E, bench\u00e9 tanto il sol vada in altura,\n non fa di caldo sotto il loco accenso,\n 60 quando in cotale altezza poco dura.\n Non \u00e8 sola cagion del caldo intenso\n l'altezza dello sol, ma sua dimora\n col raggio ins\u00fa riflesso, s'io ben penso.--\n Il suo parlar mi die' pi\u00fa dubbio allora,\n 65 ed io di domandar non avea ardire,\n come scolar che troppo il mastro onora,\n che mostra ancor non voler assentire\n con parole, ma tien il capo basso,\n facendo vista d'altro voler dire.\n 70 Ond'ello:--Parla;--ed io:--Cotesto passo\n ha forse verit\u00e1 solo in quel clima,\n ov'\u00e8 la gran citt\u00e1 di Satanasso.\n Ma questo loco tanto si sublima,\n che ben tre ore nell'alto emisfero\n 75 vedete il sole innanzi agli altri in prima.\n E cos\u00ed, quando il giorno si fa nero\n nell'occidente, a voi ben per tre ore\n luce quass\u00fa il celeste doppiero.\n Che cagion \u00e8 che qui non \u00e8 ardore,\n 80 se qui diciotto or mostra all'aspetto\n nel giorno il sol con suo chiaro splendore?--\n Ed egli a me:--Se intendesti il mio detto,\n io parlai s\u00fa del clima di quel loco,\n ov'ha reame il primo maladetto.\n 85 E, perch\u00e9 questo da quel dista poco,\n il sol, che dura in questo loco santo,\n come argumenti, accenderebbe il foco;\n se non che 'ns\u00fa egli \u00e8 levato tanto,\n che mai vapor, che faccia pioggia o vento,\n 90 salir o nocer pu\u00f2 in nessun canto.\n Ma 'l nono ciel e 'l primo movimento\n move qui l'aere, e dolce aura spira\n tal, che conforta ciascun sentimento.\n E, quando il detto cielo intorno gira,\n 95 il foco e gli altri ciel voltan con esso\n ed anche seco quest'aere tira.\n Per questo il raggio in diritto riflesso\n si frange e sparge; e, quand'\u00e8 cos\u00ed sparso,\n non accagiona il caldo intenso e spesso.\n 100 Per\u00f2 dal sol non \u00e8 questo luogo arso,\n s'el manda il raggio ritto, o alto el move,\n o se la notte sol sei ore ha scarso.--\n Dal ditto loco poscia andammo dove\n nasceva un fiume, ch'era tanto grande,\n 105 che mai verun maggior fu visto altrove.\n Elia mi disse senza mie dimande:\n --Questa grand'acqua, che qui ritto emerge,\n per tutto il mondo poscia si dispande.\n Imprimamente questo loco asperge;\n 110 poich\u00e9 la terra ha qui bagnata e infusa,\n per tutta l'altra terra si disperge\n per li meati, s\u00ed come Aretusa,\n che bagna pria Calabria e di quindi esce,\n poi va in Trinacria sotterra rinchiusa.\n 115 Di questo nasce Gange e 'l Nil, che cresce\n tanto la state, ed il Danubio e 'l Reno\n ed il Tanai col saporoso pesce.\n Di questo Ibero e il grande Geon pieno,\n che passa rifrescando l'Etiopia\n 120 e che bagna anco l'arabico seno.\n Di questo il Po, che d'acqua ha s\u00ed gran copia,\n che, quando il mondo secc\u00f2 per Fetonte,\n tra tutti i fiumi n'ebbe meno inopia.\n Ma l'acqua d'ogni fiume e d'ogni fonte\n 125 principalmente vien dall'Oce\u00e1no,\n e da Natura corre prima al monte.\n Perch'\u00e8 spognoso e perch\u00e9 dentro \u00e8 vano,\n e' scaturisce pel caldo impellente\n e poscia scende e corre giuso al piano.\n 130 Ed ogni fiume pi\u00fa pieno e corrente\n diventa per la pioggia, quando cade;\n e questa \u00e8 l'altra causa conferente.--\n Poi ci movemmo per le adorne strade\n tra la fragranza e soavi melode,\n 135 tra 'l nettar dolce in scambio di rosade.\n Ivi ogni senso si rallegra e gode,\n alla verzura si conforta il viso,\n l'orecchie a' canti degli uccelli, ch'ode.\n Rallegra tutto il cor quel paradiso;\n 140 ivi ogni cosa intorno m'assembrava\n un'allegrezza di giocondo riso.\n La doppia scorta, la qual mi guidava,\n si movea innanti, ed io segu\u00eda lor piante\n e con diletto l\u00e1 e qua mirava.\n 145 E, quando fummo andati alquanto avante,\n trovammo in giro un ampio ed alto muro,\n ch'avea le torri di duro diamante.\n Elia mi disse:--Qui l'intrare \u00e8 duro,\n se l'uomo in prima non si gitta a terra\n 150 e se:--Peccai--non dice col cuor puro.\n Allor colei, che la porta apre e serra,\n gli d\u00e1 l'entrata e fagli anco la scorta;\n e chi senza lei andasse, il cammin erra.\n Ella ti mener\u00e1 sino alla porta;\n 155 dentro la Temperanza troverai,\n che gl'impeti rifrena e 'l troppo acc\u00f3rta.--\n Per questo al duro muro m'appressai.\nCAPITOLO III\nDella vert\u00fa della temperanza e sue laudi.\n Perch\u00e9 l'intrare a me fusse concesso\n nel bel reame della Temperanza,\n mi feci a quella porta alquanto appresso.\n E, poich\u00e9 fui in debita distanza,\n 5 mi postrai 'n terra, dicendo:--Peccavi,--\n s\u00ed come per intrare l\u00ed \u00e8 usanza.\n Ed allora una donna con due chiavi\n apr\u00edo la porta, e poi la mia persona\n lev\u00f2 di terra con parol soavi.\n 10 --Questa gran donna, che l'intrata dona,\n \u00e8 quella, senza cui--mi disse Elia--\n n\u00e9 Dio n\u00e9 uomo al peccator perdona.\n Ella \u00e8 che al ciel t'insegner\u00e1 la via:\n dietro alli passi suoi ti guida omai;\n 15 con lei noi ti lasciamo in compagnia.--\n Quei patriarchi pria ringraziai;\n poscia mi volsi alla scorta novella\n e ch'ella mi guidasse io la pregai.\n Dentro alla porta intrai insiem con ella;\n 20 e, poich\u00e9 dentro fummo ed ella ed io,\n allor mi fece don di sua favella.\n --Se saper--disse--vuoi il nome mio,\n io sono l'Umilt\u00e1, il primo grado\n d'ogni virt\u00fa, che vuol salir a Dio.\n 25 Come Superbia \u00e8 prima in ogni lado,\n ardita a romper la legge divina,\n cos\u00ed alle vert\u00fa io 'nanti vado.\n Chi senza me su per andar cammina,\n ritorna addietro intra li luoghi bassi\n 30 e non s'accorge quando egli rovina.\n --Io prego, o donna, che tu non mi lassi\n --a lei risposi riverente e piano,--\n ch\u00e9 sempre seguir\u00f2 dietro a' tuoi passi.--\n Benignamente a me porse la mano;\n 35 e, poich\u00e9 'n alto luogo giunto fui,\n che d'ogni amenit\u00e1 era sovrano,\n la Temperanza con belli atti sui\n io trovai quivi e con tanta mai\u00e9sta,\n quant'hanno i santi, dov'\u00e8 il dolce frui.\n 40 Se ogni cosa \u00e8 bella in quanto onesta,\n e tutta l'onest\u00e1 da lei procede,\n quindi si sa quanto era bella questa.\n Ella stava a sedere in una sede.\n La nova scorta appresso a lei si pose,\n 45 non per\u00f2 in alto, ma gi\u00fa basso al piede.\n E sette donne, adorne come spose,\n stavan con lei, e d'oro le corone\n aveano in testa e di fiori e di rose.\n E una un orso e l'altra avea un leone,\n 50 legato ed ammansito con un freno;\n la terza similmente un gran dragone.\n E come fa 'l cagnol che dorme in seno,\n cos\u00ed le f\u00e8re si stavan con loro\n ed anche il drago senza alcun veneno.\n 55 Intorno intorno a tanto concistoro\n eran tranquilli giuochi e dolce canto\n di diverse persone a coro a coro.\n Perch\u00e9 da loro er'io distante alquanto,\n cenno fatto mi fu che m'appressasse\n 60 alla regina del collegio santo.\n Io m'appressai e le ginocchia lasse\n in terra posi, ed ella anco fe' segno\n che confidentemente a lei parlasse.\n --Alta regina, a questo loco vegno\n 65 --diss'io a lei--dal mondo con fatiga,\n per contemplar di te e del tuo regno.\n Minerva fu a me primiera auriga;\n ella \u00e8 che m'ha scampato e s\u00fa condotto\n per mezzo delli vizi e di lor briga.\n 70 E ch'io venisse a te mi fece dotto,\n che m'insegnassi questo tuo reame\n e delle tue donzelle tutte e otto.\n --Dacch\u00e9 di me sapere hai s\u00ed gran brame,\n --rispose quella,--ascolta, e dir\u00f2 pria\n 75 del mio uffizio e poi dell'otto dame.\n Dio fatto ha l'uomo per sua cortesia\n e posto in mezzo lui tra 'l bene e 'l male,\n ch\u00e9 l\u00e1 e qua ei combattuto sia.\n E diede a lui la parte sensuale,\n 80 la qual al male impetuosa corre\n come sfrenato e indomito animale.\n E per\u00f2 Dio mi volle con lui porre,\n ch\u00e9 'nverso il mal egli precipit\u00e1ra,\n se con miei freni a lui non si soccorre.\n 85 Per farti ben la mia risposta chiara,\n com'egli verso il mal si move ratto,\n cos\u00ed va tardo alla parte contrara;\n ch\u00e9, come infermo debil e disfatto,\n si move col disio inverso il bene,\n 90 se con forti speroni ei non \u00e8 tratto.\n Perci\u00f2 altra virt\u00fa esser conviene\n cio\u00e8 Fortezza, e questa i sproni mova,\n quando uom come infingardo si ritiene.\n Ella \u00e8 che fa che l'uom, il qual si trova\n 95 nella battaglia, vince e non s'ammorza,\n s\u00ed come il cavalier di buona prova,\n o come il buon nocchier, che allor si sforza\n che ha la gran tempesta in mezzo all'onda,\n quando el combatte da poppa e da orza.\n 100 Ed io 'l mantengo, quando va a seconda,\n ch\u00e9 'l fo attento che 'l timon non lassa,\n senza lo qual la nave si profonda,\n e che non dia de' calci a chi lo 'ngrassa;\n e, quando esalta la fortuna destra,\n 105 io fo che tiene il freno e che si abbassa.\n Cos\u00ed armato a dritta ed a sinestra,\n da un de' lati Fortezza el defende,\n dall'altro lato son io sua maestra.\n Donna \u00e8 che con mill'occhi su risplende,\n 110 che 'l guida dietro e innanti, e 'l fine sguarda,\n tanto che chi lo segue non l'offende.\n Pi\u00fa suso sta dell'uom la quarta guarda,\n Astrea dico, che resse la gente\n 'nanti che fosse fallace e bugiarda.\n 115 Alle otto dame omai tu porrai mente;\n dir\u00f2 de' loro uffizi, se m'ascolti,\n che reggono il reame qui presente.\n In prima sappi che impeti molti\n son rei nell'uomo contra bona legge;\n 120 ma tre son li peggiori e li pi\u00fa stolti.\n Il primo \u00e8 l'ira in cui governa e regge;\n e questa fa il cor di piet\u00e1 nudo\n contra li suoi subietti e la sua gregge.\n Clemenza \u00e8 detta ovver Mansuetudo\n 125 la prima dama, che dalle radici\n stirpa l'ira del core troppo crudo.\n E, secondo duo nomi, ell'ha duo uffici:\n l'uno \u00e8 che li superbi e troppo alt\u00e8ri\n inchina a' servi, quasi a dolci amici;\n 130 l'altro \u00e8 che quei, che son crudeli e f\u00e8ri\n e c'hanno alla vendetta accesi i cori,\n li fa al perdonar dolci e leggeri.\n Per\u00f2 \u00e8 detta donna de' signori,\n ch\u00e9 li reami e Stati senza lei\n 135 non sar\u00eden signorie, ma gran furori.\n Ed anco \u00e8 detta sposa delli d\u00e8i,\n che son propizi e non corron mai tosto,\n ma tardi alla vendetta contr'a' rei.\n Ell'\u00e8 che esser fe' Cesare Agosto\n 140 contra 'l nemico suo gi\u00e1 mansueto,\n il qual a tradir lui s'era disposto.\n Ed egli el chiam\u00f2 seco nel secreto\n dentro alla cambra sua cogli usci chiusi,\n ove gli disse con parlar quieto:\n 145 --Non \u00e8 bisogno, amico, che ti scusi,\n ch'\u00e8 manifesto e non ne puoi far niego\n del tradimento, che contra me usi.\n Ma una cosa a te chiedendo prego,\n che della tua amist\u00e1 mi facci dono;\n 150 ed io similemente a te mi lego.\n E ci\u00f2 c'hai detto o fatto ti perdono.--\n E, per pi\u00fa fede, a lui la destra porse:\n cos\u00ed 'l fe' amico a s\u00e9 verace e buono.\n Questa \u00e8, che fe' ch'Alessandro soccorse\n 155 con gran benignit\u00e1 al suo vassallo,\n quando del suo bisogno egli s'accorse,\n e desmont\u00f2 de su del suo cavallo,\n e del suo manto le membra gli avvolse,\n ch\u00e9 uopo non avea d'altro metallo.\n 160 Traian l'insegne al suo gran carro folse\n solo alla voce d'una vedovetta,\n al cui parlar mansueto si volse,\n dicendo:--Imperador, fammi vendetta,\n ch\u00e9 'l tuo figliolo il mio figliol m'ha tolto,\n 165 ond'io a lamentarmi son costretta.--\n Ed ei rispose con benigno volto:\n --Il mio figliolo, o donna che ti lagni,\n ti dono in cambio di quel c'hai sepolto.--\n Cesare primo, il maggior tra li magni,\n 170 li suo' famigli ovver li suoi subietti\n non li chiamava \u00abservi\u00bb, ma \u00abcompagni\u00bb,\n facendo a loro onore in fatti e in detti.--\nCAPITOLO IV\nDelle spezie e rami della temperanza.\n Io stava ad ascoltar come scolaio,\n che dal maestro prende la dottrina,\n mentre narr\u00f2 dell'impeto primaio.\n E poi continu\u00f2 quella regina:\n 5 --Sappi che rifrenar io debbo ogni atto,\n al qual la parte sensual inclina.\n Il diletto del gusto e quel del tatto\n vuole Dio ch'io rifreni e ch'io m'oppogna:\n questa \u00e8 la mia materia, ch'io pertratto.\n 10 E ci\u00f2 ch'\u00e8 inonesto e fa vergogna\n al nobil uomo, e ci\u00f2 ch'el fa brutale,\n ho io a regolar quanto bisogna.\n Vero \u00e8 ch'io anco reggo in generale\n i vizi tutti e la lor circumstanza,\n 15 e rifren ci\u00f2 che la ragione assale.\n E questo suona el nome \u00abTemperanza\u00bb,\n cio\u00e8 ch'ella rifreni, regga e tempre\n ogni inonesto e ci\u00f2 che in troppo avanza.\n E questo tu per regola tien' sempre,\n 20 ch'a ciascuna virtude s'appartiene\n corregger ci\u00f2, che la ragion distempre.\n Iusto e prudente \u00e8 l'uom, se noti bene,\n e temperato, ed anche ha in s\u00e9 fortezza\n e tutte le vert\u00fa insieme tiene;\n 25 ch\u00e9 dal peccato ovver dalla dolcezza,\n che gli \u00e8 opprobriosa, si disparte,\n o che, vincendo, sofferisce asprezza.\n Ogni virt\u00fa, ogni scienza ed arte\n ha sua materia propria, che pertratta;\n 30 ma 'n general l'una all'altra comparte.\n La sensualit\u00e1 brutale e matta\n reggo io con queste dame a me propinque,\n e ci\u00f2 che all'uom opprobrio e biasmo accatta.\n E questi vizi in radice son cinque,\n 35 e prima l'ira, della quale ho detto\n ch'\u00e8 opposta alla clemenzia, delinque.\n Poscia \u00e8 superbia, il vizio maladetto\n dell'avarizia ed anco della gola\n e di lussuria il bestial diletto.\n 40 Omai contempla la mia bella sc\u00f2la:\n la bella donna, che ti scorse il passo,\n che mi sta a pi\u00e8 umil senza parola,\n vince superbia e vince Satanasso\n (mirabil cosa!), che 'ns\u00fa monta tanto,\n 45 quanto nel suo pensier si pone a basso.\n L'altra donzella, che mi siede accanto,\n la moderata Parcit\u00e1 si chiama:\n ell'\u00e8 la quarta in questo regno santo.\n Ella lega la lupa sempre grama\n 50 e pon mesura alla voglia bramosa,\n che mai non s'empie e che, mangiando, affama.\n L'altra, ch'\u00e8 tanto adorna e gloriosa,\n \u00e8 Continenza, agli angioli sorella\n e del sommo Fattor celeste sposa.\n 55 Ella Cupido e Venere fragella,\n ogni turpe atto fugge ed hallo a sdegno,\n e sdegna chi ne tratta o ne favella.\n La sesta donna in questo nostro regno\n a Cerere ed a Bacco pone il freno,\n 60 ch\u00e9 del bisogno non passino il segno.\n E, perch\u00e9 tutto sappi ben appieno,\n dir\u00f2 dell'altre mie compagne ancora,\n che stanno meco nel regno sereno.\n Io suadisco ci\u00f2 che l'uomo onora,\n 65 e vieto ci\u00f2 che a lui \u00e8 turpe e lado,\n perch\u00e9 sua dignit\u00e1 sia pi\u00fa decora.\n Per\u00f2 la donna del settimo grado\n \u00e8 chiamata Onest\u00e1 ed ha la vesta\n tutta inorata sopra il bel zendado.\n 70 Vedi che tutte l'altre gli fan festa;\n vedi che adorna tutte di splendore\n della corona, ch'ella porta in testa.\n Com'io li desid\u00e8ri di furore,\n i quali rifrenar all'uomo \u00e8 forte,\n 75 tempro col freno dello mio valore;\n cos\u00ed \u00e8 altra donna in questa corte,\n Modestia chiamata, e tiene il loco,\n che qui gli \u00e8 dato nell'ottava sorte.\n Ella \u00e8 che 'l modo pon tra 'l troppo e 'l poco\n 80 negli atti esteriori, in fatti e in dire,\n nel rider, nell'andar, nel prender gioco,\n in suntuosit\u00e1 e nel vestire;\n e dove e quando, innanzi a cui e come,\n oltra i termini suoi, non lassa ire.\n 85 Tra noi coronat'ha le bionde chiome;\n Modestia \u00e8 detta, perch\u00e9 serva il modo,\n sicch\u00e9 'l suo uffizio \u00e8 consequente al nome.\n In questo regno, nel qual io mi godo,\n sta la Vergogna ovver l'Erubescenza;\n 90 la qual non per virt\u00fa per\u00f2 la lodo,\n ma perch\u00e9 \u00e8 freno e perch\u00e9 ha temenza\n di fare il lado; e questo \u00e8 atto buono\n e che mena a virt\u00fa, se ha permanenza.\n Ma 'n quei che saggi o che antichi sono,\n 95 perch\u00e9 debbono il capo aver esperto,\n il vergognarsi trova men perdono.\n Per\u00f2 Vergogna in testa non ha 'l serto\n perch\u00e9 non \u00e8 virt\u00fa, come siam noi,\n che 'l capo di corona abbiam coperto.\n 100 Dell'altre cose, che qui saper vuoi,\n elle diranno co' lor dolci canti,\n una cantando pria e l'altra poi.--\n Clemenzia, al cielo alzando gli occhi santi,\n un canto cominci\u00f2 tanto soave,\n 105 pi\u00fa che mai musa, che cantar si vanti.\n --Non ha peccato--disse--tanto grave,\n che dell'intrar a te, Signor e Dio,\n chiunque si pente non trovi la chiave;\n ch\u00e9 se' s\u00ed mansueto e tanto pio,\n 110 che tua clemenzia il peccator soccorre,\n pur ch'e' si penta e non voglia esser rio.\n La tua piat\u00e1, che a vendicar non corre,\n a quel che volle a te assomigliarse\n e la sua sede a lato alla tua porre,\n 115 pur ch'e' volesse ancora umiliarse\n alle tue braccia, dicendo:--Peccai,--\n ad abbracciarlo non far\u00edale scarse.\n Per questo, o Signor mio, saper mi fai,\n che sempre si perdoni a chi si pente;\n 120 al superbo non si perdona mai.\n Quando al ciel venne il grido della gente\n di Sodoma e Gomorra e di lor setta,\n tu descendisti a vederlo presente;\n ove m'insegni ch'io non creda in fretta,\n 125 quando la fama il peccator condanna,\n e tardo e con piat\u00e1 faccia vendetta.\n Per questo tu ponesti, o santo Osanna,\n l'asprezza della verga dentro all'arca\n colla dolcezza insieme della manna.\n 130 La Maddalena, o sommo Patriarca,\n tu ricevisti pio e mansueto,\n quando a te venne di peccati carca,\n e del suo cor compunto e del suo fleto\n pi\u00fa ti pascesti che su nella mensa\n 135 del fariseo, e pi\u00fa staesti lieto.\n La donna, ch'era allor allor comprensa\n nell'adulterio e menata nel tempio,\n benignamente da te fu defensa;\n dove, alto mio Signor, mi d\u00e9sti esempio\n 140 che sol del peccator voglia l'emenda,\n e chi altro ne vuol, \u00e8 crudo ed empio,\n e quel, che egli fa, nullo riprenda;\n ch'altru' accusando, quel se stesso pugne,\n quand'egli avvien che 'n quel medesmo offenda.\n 145 Tu gi\u00e1 facesti e fai che ancor si ugne\n il core a' regi, perch'e' sien benegni,\n e 'l re dell'api fai che non trapugne;\n in questo esempio, mio Signor, m'insegni\n che sieno i grandi grati e mansueti,\n 150 e che non sian superbi in li lor regni.--\n E poscia, al cielo alzando gli occhi lieti,\n Parcit\u00e1 cominci\u00f2 sua cantilena,\n poich\u00e9 Clemenzia ebbe i suoi detti quieti.\n --Beato--disse--\u00e8 l'uom che si raffrena\n 155 e pone a quella voglia la mesura,\n che sempre brama e mai diventa piena.\n Beato quello che non sforza o fura\n per pi\u00fa avere e non prende l'affanno,\n sempre sudante d'infinita cura;\n 160 ma, com' Fabrizio nel povero scanno,\n del poco e con vert\u00fa pi\u00fa si contenta\n che di pi\u00fa posseder con froda e inganno.\n Ma pi\u00fa felice \u00e8 l'uomo, il qual diventa\n perfetto s\u00ed, che tutto il disio taglia,\n 165 e di ricchezza ha ogni voglia spenta,\n e che 'l pi\u00fa e 'l meno non cura una paglia,\n e che niente alla Fortuna chiede,\n quando losinga e quando d\u00e1 battaglia.\n Colui di tutto il mondo \u00e8 ricco erede,\n 170 che, avendo o non avendo, pi\u00fa non vuole;\n ch\u00e9, quanto uom non desia, tanto possede.--\n Qui fin\u00ed 'l canto ed anco le parole.\nCAPITOLO V\nDella virt\u00fa della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza.\n Cominci\u00f2 Continenza il terzo canto,\n quando l'onesta Parcit\u00e1 si tacque;\n e prima gli occhi alz\u00f2 al cielo alquanto,\n dicendo:--A Dio verginit\u00e1 s\u00ed piacque,\n 5 che lei elesse sposa, in lei discese,\n quando di vergin madre al mondo nacque.\n A san Ioanni l'angel fu cortese\n per la verginit\u00e1, a lor sirocchia,\n quando, di terra su levando, el prese,\n 10 dicendo:--Su, su, lieva le ginocchia:\n fratelli e servi siamo in quel Signore.\n che ci\u00f2, che \u00e8 futur, presente adocchia.--\n Non pure il cielo a lei fa onore,\n ma l'universo ed ogni creatura\n 15 alla bellezza di tanto valore.\n Subietti stanno a lei, quando scongiura.\n li maladetti piovuti da cielo,\n per forza, per amore o per paura.\n La vergin sacra gi\u00e1 accese il velo\n 20 nel foco estinto; e l'altra la gran nave\n trasse con un capello d'un sol pelo.\n Il capricorno s\u00ed feroce e grave\n da lei pigliar si lassa, ed ella el regge;\n e segue lei mansueto e soave.\n 25 Ma, perch\u00e9 \u00e8 scritto nell'antica Legge:\n \u00abCrescete insieme vo' e moltiplicate\u00bb,\n come in quel testo pi\u00fa volte si legge,\n per questo molti la verginitate\n impugnano, perch\u00e9 non \u00e8 feconda\n 30 come lo stato delle coniugate.\n Convien che a questi detti si risponda\n che funno a tutte spezie e f\u00fbn comuni\n non a persona prima ovver seconda,\n ch\u00e9 v\u00f2lse Dio e vuol che sianvi alcuni,\n 35 perch\u00e9 alle cose sue meglio s'attenda,\n che d'ogni atto venereo sian digiuni.\n Bench\u00e9 verde grillanda o sacra benda\n adorni quella c'ha la mente negra,\n non per\u00f2 vergin esser si comprenda;\n 40 ch\u00e9 la verginit\u00e1 pura ed allegra\n \u00e8 la mente incorrotta a Dio divota,\n cogli atti onesti e colla carne int\u00e8gra.\n E, se l'integrit\u00e1 fusse rimota\n contra 'l voler, non per\u00f2 si sospetti\n 45 perder corona e la celeste dota.\n La castit\u00e1 \u00e8 poi de' men perfetti;\n ma, se si parte dalle cose sozze,\n il frutto di sessanta in cielo aspetti,\n se non trapassa alle seconde nozze,\n 50 se lassa ci\u00f2 in che Marta s'affanna,\n se pi\u00fa non vuol marito che rimbrozze,\n e se con Michelina e con sant'Anna\n abita sola e dimora in quel templo,\n ove si gusta la celeste manna;\n 55 se dalla tortora anche piglia esemplo,\n che beve turbo e sola sempre \u00e8 'n lutto,\n quasi dicendo:--Io castit\u00e1 rassemplo.--\n Il matrimonio \u00e8 poi di minor frutto;\n perch\u00e9 convien che la famiglia rega,\n 60 non pu\u00f2 inverso Dio attender tutto;\n ch\u00e9 quanto pi\u00fa col mondo alcun si lega\n ed alla cura bassa sta pi\u00fa attento,\n tanto dal contemplar di Dio si piega.\n Allora \u00e8 santo e vero sacramento,\n 65 se in una vera fede egli \u00e8 fundato,\n in santa pace e in un consentimento;\n se solo a quel buon fine egli \u00e8 usato,\n pel quale al primaio uom, quando fu fatto,\n la sposa Dio gli trasse del costato.\n 70 Se bestiale ovver meretricio atto\n fra lor non si usa, allor \u00e8 continenza,\n ch\u00e9 fuor de' miei confini e' non \u00e8 tratto.--\n Poi, come donna che fa reverenza,\n lassando il ballo, tal atto fe' ella,\n 75 e prese il quarto canto l'Abstinenza.\n Alzando gli occhi al ciel, quella donzella\n disse:--La mente mia libera e lieta\n sublimo al mio Signor, che mi favella.\n Egli \u00e8 che spira e che mi fa profeta:\n 80 Egli \u00e8 che ciba me, lui contemplando:\n Egli \u00e8 che di vert\u00fa mi fa repleta.\n Di me all'uomo fe' il primo comando;\n e, quando el ruppe, a morte ed a fatiga\n e tra mille timori el pose in bando.\n 85 L'offizio mio quella parte castiga,\n dov'\u00e8 'l desio e quel voler ribello,\n che alla legge mental d\u00e1 s\u00ed gran briga.\n Li tre fanciulli ed anche Daniello\n profeti fei, perch\u00e9 funno abstinenti\n 90 e parlavan con Dio, com'io favello.\n Avventurate gi\u00e1 l'antiche genti,\n a cui il pasto delle giande ed erbe\n fe' 'l viver lungo e san senza tormenti!\n Ora li cibi e le mense superbe\n 95 son s\u00ed cresciuti, che la vita brieve\n \u00e8 inferma e poca e pien di doglie acerbe.\n Ora, se innanzi al pranzo non si beve,\n pare altrui pena; e troppa dilicanza\n fa che 'l cibo comune al corpo \u00e8 grieve.\n 100 Il corpo, che del poco ha sua bastanza,\n se non ha buono assai e spesso e presto,\n mormora guasto dalla mal usanza.\n Or pochi fanno quel digiun richiesto\n per decima da Dio, che gli sia offerta,\n 105 del tempo, che a ben far n'ha dato in presto.\n E non val ch'\u00e8 precetto e che si accerta\n ch'estirpa i vizi e le virt\u00fa acquista,\n e che lieva la mente a Dio s\u00fa erta.--\n Qui lasci\u00f2 'l canto come 'l citarista;\n 110 poi come fa'l falcon, quando si move,\n cos\u00ed Umilt\u00e1 al cielo alz\u00f2 la vista,\n dicendo:--O alto Dio, o sommo Iove,\n nulla umilt\u00e1 che pretenda bassezza,\n possibil \u00e8 che mai in te si trove.\n 115 Ma, permanendo in s\u00e9 la tua altezza,\n il tuo Figliuol l'umanit\u00e1 si un\u00edo\n non con difetti, ma con l'altra asprezza,\n s\u00ed ch'egli, essendo insieme e uomo e Dio,\n in quanto Dio che satisfar potesse,\n 120 e in quanto uom patisse ove mor\u00edo,\n per colui che, produtto allora in esse,\n ruppe la sbarra del comando primo\n ed attent\u00f2 che, quanto Dio, sapesse.\n Per\u00f2 convenne che 'l superbo limo\n 125 s'umiliasse quanto ins\u00fa era ito,\n ed egli non potea pi\u00fa ire ad imo.\n Ed anco 'l suo peccato era infinito,\n pensando quel Signore, in cui presunse\n e che a non obbedirlo fu ardito.\n 130 Per questo, Dio umanit\u00e1 assunse\n ed un si fece seco e fu quell'Agno,\n che pei peccati altrui s'offerse e punse.\n O alto mio Signor, tu se' s\u00ed magno,\n che tutti quanti i ciel son la tua sede,\n 135 e la terra \u00e8 scabello al tuo calcagno.\n Alla grandezza tua, che tanto eccede,\n l'umilt\u00e1 sola gli fece la casa,\n quando uman\u00f2 'l tuo eterno Erede\n nel petto di Maria, qual \u00e8 rimasa\n 140 speranza a' peccatori e sempre advoca\n che Piat\u00e1 tenga a lor la porta pasa.\n Quella Umilt\u00e1, che 'n croce si fe' poca,\n fu esaltata e, posta al lato destro\n appresso a Dio, in alto si coll\u00f2ca.\n 145 E, quando al mondo stette per maestro,\n con umilt\u00e1 convers\u00f2 tra la gente\n non come prince, ma come minestro;\n ove li gradi mostra, a chi pon mente,\n dell'umilt\u00e1, e prima che subietta\n 150 sie a' maggiori e presta ed obbediente.\n L'altra \u00e8 che a' suoi egual si sottometta;\n l'umilt\u00e1 terza alli minor subiace:\n questa \u00e8 suprema ed \u00e8 la pi\u00fa perfetta.\n Di un'altra umilt\u00e1, che nel cor giace,\n 155 il primo grado non dispregia altroi;\n l'altro, s'\u00e8 dispregiato, non gli spiace.\n Il terzo grado \u00e8 dopo questi doi;\n che, s'egli \u00e8 dispregiato, se ne goda\n e non si turbi, perch\u00e9 altri el n\u00f2i;\n 160 e che avvilisce s\u00e9, quando altri el loda,\n e sol risponde, quando altri el domanda,\n e non si cura, bench\u00e9 opprobrio oda;\n e come il buon corsier, che cos\u00ed anda\n come altri mena il fren, cos\u00ed la voglia\n 165 pon nell'arbitrio di chi ben comanda;\n e, bench\u00e9 alcuno a lui la vesta toglia,\n o se la sua mascella li percuote,\n non contendendo, lo mantel si spoglia\n e paragli anco l'altra delle gote.--\nCAPITOLO VI\nDella fortezza e delle sue spezie.\n Menommi poi l'Umilit\u00e1 pi\u00fa suso,\n tanto ch'io giunsi al reame secondo;\n e, come il primo, il varco aveva chiuso,\n ed anco 'l muro avea girante in tondo\n 5 ed era tutto quanto d'oro fino,\n alto ben cento pi\u00e8 da cima al fondo.\n Enginocchiato, al mur mi fei vicino;\n allora l'uscio grande ne fu aperto;\n e noi intrammo su per quel cammino.\n 10 Forse duo miglia era ito suso ad erto\n tra dolci canti e tra li belli fiori,\n da' quai tutto quel pian era coperto,\n ch'io vidi in mezzo delli sacri c\u00f2ri\n star la Fortezza ardita e triunfante\n 15 come una dea adorna di splendori.\n Mirava al cielo e tenea le sue piante\n fisse e fermate su 'n una colonna,\n ch'era tutta di fino adamante.\n La spada in mano avea la viril donna\n 20 e l'elmo in testa ed in braccio lo scudo,\n e la panziera in scambio della gonna.\n --O vert\u00fa alta, o nobil Fortitudo\n --diss'io a lei inginocchiato appresso,--\n che non curi Fortuna e suo van ludo,\n 25 per l'aspero viaggio mi son messo,\n passando i vizi ins\u00fa con grande affanno,\n per veder questo regno a te commesso,\n e per veder le dame che qui stanno;\n e vengo, alta regina, ch\u00e9 m'insegni\n 30 l'offizio e l'operar, che da te hanno.\n Se 'l priego basso mio, donna, disdegni,\n Minerva disse a me ch'io ti richieggia\n e che venissi qui, ove tu regni.--\n Siccome, quando le sue schier vagheggia,\n 35 si mostra ardito il nobil capitano,\n ed ognun delli suoi, perch'egli il veggia,\n cos\u00ed fec'ella con la spada in mano,\n e cos\u00ed se mostroe ogni sua ancilla,\n in forma femminile ardir umano.\n 40 Non mai Pantasilea ovver Camilla\n tanto valor nell'arme dimostr\u00e2ro,\n n\u00e9 donna d'Amazona o d'altra villa.\n --Da c'hai passato il cammin cos\u00ed amaro\n --rispose quella,--e m\u00e1ndati Minerva,\n 45 degno \u00e8 che io t'insegni e faccia chiaro.\n La parte, che nell'uom debbe esser serva,\n per due cagioni alla ragion s'oppone\n e contra buona legge sta proterva.\n Prima \u00e8 dolcezza delle cose buone\n 50 secondo il senso, e, quando troppo move,\n a questa Temperanza il fren gli pone.\n L'altra \u00e8 quand'ella andar non vuol l\u00e1, dove\n la ragion ditta e f\u00e1llo per paura\n o per diletto, che la tiri altrove.\n 55 Ora a' due offizi miei porrai ben cura.\n Uno \u00e8 che arma l'uom e che lo sprona\n alla vert\u00fa contra ogni cosa dura.\n E, perch'abbia vittoria, la corona\n io gli dimostro; e, se vince l'asprezza,\n 60 prometto fama e premio, che 'l ciel dona.\n L'altro \u00e8 che, come Ulisse, la dolcezza\n lassa di Circe e, come Sanson fiero,\n svegliato, i lacci di Dalida spezza.\n E giammai non ti caggia nel pensiero\n 65 che di fortezza virtual sia armato\n chi il mal fa forte o casual mestiero,\n cio\u00e8 per furia o ira, o che infiammato\n sia d'amor troppo, e forse per temenza\n o per guadagno ovver come soldato.\n 70 Per molta ovver per poca esperienza\n alcun par forte; ma vera radice\n nullo ha di questo, ma sola apparenza;\n ch\u00e9 la fortezza, che fa l'uom felice,\n \u00e8 animo costante a non volere\n 75 ci\u00f2 ch'a ragione ed a Dio contradice,\n per questo apparecchiato a sostenere\n ogni fatica, ogni briga e periglio\n e voler contrastar con suo potere,\n e per le quattro cose, a quali \u00e8 figlio,\n 80 la patria, il padre, la vert\u00fa e Dio,\n ire alla morte con allegro ciglio.\n Non ha per\u00f2 di morte ella il dis\u00edo;\n ch\u00e9 quanto al mondo \u00e8 utile sua vita,\n tanto il morir gli dole e pargli rio.\n 85 Ma la sua carne libera e espedita\n tiene alla morte, e sol quando bisogna\n e in bene di color che l'han largita;\n ch'\u00e8 meglio assai che l'uom la vita pogna,\n che Cloto fila e fa corte le tele,\n 90 che viver vizioso e con vergogna.\n Perch\u00e9 non fusse a' nemici infedele\n nelle promesse, il buon Regulo Marco\n torn\u00f2 alla morte ed al dolor crudele.\n Ristette solo Orazio su nel varco\n 95 del ponte, insin che gli fu dietro rotto,\n portando de' nemici tutto il carco,\n e poi nel Tever si gitt\u00f2 di sotto\n non per fuggir, ma che non contentasse\n color ch'a ritener s'era condotto.\n 100 Fortezza fe' che Curzio si gittasse\n nella ruina, acci\u00f2 che la sua morte\n da morte la sua patria liberasse.\n Omai contempla la mia bella corte.\n Questa che 'n testa porta due ghirlande,\n 105 perch\u00e9 a destra ed a sinistra \u00e8 forte,\n Magnanimit\u00e1 \u00e8, che ha 'l cor s\u00ed grande,\n che Fortuna nol flette, se minaccia,\n n\u00e9 lieva in alto con losinghe blande;\n ma tra la gran tempesta e gran bonaccia\n 110 conduce la sua barca con salute,\n e troppa spene o t\u00e8ma non l'impaccia.\n Non per ambizion, ma per vertute\n s'ingegna di salir in grande onore,\n e solo a questo ha le sue voglie acute,\n 115 e, non perch'i subietti ella divore,\n ma per far prode, s\u00ed come fa 'l lume,\n che, posto in alto, mostra pi\u00fa splendore.\n Il vizio d'arroganza, e che presume,\n ha ella in odio e la gloria vana\n 120 s\u00ed come cosa opposta al buon costume.\n Troppa audacia ancor da lei \u00e8 lontana\n e 'l timor troppo e l'animo pusillo,\n e la temerit\u00e1 da lei \u00e8 strana;\n ed \u00e8 verace, e l'animo ha tranquillo\n 125 e tra li grandi mostra aspetto magno,\n ed eccellente ed alto \u00e8 'l suo vessillo,\n ed usa tra' minor come compagno.\n L'onor e la vert\u00fa vuol che antiposta\n sia all'utilit\u00e1 ed al guadagno.\n 130 Quell'altra donna, che gli siede a costa,\n \u00e8 sua sorella, chiamata Fidanza:\n questa \u00e8 seconda, in questo regno posta.\n Questa comincia con molta baldanza\n le cose dure, pria pensando il fine\n 135 e la fatica ed ogni circumstanza.\n La terza poscia di queste regine\n \u00e8 Pazienza, ed ella \u00e8 che sostiene\n della battaglia le pi\u00fa acute spine.\n E sono dolci a lei l'amare pene,\n 140 pensando il premio e 'l grande onor che spera,\n ch\u00e9 senza affanno non si monta al bene.\n La quarta \u00e8 la vert\u00fa che persev\u00e9ra\n insin al fine, e l'opera conduce\n tutta perfetta e tutta quanta intera.\n 145 Ogni atto buono ed arduo, che produce\n la volont\u00e1 zelante ed iraconda,\n a questo mio reame si reduce.\n Io dico l'ira, quando non abbonda\n tanto che offusche il lume della mente,\n 150 ma quella che a ragion sempre seconda.\n In questo regno mio tanto eccellente\n stanno i romani antichi e li gran reggi\n e gli uomin forti dell'antica gente,\n i quai voglio che odi e che li veggi.\n 155 Quivi sta Ett\u00f2r e quivi stan coloro\n che in magnanimit\u00e1 f\u00fbn li pi\u00fa egreggi.--\n Allor part\u00edssi, e tutto il sacro coro,\n seguendo la Fortezza, i passi mosse,\n sin che trovammo una gran porta d'oro.\n 160 La donna principal quella percosse;\n e senza alcun indugio ne fu aperta;\n ma quel portier che apr\u00edo, non so chi fosse:\n tanto attesi a seguir la scorta esperta.\nCAPITOLO VII\nDe' magnanimi e valentissimi, ne' quali risplendette\nla virt\u00fa della fortezza.\n Non credo che sia loco, sotto il cielo,\n s\u00ed delettoso e di tanta allegrezza,\n n\u00e9 tanto temperato in caldo e 'n gielo,\n quanto quel dove andai con la Fortezza.\n 5 E l\u00ed trovai armato il fiero Marte,\n quanto un gigante grosso ed in altezza.\n E molta gente avea da ogni parte\n e tanto appresso a lui, quanto vantaggio\n ebbon in forza e in battagliosa arte.\n 10 E sopra tutti lor scendeva un raggio,\n il qual si derivava dal pianeta,\n che d\u00e1 nella battaglia buon coraggio.\n S\u00ed come luce ch'esce di cometa,\n cos\u00ed scendeva lor sopra la chioma,\n 15 secondo la vert\u00fa pi\u00fa chiara e lieta.\n Quando pi\u00fa bella e pi\u00fa in fior fu Roma,\n non ebbe in s\u00e9 s\u00ed bella baronia,\n n\u00e9 quella che di Troia ancor si noma.\n Come tra' fiori e dolce melodia\n 20 l'anime vanno tra gli elisii campi,\n facendo insieme festa in compagnia;\n cos\u00ed su' prati dilettosi ed ampi\n givano questi in gran solazzo e gioco\n col raggio in capo, che par che gli avvampi.\n 25 --Secondo il raggio, quanto \u00e8 assai o poco\n --Fortezza disse,--qui si manifesta\n la vert\u00fa de' baron di questo loco.\n Colui, che s\u00ed gran fiamma ha su la testa,\n Ercule fu, quel valoroso e forte,\n 30 che morto fu con venenosa vesta.\n Torn\u00f2 d'inferno e fuor delle sue porte\n Cerbero trasse e menollo nel mondo\n con tre catene a tre sue gole attorte.\n L'altro, ch'\u00e8 dopo lui e poi secondo,\n 35 \u00e8 Cesar ceso nel ventre materno,\n che 'l raggio ha poi pi\u00fa chiaro e pi\u00fa giocondo.\n Tutta la zona donde viene il verno,\n la Francia, il Reno e l'antica Bretagna,\n sommise a Roma sotto 'l suo governo.\n 40 E poi quel terzo, il qual egli accompagna\n e che da tanti \u00e8 qui menato a spasso\n su per li prati della gran campagna,\n \u00e8 quel che di combatter mai fu lasso\n nella battaglia, il fortissimo Ettorre,\n 45 per la cui morte Troia venne al basso.\n Non bast\u00f2, Achille, a lui la vita t\u00f4rre,\n ma 'l trascinasti intorno delle mura\n delle porte troiane e delle torre.\n Il quarto, c'ha la luce chiara e pura\n 50 su nella testa, \u00e8 Alessandro alt\u00e8ro,\n che fece a tutto il mondo gi\u00e1 paura.\n Egli ebbe l'Oriente tutto intero:\n forse, se non che morte el liev\u00f2 tosto,\n di vincer Roma gli riusc\u00eda 'l pensiero.\n 55 L'altro, a cui tanto raggio in capo \u00e8 posto,\n \u00e8 quell'Ottavian, da cui si dice\n ogni altro imperator \u00abCesare Agosto\u00bb.\n O alto core, o anima felice,\n la terra tutta facesti subietta\n 60 fin dove il caldo accende la fenice.\n Fatt'hai di Cesar tuo la gran vendetta,\n e Perugia condutta a trista fame,\n e guasta tutta pompeiana setta.\n Recasti tutto il mondo ad un reame;\n 65 per tua virt\u00fa, dal ciel discese Astrea\n e chiuse a Ian del tempio ogni serrame.\n Risguarda omai el magnanimo Enea,\n che si rallegra e parla con lui insieme,\n e ben in vista par figliuol di dea.\n 70 Vedi da lui disceso il nobil seme,\n Romulo dico, innanti al cui valore\n tutte l'altre fortezze f\u00fbnno sceme.\n Vedi che tutti que' gli fanno onore\n e stangli innanzi come figli al padre;\n 75 ed ha dal forte Marte pi\u00fa splendore.\n La grande Roma e l'opere leggiadre\n di farsi grande e vendicare il zio\n e la Sabina a Roma dar per madre,\n il Capitolio e 'l tempio, che fe' a Dio,\n 80 la milizia, il senato e la virtude\n el fan s\u00ed grande in questo regno mio.\n Oh secolo feroce! oh genti crude!\n il padre de' roman da' roman poi\n fu ucciso ed occultato in la palude.\n 85 Quell'altro, che pi\u00fa presso sta a loi,\n \u00e8 il gran Pompeo, il quale in mare e in terra\n fe' gloriosi li triunfi suoi.\n Questo fu vincitor in ogni guerra,\n in Grecia, nell'Egitto ed in Tessaglia\n 90 e ove 'l libico mar la secca serra,\n sinch\u00e9 col suocer ebbe la battaglia,\n u' Fortuna mostr\u00f2 che contra lei\n non \u00e8 fortezza o senno che vi vaglia.\n Vedi il piatoso amator delli d\u00e8i,\n 95 difensor delle leggi, il buon Catone,\n refugio a' buon e riprensor de' rei.\n Mira il chiaro splendor di Scipione,\n in tanta giovent\u00fa verenda immago,\n tanta onest\u00e1 in et\u00e1 di garzone,\n 100 a cui die' 'l nome la vinta Cartago,\n l'Affrica subiugata ed Anniballo,\n che contra Roma fu peggior che drago.\n L'altro \u00e8 che 'l gran francioso da cavallo\n gitt\u00f2 a terra, e detto fu Torquato\n 105 dal torque, che gli tolse, argenteo e giallo.\n Mira Camillo, il forte Cincinnato,\n il qual fortezza e vert\u00fa fe' s\u00ed grande,\n ch'and\u00f2 al triunfo, tratto dell'arato.\n Se di quegli altri tre tu mi domande,\n 110 che vanno inseme, a cu' il figliol di Iove\n del raggio a lor fa 'n capo tre grillande,\n quello, che i passi innanzi agli altri move,\n \u00e8 'l sovran re di Francia Carlo Magno,\n che contr'a' sarracin fe' le gran prove.\n 115 L'altro, che va con lui come compagno,\n \u00e8 'l valoroso Boglion Gottifredo;\n che della Terrasanta fe' 'l guadagno.\n Il sepolcro di Cristo e 'l santo arredo\n ei conquist\u00f2; ed ora l'ha 'l soldano,\n 120 non iusto possessor, ma come predo.\n Il terzo, ardito, con la spada in mano\n \u00e8 'l re Artus, e i suoi atti pregiati\n nomati son da presso e da lontano.--\n E gi\u00e1 la dea a me avea mostrati\n 125 li gran troiani ed anche li gran greci,\n che eccellenti e forti erano stati,\n e detto avea de' Fabi e delli Deci;\n quando vidi un con molta gente intorno:\n ond'io a domandar oltra mi feci:\n 130 --Chi \u00e8 colui, che 'l raggio ha tanto adorno,\n o dea Fortezza, che s\u00ed come 'l sole\n far\u00eda la notte parer mezzogiorno,\n e che di fiori, rose e di viole\n li spargon sopra il petto e sopra il viso,\n 135 s\u00ed come a' novi amanti far si s\u00f2le?--\n Ed ella a me:--Colui, che festa e riso\n riceve qui per la vert\u00fa che vince,\n or ora debbe andare in paradiso.\n Ed \u00e8 concesso a lui che passi quince,\n 140 che 'l suo valore a te sia manifesto:\n chiamato fu 'l cortese signor Trince.\n Innanzi a quell'Urbano, il qual fu sesto,\n sotto il vessillo scritto in libertade,\n che servit\u00fa per chiosa ebbe nel testo,\n 145 tutte sue terre e tutte sue contrade\n di santa Chiesa a lei volson le piante\n e rivolt\u00f4nsi con lance e con spade.\n Ma questo con pochi altri fu costante,\n e tra quei pochi di costui apparse\n 150 la fede ferma pi\u00fa che diamante;\n tanto ch'egli per questo il sangue sparse,\n drizzando a Dio il core e le sue mani,\n che 'n liberalit\u00e1 mai f\u00fbnno scarse.\n Per questo greci, dardani e romani\n 155 l'aspergono di fior, come tu vedi,\n e fangli festa in questi grati piani.\n --O sacra dea--diss'io,--se mel concedi,\n andr\u00f2 a lui, e reverente e chino\n abbracciar voglio i sui amorosi piedi;\n 160 ch\u00e9 'l suo figliol dal mondo pellegrino\n quass\u00fa salir mi mosse: egli mi manda:\n per lui messo mi son in 'sto cammino.\n --Consentirei--respuse--a tua dimanda;\n se non che su nel ciel tu 'l trovarai,\n 165 se il core e tua vert\u00fa tanto ins\u00fa anda.--\n In questo sopra lui disceson rai,\n quali il sol la mattina all'oriente\n intensi manda li splendor primai.\n Li tre colle grillande prestamente\n 170 insieme in compagnia a lui n'and\u00e2ro,\n facendo via a lor tutta la gente,\n ed entr\u00f4n dentro in quello splendor chiaro.\n Allor vennon da cielo agnoli molti,\n che quelli quattro a Dio accompagn\u00e2ro.\n 175 Quelli bei fiori, ch'elli av\u00edeno c\u00f2lti,\n spargean sopra la gente, andando insue,\n che ammiravan con sospesi volti,\n sinch\u00e9, allungati, non si viddon piue.\nCAPITOLO VIII\nNel quale la Fortezza scioglie un dubbio dell'autore,\ne appresso incominciasi a trattare della prudenza.\n L'intelletto dell'uom, che mai non posa,\n che sempre cerca e sta ammirativo,\n sinch'e' non trova la cagion nascosa,\n dicea fra s\u00e9:--Nel loco s\u00ed giolivo\n 5 come star puote chi non si battezza\n o non credette in Cristo, essendo vivo?--\n Per\u00f2 addomandai la dea Fortezza:\n --Come qui 'n questo loco tanto ameno,\n di tanta festa e di tanta dolcezza,\n 10 stan questi che 'l battesmo ebbono meno?\n Non so se fuor del cielo \u00e8 luogo al mondo,\n che sia s\u00ed bello e di letizia pieno.--\n Ed ella a me:--Tu cerchi s\u00ed profondo,\n che scusata ser\u00f2, se bene aperto\n 15 alla domanda tua io non rispondo.\n Ma sappi in prima, ed abbilo per certo,\n ch'ogni male da Dio ser\u00e1 punito,\n ed anco addolcir\u00e1 ogni buon merto.\n Ma del voler di Dio, ch'\u00e8 infinito,\n 20 quanto a cercar alcun pi\u00fa vi s'affanna,\n tanto pel grand'abisso va smarrito.\n Se li non battizzati egli condanna,\n sol che li tien per sempre del ciel f\u00f2re,\n per questo non gl'iniuria e non gl'inganna;\n 25 ch\u00e9 quei, che ebbon di vert\u00fa 'l valore,\n di pena sensitiva non mart\u00edra,\n s'altro peccato non d\u00e1 lor dolore.\n E ci\u00f2 che 'l ciel non toglie, mentre gira,\n dico memoria, volont\u00e1, intelletto\n 30 e ci\u00f2 che l'alma sciolta seco tira,\n possono usare ed usan con diletto,\n e la vert\u00fa che ama e che ragiona,\n e contemplar con atto pi\u00fa perfetto.\n Ma 'l ben che Dio per grazia ne dona,\n 35 se 'l d\u00e1 a costui ed a quel nol concede,\n non per\u00f2 fa iniuria a persona.\n Per grazia \u00e8 solo, non gi\u00e1 per mercede\n salir al paradiso; e tal acquisto\n far non si p\u00f2 senza battesmo e fede;\n 40 ch\u00e9 i battezzati col ben far permisto\n son quelli, a' quali Dio promette il cielo\n ed alli circoncisi innanzi a Cristo.\n Che alcun puniti siano in caldo e gelo\n per gran delitti e scelerosi mali,\n 45 apertamente ne 'l mostra il Vangelo.\n Ma questi, ch'ebbon le vert\u00fa morali,\n bench\u00e9 del ben di grazia sien privati,\n non per\u00f2 perdon li ben naturali.\n E per\u00f2 qui tra questi belli prati\n 50 a te mostrati son, che ti sia nota\n la gran vert\u00fa, della qual f\u00fbn dotati.\n S\u00ed come Ezechiel vide la rota\n e vide Ieremia un'olla accesa,\n ed altro intende la mente devota;\n 55 cos\u00ed qui altra cosa s'appalesa\n agli occhi tuoi, ed altra dalla mente\n nel senso vero debbe esser intesa.--\n Poich\u00e9 mostrata m'ebbe la gran gente,\n quelle sante donzelle si part\u00eero;\n 60 ed io su salsi una piaggia repente,\n tanto che io pervenni al quarto giro,\n ove la quarta porta era chiusa anco;\n e 'l muro tutto av\u00ede de fin zaffiro.\n Inginocchiato il pi\u00e9 diritto e il manco,\n 65 come chi vuol intrar quivi far usa,\n venne una ninfa vestita di bianco.\n Io percepetti ben ch'era una musa,\n ch\u00e9 'n capo avea d'alloro una grillanda;\n e questa apr\u00ed a me la porta chiusa.\n 70 Tutti i bei fior, che Zefiro ne manda,\n e tutto il canto della primavera,\n allor che amor la compagnia domanda,\n nulla sar\u00edeno al canto che quivi era:\n il lume di quel regno era s\u00ed accenso,\n 75 che ogni luce di qua parr\u00eda da sera.\n E, bench\u00e9 lo splendor fusse s\u00ed intenso,\n non per\u00f2 quello i mortali occhi offende,\n ma pi\u00fa acuto fa il visivo senso:\n cos\u00ed l'occhio mental, quand'egli intende,\n 80 si fa pi\u00fa vigoroso e fassi forte,\n quanto l'obietto visto pi\u00fa risplende.\n Della Prudenzia pervenni alla corte;\n e ben pareva la casa del Sole:\n tanti splendori usc\u00edan delle sue porte.\n 85 Intorno al pian vid'io le grandi scole\n de' filosofi saggi e de' poeti,\n d'Apollo e di Mercurio santa prole.\n Pensa se gli occhi miei erano lieti,\n vedendo di Parnaso il sacro monte,\n 90 qual per veder sostenni fami e seti;\n vedendo intorno al pegaseo fonte\n le nove muse, e di peneia fronda\n incoronarsi le tempie e la fronte;\n vedendo lo stillar della sacra onda;\n 95 udendo i dolci canti e le favelle,\n a' quai degno parea che 'l ciel risponda.\n Come dal sole \u00e8 'l lume delle stelle,\n cos\u00ed dalla gran corte di Prudenza\n ven\u00eda la luce in queste cose belle.\n 100 Nell'aula di tanta refulgenza\n la musa intrar mi fe', di cui le piante\n venni seguendo ins\u00fa con riverenza.\n Tra molte donne in mezzo a tutte quante\n una ne vidi, e dietro avea due occhi,\n 105 duo nelle tempie e duo ne avea dinante.\n Io dissi a lei, calando li ginocchi:\n --O donna, che 'l passato a mente rechi\n e che 'l presente miri e 'l fine adocchi,\n priego che l'ignoranza in me resechi;\n 110 e la mia mente illustra, acci\u00f2 che io\n non caggia o vada errando com'e' ciechi.\n Venuto son quass\u00fa dal mondo rio\n dietro a Minerva, ed ella fu mia duce;\n ella \u00e8 che ha guidato il passo mio.\n 115 Ella mi disse che tua chiara luce\n delle tre tue sorelle illustra ognuna\n e dietro a te ciascuna il pi\u00e8 conduce;\n e che lor mente ser\u00eda oscura e bruna,\n s\u00ed come stella senza l'altrui raggio\n 120 o come senza il sole oscura luna.\n Io vengo a te per l'aspero viaggio,\n come scolar che volentieri impara,\n ch'a lungi cerca chi lo faccia saggio.--\n S\u00ed come, quando a Febo s'interpara\n 125 alcuna nube, e poscia manifesta\n la bella faccia, che il mondo rischiara;\n cos\u00ed schiar\u00f2 sei occhi della testa,\n de' quai gli risplendette tutto il volto;\n poi mi rispose con parola onesta:\n 130 --S\u00ed come il senso e l'appetito stolto\n la Temperanza regge e fren lor pone,\n che \u00e8 mesura tra lo troppo e 'l molto,\n e s\u00ed come Fortezza lo sperone\n porge al voler, s'\u00e8 tardo o se declina\n 135 dalla vert\u00fa e dalle cose buone;\n cos\u00ed qui illustro con la mia dottrina\n la luce d'intelletto ovver mentale,\n ch\u00e9 l'arte e l'uso la vert\u00fa raffina.\n Questo splendore e luce naturale\n 140 \u00e8 prima legge all'uomo, ed ella \u00e8 atta\n poter discerner tra lo ben e 'l male.\n Ed in duo modi pu\u00f2 diventar matta,\n quand'ella non al fin del corso umano,\n ma nella via il suo piacere adatta:\n 145 cio\u00e8 in diletti, ovver nell'amor vano,\n in troppa cupidigia, in usar froda,\n o in rapina, o nell'arte di Gano.\n Io dir\u00f2 'l vero, e voglio ch'ognun l'oda:\n inganno, tradimento e falso gioco,\n 150 pur ch'util abbia, per vert\u00fa si loda.\n Prudente \u00e8 chi al fine, ovver al loco,\n al qual creato fu, drizza il cammino,\n e non al mondo, ov'egli ha a viver poco;\n e per la via fa come il pellegrino,\n 155 che per la via, s'\u00e8 saggio, non si carca,\n per ritornar ov'egli \u00e8 cittadino,\n e, mentre il corpo posa, col cor varca.--\nCAPITOLO IX\nNel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori.\n Io ascoltava ancor con gran piacere,\n quando su si lev\u00f2 quella virago\n per far le cose a me meglio vedere,\n perch\u00e9 s'avvide ben ch'io era vago\n 5 voler saper dell'altre cose belle,\n le qual con questo stil ora ritrago.\n Surson dirieto a lei le sue donzelle,\n ognuna in capo con una corona\n splendente pi\u00fa ch'a mezzanotte stelle.\n 10 Ad uno invito di bella canzona,\n la qual dic\u00eda:--Venite qui su ad erto,--\n salimmo al nobil monte d'Elicona.\n Quand'io andava, vidi il ciel aperto\n ed un gran lume al monte ingi\u00fa disceso,\n 15 tanto ch'egli ne fu tutto coperto.\n E tanto pi\u00fa e pi\u00fa pareva acceso,\n quanto pi\u00fa io mirava inver' la cima,\n insino al luogo, ov'egli era disteso.\n Li saggi e li poeti ditti prima\n 20 s'acceson di quel lume, ed ognun tanto,\n quanto pi\u00fa o men nel saper fu di stima.\n Le muse vidi allor a lungi alquanto\n venir ver' noi; ed ognuna di loro\n due rettorici avea appresso e accanto,\n 25 incoronati dello verde alloro\n tutto splendente; ed avean tutti quanti\n ancora in capo altra corona d'oro.\n --Virgilio e Tullio son quei duo dinanti\n --cominci\u00f2 a dire a me la dea Prudenza:--\n 30 quelli duo f\u00eanno i pi\u00fa soavi canti.\n Inseme Roma e la sua gran potenza\n venne in Augusto all'altura suprema,\n ed in costor lo stil dell'eloquenza.\n E quanto alcun s'appressa al lor poema,\n 35 tanto \u00e8 perfetto; e quanto va da cesso,\n tanto nel dir il bel parlar si scema.\n Omero \u00e8 l'altro, che vien loro appresso,\n il qual ad ogni dir gi\u00e1 detto in greco\n and\u00f2 di sopra e vinse per eccesso.\n 40 E, come ogni splendor oscuro e cieco\n si fa, quando \u00e8 presente un maggior lume,\n cos\u00ed ogni altro dir, ponendol seco.\n Quell'altro \u00e8 quel che fece il bel volume,\n Tito Livio dico, il quale spande\n 45 dell'arte d'eloquenzia s\u00ed gran fiume.\n Il quinto, in cui risplendon le grillande,\n \u00e8 l'alta tuba dotta di Lucano\n con valoroso dire adorno e grande.\n Egli si lagna che 'l sangue romano\n 50 fu sparso per li campi di Farsaglia,\n s\u00ed che vermiglio fe' tutto quel piano;\n e raccont\u00f2 della civil battaglia\n di Cesar e Pompeo e lor grand'onte\n coll'alto dir, che come spada taglia.\n 55 Ovidio \u00e8 l'altro, e 'l gorgoneo fonte\n gli die' nel poetar lingua s\u00ed presta\n e nelli metri s\u00ed parole pronte,\n che ha maggior grillanda in su la testa\n che gli altri qui, ma non per\u00f2 s\u00ed chiara,\n 60 s\u00ed come agli occhi ben si manifesta;\n e canta quanto \u00e8 dolce e quanto \u00e8 amara\n la fiamma di Cupido, e ch'al suo foco\n n\u00e9 senno, n\u00e9 altro scudo si ripara.\n Stazio napolitan tien l'altro loco;\n 65 Orazio \u00e8 l'altro e poscia Giovenale;\n Terenzio e Persio vengon dietro un poco.--\n Il pegaseo cavallo con doppie ale\n io vidi poscia, e mille lingue ed occhi\n aveva intra le penne, con che sale.\n 70 Avea pennuti i piedi e li ginocchi;\n e tanto sal, che non \u00e8 mai che Iove\n cos\u00ed da alto le saette scocchi.\n E vidi poscia come ben si move,\n volando fuor del fonte pegaseo,\n 75 ov'io pervenni e vidi cose n\u00f2ve.\n Demostene trovai ed anche Orfeo,\n che s\u00ed soave gi\u00e1 son\u00f2 sua cetra,\n con lo influir di Nisa e di Lieo,\n che moveva i gran sassi ed ogni pietra,\n 80 e con la melodia della sua voce\n scese in inferno in quella valle tetra;\n Pluton, senza piat\u00e1 crudo e feroce,\n mosse a piat\u00e1, e l'anime de' morti\n fece scordar del foco, che le coce;\n 85 facea tornar a drieto i fiumi torti;\n alfin ne trasse fuor la sua mogliera,\n col suon facendo a lei li passi scorti.\n Prudenzia, tra cotanta primavera,\n salir mi fe' nel gran monte Parnaso,\n 90 dove la sc\u00f2la filosofica era.\n Infino a pi\u00e8 del colle, a raso a raso,\n splendeva il lume grande di quel sole,\n che mai ebbe orto e mai aver\u00e1 occaso.\n Mentr'io sguardava a quelle grandi scole,\n 95 un pon\u00ede mente a me coll'occhio fiso,\n come chi ben cognoscer altrui vuole;\n e poi la bocca mosse un poco a riso,\n che fu cagion che lo splendor s'accese\n ed illustr\u00f2gli pi\u00fa la faccia e 'l viso.\n 100 Allor Prudenza a me la man distese\n dicendo:--Va', quello \u00e8 mastro Gentile\n del loco onde tu se', del tuo paese.\n La sperienza e lo 'ngegno sottile,\n ch'ebbe nell'arte della medicina,\n 105 e ci\u00f2 che egli scrisse in bello stile,\n demostra questa luce e sua dottrina.--\n Allor mi mossi ed andai verso lui,\n quando mi disse:--Va'--quella regina.\n --O patriota mio, splendor, per cui\n 110 e gloria e fama acquista el mio Folegno\n --diss'io a lui, quando appresso gli fui--\n qual grazia o qual destin m'ha fatto degno,\n che io te veggia? Oh, quanto mi diletta\n ch'io t'ho trovato in cos\u00ed nobil regno!--\n 115 Come fa alcun che ritornare affretta,\n che tronca l'altrui dire e lo suo spaccia,\n cos\u00ed fec'egli alla parola detta,\n e 'l collo poi mi strinse colle braccia,\n dicendo:--S'io son lieto ch'io ti veggio,\n 120 el mostra il lampeggiar della mia faccia.\n E son venuto dal celeste seggio\n qui per vederti ed anche a demostrarte\n della filosofia l'alto colleggio.\n Colui, che vedi in la suprema parte,\n 125 \u00e8 Aristotel, l'agnol di natura:\n egli \u00e8 che aperse la scienzia e l'arte,\n tanto che chi al ver vuol poner cura,\n nullo, in quanto uomo, pesc\u00f2 tanto al fondo,\n quanto fec'egli, e vol\u00f2 s\u00ed in altura.\n 130 Alberto Magno \u00e8 dopo lui 'l secondo:\n egli suppl\u00ed li membri e 'l vestimento\n alla filosofia in questo mondo.\n Il gran Platone \u00e8 l'altro, che sta attento,\n mirando al cielo, e sta a lui a lato\n 135 Averois, che fece il gran comento.\n Socrate poscia tiene il principato,\n dottor nella moral filosofia;\n e Seneca \u00e8 con lui accompagnato.\n Pitagora, che 'l conto trov\u00f2 pria,\n 140 \u00e8 l'altro; poi Parmenide e Zenone\n e quel che pone che 'l gran caos sia.\n Sguarda Avicenna mio con tre corone,\n ch'egli fu prence e di scienza pieno\n ed util tanto all'umane persone.\n 145 Ipocrate \u00e8 con lui e Galieno\n e gli altri, per cui 'l corpo si defende,\n che innanzi al tempo suo non venga meno.\n Questo splendor, che questo monte accende,\n da Dio deriva e 'nsin quaggi\u00fa procede,\n 150 e negli angeli suoi prima risplende,\n e poi nelli dottor di santa fede.\n E sappi ben che ci\u00f2 che 'l ciel su cela,\n nullo intelletto, in quanto umano, el vede,\n se Dio con maggior lume nol rivela;\n 155 e questo lume qui, rispetto a quello,\n \u00e8 tanto, quanto al sol parva candela.--\n Poi su pel raggio, ov'\u00e8 pi\u00fa chiaro e bello,\n egli n'and\u00f2 colle celesti penne,\n volando inverso il ciel s\u00ed come uccello;\n 160 e retorn\u00f2 al loco, onde pria venne.\nCAPITOLO X\nDelle specie ovvero delle parti della prudenza.\n Dietro al mio cittadino avea lo sguardo,\n quando Prudenzia disse:--Ormai ti volta\n a veder l'altre cose, e non sie tardo.--\n Come scolaio che 'l suo mastro ascolta,\n 5 io stetti attento e piegai le mie braccia,\n mirando lei con riverenzia molta.\n Ed ella a me:--Io voglio che tu saccia\n che lo mio offizio \u00e8 quadripartito,\n ch\u00e9 a quattro fin dirizzo la mia faccia;\n 10 ch\u00e9 la prudenza, di cui hai udito,\n fatta \u00e8 da Dio che guidi e signoregge,\n s\u00ed come imperator bene obbedito.\n Per\u00f2 il prudente pria se stesso regge;\n ch\u00e9, se alcun non guida ben se stesso,\n 15 mal regger\u00e1 la sua subietta gregge.\n E, come il Genesis ne dice espresso,\n l'appetito lascivo all'uom subiace,\n s\u00ed come servo a signor sottomesso.\n Il fin di questo \u00e8 ch'alla somma pace\n 20 gli occhi dirizza ed attura l'orecchia\n alle lusinghe del mondo fallace.\n E nell'ultimo fin sempre si specchia,\n io dico in Dio, ed anco indietro sguarda\n al tempo che trasvola e sempre invecchia.\n 25 L'altra prudenza, presta e non mai tarda,\n icomica si chiama, c'ha 'l governo\n della famiglia e la sua casa guarda.\n Questa provvede l'arriedo paterno\n alli figliuoli, il vestimento e l'\u00e9sca,\n 30 ed alli campi per la state e 'l verno.\n Il fin di questa \u00e8 che in divizie cresca\n e ch'abbia prole buona e siagli erede,\n e che del mondo alfin con onor esca.\n Terza prudenza a guerra move 'l piede,\n 35 chiamata di milizia triunfale,\n la qual al mondo pria Marte gli diede;\n ch\u00e9 la prudenza, in quel ch'\u00e8 duca, vale\n pi\u00fa che la forza e fa vie maggior guerra,\n che non fa 'l caldo giovanil ch'assale.\n 40 Gran moltitudin spesse volte atterra\n un ben picciolo stuolo; e questo avviene,\n quando nell'arte militar non s'erra.\n Il fin di questo, se tu noti bene,\n \u00e8 la vittoria e pace; e sol per questo\n 45 guerra si piglia ed anco si mantene.\n L'altra, s\u00ed come hai letto in alcun testo,\n politica si chiama e regnativa;\n e, perch\u00e9 bene a te sia manifesto,\n in prima sappi che ogni cosa viva\n 50 ed anche ci\u00f2 che non ha vita, \u00e8 retto\n dalla prima cagione, onde deriva.\n E questa \u00e8 primo e supremo intelletto\n e prima provvidenza, e questa ha 'n cura\n e drizza verso il fine ogni suo effetto.\n 55 S\u00e9guita poi l'angelica natura,\n la qual dispon, voltando sopra il cielo,\n ci\u00f2 che in spezie in sempiterno dura.\n Onde, che l'ape faccia il favomelo\n e che del gran provvegga la formica\n 60 tutta la state pel tempo del gelo,\n el fa l'intelligenza, che 'i notr\u00edca;\n e ci\u00f2 che senza mezzo da lei piove,\n non rinnovella et\u00e1, o f\u00e1lla antica.\n Ma ogni effetto, che con mezzo move,\n 65 bench\u00e9 influisca, movendo sua spera,\n conven che 'nvecchi e l'altro si rinnove.\n E, quando \u00e8 discordante la matera\n dall'influenza, non p\u00f2 l'operante\n dar la sua forma tutta quanta intera:\n 70 per\u00f2 le cose non son tutte quante\n d'una perfezione: per\u00f2 'l naso\n alcuno ha meno e 'l dito, e alcun le piante.\n Non \u00e8 per\u00f2 ch'ella erri o faccia a caso;\n ma fa come il vasaio, a cui mancasse\n 75 la terra, che non fa perfetto il vaso.\n Seguitan poi le signorie pi\u00fa basse\n delli reami dell'umane genti,\n subiette al tempo, che convien che passe;\n ci\u00f2 che avvien per casi contingenti,\n 80 ci\u00f2 che puote arte ovver umano ingegno,\n non per\u00f2 che da Dio sien mai esenti,\n commessi sono a vostro umano regno;\n e quanto lo 'ntelletto \u00e8 acuto e saggio,\n tanto a signoreggiarli \u00e8 atto e degno,\n 85 perch\u00e9 prudenzia, s\u00ed come detto aggio,\n del reggimento \u00e8 la prima radice,\n quando si guida dietro al primo raggio.\n Perci\u00f2 un disse il mondo esser felice,\n quando a lui guidaranno i saggi il freno\n 90 e Sapienza aran per lor nutrice.--\n Per satisfarmi poi del tutto appieno,\n mi disse:--Sguarda omai e drizza il viso\n alle donzelle, che a lato mi meno.\n Questa, che dalla lunga mira fiso\n 95 il futur tempo, \u00e8 detta Provvidenza,\n che bon tesor ripone in paradiso.\n E l'altra \u00e8 la Presente Intelligenza;\n l'altra \u00e8 Memoria ovver esperta mente,\n che del passato tempo ha esperienza.\n 100 E queste tre far\u00eden poco o niente,\n se non che ognuna parturisce e figlia\n altre Vert\u00fa, che fanno esser prudente.\n Per\u00f2 la quarta \u00e8 Vert\u00fa che consiglia,\n la qual la Provvidenza mena seco,\n 105 che senza consigliar sempre mal piglia;\n ch\u00e9, come senza guida cade il cieco,\n cos\u00ed conven che l'uom, andando, tome\n senza consiglio e ch'erri come pieco.\n Solerzia la quinta ha poscia nome,\n 110 cio\u00e8 sollicitu' ingegnosa ed arte:\n quest'\u00e8 che trova il fine, il perch\u00e9 e 'l come;\n ch'ogni voler, che da casa si parte\n per voler camminar agli alti fini\n di Iove ovver d'Apollo ovver di Marte,\n 115 convien che sia ingegnoso e che festin\n e che la possa e che li modi trovi\n che al proposto fin ben si cammini.\n Alquanto ancora addietro gli occhi movi\n alla vert\u00fa che Provvidenza \u00e8 detta,\n 120 acci\u00f2 ch'anco di lei udir ti giovi.\n Convien ch'ella sia cauta e circumspetta;\n e per\u00f2 \u00e8 Cautela l'altra luce,\n la qual provvede al mal che si suspetta;\n ch\u00e9 non \u00e8 saggio ovver prudente duce\n 125 chi spregia il suo nemico o chi nol teme,\n ch\u00e9 timor senno e prudenza produce.\n L'altra donzella, che con lei sta inseme,\n \u00e8 qui chiamata Circumspezione,\n d'Intelligenzia ancor secondo seme.\n 130 Ella \u00e8 che gli atti e la condizione\n e 'l quanto e 'l come, mesurando, attende\n e li subiti casi e le persone.\n Docilit\u00e1 \u00e8 l'altra che risplende,\n cos\u00ed chiamata, ovver ingegno buono,\n 135 se d'uso e di scienza ben s'accende.\n Vero \u00e8 che ingegno \u00e8 un natural dono;\n ma, quando l'uso e l'arte questa cetra\n temperan s\u00ed, che ha perfetto suono,\n Docilit\u00e1 si chiama, che pen\u00e8tra\n 140 s\u00ed nel veder, che sa pigliar lo scudo,\n 'nanzi che in capo gli giunga la pietra.\n Alcun lo 'ngegno ha tanto grosso e rudo,\n che la scienza s'affatica invano\n che mai a provvedersi egli abbia cudo.\n 145 Bench\u00e9 in alcun sia l'intelletto umano\n e grosso e rozzo, si fa luminoso,\n quand'egli stesso vi vuol tener mano;\n ch\u00e9 un, che 'l cielo facea vizioso,\n respuse:--La scienza mi fe' casto,\n 150 e l'assiduit\u00e1 mi fe' ingegnoso.--\n E spesso vidi gi\u00e1 esser contrasto\n tra 'l sasso e l'acqua, e una goccia sola,\n cadendo spesso, l'ha forato e guasto.--\n La man mi prese dopo esta parola,\n 155 dicendo:--Addio, addio, dolce figliolo;\n ch'io vo' tornar a mia beata sc\u00f2la.--\n Partissi allor con quel beato stuolo,\n ed io pi\u00fa ad alto presi la mia via;\n e forse un sesto miglio era ito solo,\n 160 quando m'occorse un'altra compagnia.\nCAPITOLO XI\nDella virt\u00fa della giustizia, e come e perch\u00e9 furono trovate le leggi.\n La nobil compagnia, ch'io trova' allora,\n fu quella vergin sacra, con cui 'l sole\n a mezzo agosto e settembre dimora,\n non gi\u00e1 d'Astreo, ma di divina prole.\n 5 Quand'ella percepette ch'io la vidi,\n benignamente disse este parole:\n --Con qual ardir quass\u00fa venir ti fidi?\n come, cos\u00ed soletto, movi il passo?\n or non hai tu persona che ti guidi?\n 10 Se tu venuto se' dal mondo basso,\n qual fu quella Virt\u00fa, la qual ti sc\u00f2rse\n tra' regni tristi del re Satanasso?--\n Ed io a lei:--Minerva mi soccorse,\n quando per mio errore era ito al fondo,\n 15 onde a cavarmi la sua man mi porse.\n Mostrato m'ha lo inferno, il limbo e 'l mondo\n e delli vizi li reami crudi;\n poi mi condusse nel giardin giocondo,\n ove veduto ho io le tre Vertudi;\n 20 e tutte insieme con festa e diletto\n menato m'han tra nobili tripudi.\n Cercando or vo colei, da cui fu retto\n s\u00ed in pace il mondo, che sub suo governo\n fu l'et\u00e1 d'oro e 'l secol benedetto.\n 25 --Poi ch'Avarizia usc\u00edo fuor dell'inferno,\n a cui la voglia mai sazi\u00f2 pasto,\n n\u00e9 poter\u00e1 saziar mai in eterno,\n quel reggimento buon fu tutto guasto,\n perch\u00e9 la forza vinse la ragione\n 30 e conculcolla con superbia e fasto.\n Allor li Vizi preson le corone\n delli reami, e leggi inique e rie\n teson per lacci e lev\u00f4n via le buone.\n Per questo Astrea dal mondo si part\u00ede\n 35 e quass\u00fa venne; ed ha la signoria\n coll'altre tre sorelle oneste e pie.\n --Perch\u00e9 tu fossi omai la scorta mia,\n che io venissi sol--dissi--a Dio piacque;\n per\u00f2 io prego: mostra a me la via.--\n 40 Qual si fe' Citarea, nata tra l'acque,\n in sul partir del suo figliuolo Enea,\n che confess\u00f2 nel viso ci\u00f2 che tacque,\n cotal fece ella e disse:--Io sono Astrea,\n che resse il mondo con iuste bilance,\n 45 innanzi che la gente fusse rea.\n Quando Superbia colle enfiate guance\n e li danar f\u00ean la ragion subietta,\n scacciata fui con spade e con lance.\n Da che il mio regno veder ti diletta,\n 50 verraimi dietro; e fa' che mai in fallo\n dall'orme mie il piede tu non metta.--\n Un sesto miglio forse d'intervallo\n era ita, quand'io giunsi al regno quarto,\n ch'avea le mura tutte di cristallo.\n 55 L\u00ed era un uscio piccoletto ed arto,\n il qual tantosto a noi aperto fue,\n quando gittaimi in terra tutto sparto.\n Intrammo dentro e poco andammo insue,\n che le sue dame con corone in testa\n 60 vennono incontro a noi a due a due.\n Poich\u00e9 gran riverenzia e molta festa\n ebbon mostrata, stette innanzi ognuna\n come alla donna ancilla a servir presta.\n E, come il cerchio che a s\u00e9 fa la luna,\n 65 quando dimostra che 'l seguente giorno\n sar\u00e1 seren, cacciando l'aria bruna:\n cos\u00ed facean a lei il cerchio intorno,\n cos\u00ed di s\u00e9 una corona fenno\n alla Iustizia, che fa l\u00ed soggiorno.\n 70 E, poco stando, ed ella fece cenno\n ad una che dicesse alcuna stanza;\n e l'altre tutte quante attente stenno.\n Come donzella che ha a guidar la danza,\n che a chi l'invita riverenzia face\n 75 e po' incomincia vergognosa e manza;\n cos\u00ed colei, e disse:--Da che piace\n alla nostra signora che le lode\n dica del regno che a lei subiace,\n tu, che se' vivo, ben ascolta ed ode,\n 80 ch\u00e9 la regina, la qual qui ne regge,\n vuol che a noi giovi e a te faccia prode.\n --La voglia e la ragion del sommo Regge\n --cominci\u00f2 poi--\u00e8 la prima mesura,\n regola e verit\u00e1 \u00e8 prima legge.\n 85 E ci\u00f2, che segue lei, va a dirittura;\n e, quando alcuna cosa da lei parte,\n tanto convien che torca e vada oscura.\n E, perch\u00e9 questa \u00e8 regola ad ogni arte,\n quando dall'arte torce l'operante,\n 90 convien che l'opra vada in mala parte.\n E le scienze e leggi tutte quante\n vengon da questa; e tanto ognuna \u00e8 dritta,\n quanto di questa seguitan le piante,\n perch\u00e9 ogni legge convien che sia scritta\n 95 e promulgata, acci\u00f2 che chi 'n quella erra,\n non possa avere alcuna scusa fitta.\n Per\u00f2, quando Dio fe' l'uomo di terra,\n conscrisse in lui questa legge eternale,\n quando l'alma spir\u00f2, che 'l corpo serra.\n 100 E questa fu la legge naturale;\n e, mediante questa luce eterna,\n ognun conoscer pu\u00f2 tra 'l bene e 'l male.\n A questa legge fu poi subalterna\n l'antica e nova; ed ognuna bast\u00e2ra,\n 105 se non che 'l mondo s\u00ed mal si governa.\n E, poich\u00e9 fu la gente fatta avara,\n la legge natural e la divina\n fu ecclipsata, che in prima era chiara.\n Corson le genti a froda ed a rapina;\n 110 ed eran senza legge e senza duce,\n ond'era il mondo in rotta ed in ruina.\n Ed uno, in cui splendea pi\u00fa questa luce,\n congreg\u00f2 alcuno e mostr\u00f2 in quanto errore\n il vivere bestial altrui conduce.\n 115 A poco a poco, con questo splendore\n mostr\u00f2 che i rei e viziosi e vili\n di legge avean bisogno e di signore.\n Allor principi\u00f4n leggi civili,\n sopra le qual son tante chiose poste,\n 120 che gi\u00e1 si troncan: s\u00ed si fan sottili.\n E le pi\u00fa sonno storte e sonno opposte\n al senso vero e primo intendimento,\n merc\u00e9 alli denar che l'hanno esposte.\n Se a ci\u00f2, che ho detto, ben se' stato attento,\n 125 iustizia \u00e8 s\u00ed degna e s\u00ed risplende,\n che d'ogni sodo stato \u00e8 'l fundamento,\n tanto che li ladroni e chi l'offende\n e nullo conversar mai durar puote,\n se modo di iustizia non apprende.\n 130 Se anche ci\u00f2, ch'io ho detto, tu ben note,\n Iustizia fu da cielo e di Dio \u00e8 figlia,\n ed ogni bona legge a Dio \u00e8 nipote.--\n E qui tacette; ed io alzai le ciglia\n e vidi molti inver' di noi venire\n 135 uomin d'estima e di gran maraviglia.\n Ed un di loro a me cominci\u00f2 a dire:\n --Or cesser\u00e1 laggi\u00fa il mondo unquanco\n novi statuti e n\u00f2ve leggi ordire?\n Non son venute ancor le carte manco?\n 140 non son le voci advocatorie fioche\n delli notai, ch'abbaian forte al banco?\n Se 'l danar non facesse che si advoche,\n non sar\u00eda in terra conculcato il vero,\n e bastar\u00edan le leggi buone e poche.\n 145 Io son quel re piatoso, e fui severo,\n che la dolcezza temperai col duolo\n nel nato mio, che trova' in adult\u00e8ro.\n Io fei cavar un occhio al mio figliolo:\n e, perch\u00e9 ne dovea perdere dui,\n 150 io pagai l'altro e serbaimene un solo.\n In quanto padre, fui piatoso a lui;\n in quanto re, servai la legge intera:\n s\u00ed che pio padre e iusto re io fui.\n Quest'altro \u00e8 Bruto, l'anima severa,\n 155 che, per servar la legge, ardito e forte\n a duo suoi figli seg\u00f2 la gorgiera.\n Pi\u00fa tosto volle ad elli dar la morte,\n che la iustizia fusse morta in loro,\n o che mancasse alla pubblica corte.\n 160 L'altro, ch'\u00e8 'l terzo qui tra 'l nostro coro,\n chiese il figliolo alla mortal sentenza\n 'nanti al senato e al roman concistoro;\n ch\u00e9 combattuto avea senza licenza,\n e, bench\u00e9 avesse avuta la vittoria,\n 165 reo el prov\u00f2 di tanta penitenza,\n che legge contra lui fac\u00ede memoria.--\nCAPITOLO XII\nTrattasi delle parti della giustizia.\n Mentr'i' a quegli uomin iusti stava atteso,\n subitamente mi percosse un tuono,\n che mi stord\u00ed e fe' cader disteso.\n E, come quei che a forza desti sono,\n 5 poi mi levai e vidi star Astrea\n come reina posta in alto trono,\n splendente e triunfal quanto una dea:\n mai tanta maest\u00e1 mostr\u00f2 Iunone,\n quando con Iove tra li d\u00e8i sedea.\n 10 Le dame sue con splendide corone\n aveva innanzi a s\u00e9 e gran diletti\n di belli fior, di suoni e di canzone.\n Poi drizz\u00f2 a me, parlando, questi detti:\n --O tu, ch'io scorsi, omai la mente attenda,\n 15 se del collegio mio saper aspetti.\n Iustizia vuol che 'l debito si renda\n a chiunque el merta, e quando si conviene,\n e senza colpa mai nessun si offenda,\n e sol da quello, a cui punir pertiene.\n 20 Da queste due radici son li frutti,\n che la iustizia produce e contiene.\n L'uomo a tre cose \u00e8 debitore a tutti:\n ad usar vero e fede e buon amore,\n s\u00ed che rancore o froda non l'imbrutti.\n 25 Tre debiti si debbono al minore:\n dottrina al figlio e farlo virtuoso,\n e soldo al fante ovver al servidore;\n il terzo \u00e8 sovvenire al bisognoso,\n ch\u00e9 ogn'ardua indigenzia pu\u00f2 dir \u00abmio\u00bb\n 30 di quel che crudelt\u00e1 gli tien nascoso.\n Tre debiti a colui, il qual \u00e8 rio:\n cio\u00e8 correzion, quando si spera\n ch'egli si mendi e si converta a Dio.\n E, nel mal far se indura e persev\u00e9ra,\n 35 tagli col ferro e con la spada nuda\n il membro infetto la Vert\u00fa severa.\n N\u00e9 per questo si debbe chiamar cruda,\n mozzando il morbo ch'alla morte mena:\n convien che la piat\u00e1 gli occhi vi chiuda.\n 40 Severit\u00e1 adunque a dar la pena\n prima conviensi, e poi ch'anco sia mista\n colla compassion, ch'ira raffrena.\n E tre al buon, il qual virt\u00fa acquista,\n ch\u00e9 chiunque pu\u00f2, tenuto \u00e8 dargli aiuto,\n 45 ch'addietro non ritorni o non desista;\n ch\u00e9 spesse volte l'arbor ho veduto\n crescere ratto e far frutto tantosto\n per buon conforto e c\u00f3lto, ch'egli ha avuto;\n e forse un altro, presso a quello posto,\n 50 perch'\u00e8 negletto o che ha terreno asciutto,\n sta senza frutto ed a mancar disposto;\n e, bench\u00e9 paia smorto e gi\u00e1 distrutto,\n il c\u00f3lto e buon letame alle radici\n el fan fiorire e fanli far buon frutto.\n 55 Quanti sar\u00edan per la vert\u00fa felici,\n che, desviati, ovver per mancamento,\n son pervenuti a bassi e vili offici!\n Alla vert\u00fa, venuta a compimento,\n debito solve chiunque onor gli rende\n 60 d'atti e parol, di loco e reggimento.\n Non mai vert\u00fa, che di splendor s'accende,\n si debbe por a basso o sotto scanno,\n ma suso in alto, ov'ella pi\u00fa risplende.\n Tre a' benefattor, che ben ne fanno:\n 65 prima, che chi riceve, non si scorde\n del benefizio, n\u00e9 di quei che 'l d\u00e1nno;\n e poscia ch'el ringrazi almeno in corde,\n s'egli non p\u00f2 coll'opera, e in aperto\n sovente con la lingua lo ricorde.\n 70 Ma ora il mondo \u00e8 s\u00ed rio e diserto,\n che, quando il benefizio molto eccede,\n s\u00ed che non pu\u00f2 o non vuol render merto,\n si duol, se scontra ovver presente vede\n il suo benefattor e china il volto;\n 75 ed alcun altro in pi\u00fa error procede,\n ch\u00e9, quando il benefizio \u00e8 grande molto,\n al suo benefattor opta la morte,\n che dall'obligo suo ne sia disciolto.\n Non per\u00f2 'l liberal chiuda le porte\n 80 per l'altrui vizio alla sua cortesia,\n n\u00e9 lassi, a dar, tener le mani sporte;\n ch\u00e9 chiunque d\u00e1 ch'a lui donato sia\n per ricompenso, non \u00e8 liberale,\n ma mercatante ch'usa mercanzia.\n 85 Tre cose debbi a chiunque tu se' eguale:\n prima, equit\u00e1 d'una bilancia ritta,\n s\u00ed che la sua non saglia e la tua cale.\n L'altra \u00e8 la legge nel Vangelio scritta:\n ch'altrui non facci cosa, che vorresti\n 90 che a te non fusse fatta, n\u00e9 anco ditta.\n Concordia vien la terza dopo questi\n tra l'arti, tra i compagni e dentro al tetto,\n dove dimori, e i vicin non molesti.\n Ed al superior, cui se' subietto,\n 95 due cose debbi; e, prima, obbedienza,\n poi onorarlo con fatto e con detto.\n Tre cose al padre, di cui se' semenza,\n ed alla madre tua ed a' primi avi,\n e prima sopra tutto riverenza.\n 100 Se in la vecchiezza elli han costumi gravi,\n che li sopporti, e loro et\u00e1 antica\n aiuti lieto e con parol soavi.\n Ric\u00f2rdite l'angoscia e la fatica,\n ch'ebbe la madre in te, e degli affanni,\n 105 che porta il padre, che 'l figliol notr\u00edca.\n L'aquila, quando \u00e8 giunta agli antichi anni,\n s'attosca e spenna; e nel nido da' figli\n nutrita \u00e8, insin che rinnovella i vanni.\n Ed alla patria, da cui l'esser pigli\n 110 debitor se', che l'ami e la defensi,\n e 'l comun cresci, aiuti e che 'l consigli.\n Se' debitor a Dio, se tu ben pensi,\n che conosci suoi doni e che tu l'ami\n con tutto il core e con tutti li sensi.\n 115 E questo amor produce molti rami:\n religion, che solo Dio adori,\n devoto orando, e genuflesso el chiami,\n e che lui servi come padre, onori\n le chiese e le sue cose, e li d\u00ed santi,\n 120 vacando a lui, per l'anima lavori.\n E questi detti io posso tutti quanti,\n abbreviando, recarli a sei modi:\n per\u00f2 sei son le dame, ch'io ho innanti.\n Latr\u00eda \u00e8 prima, e vien a dir che lodi,\n 125 ami ed adori Dio e che 'n Lui fondi\n ogni altro amor terren, del qual tu godi.\n Piet\u00e1 \u00e8 l'altra, e due amor secondi\n delli parenti, e prima che sia tanto,\n che alli bisogni lor non ti nascondi.\n 130 La terza \u00e8 Observanzia, l'onor santo\n fatto agli antichi e virtuosi e buoni,\n ed a chi porta di dignit\u00e1 il manto.\n La quarta \u00e8 Gratitudin delli doni.\n Equit\u00e1 \u00e8 la quinta ed usar vero\n 135 in apparenzia, in fatti ed in sermoni.\n Sesta \u00e8 Vendetta e l'animo severo\n con la compassione al cor unita,\n tardo al tormento e non troppo austero;\n ch\u00e9 chiunque vuol che colpa sia punita,\n 140 se non ha emenda, molto offende ed erra,\n ch\u00e9 Dio non vuol la morte, ma la vita.\n Per\u00f2 'l divino f\u00f2ro a niuno serra\n la porta di piat\u00e1, s'egli si pente\n con umilt\u00e1 inginocchiato a terra.\n 145 Ma, perch\u00e9 'l malfattore spesso mente,\n dicendo:--Io son pentito--, l'altro f\u00f2ro,\n cio\u00e8 'l civile, adopera altramente;\n ch'ogni scienza ed arte ovver lavoro\n prendon diversit\u00e1 dalli lor fini,\n 150 alli quai prima elli ordinati f\u00f4ro.\n Il civil f\u00f2ro ha 'l fin che medicini,\n governi e purghi il corpo del comune,\n che per li viziosi non ruini.\n Per questo egli usa spada, fuoco e fune,\n 155 sbandisce e taglia e mai non d\u00e1 speranza\n che chi \u00e8 reo possa andare impune.\n E, bench\u00e9 pianga e chiegga perdonanza,\n non vuol udir; ch\u00e9 chi \u00e8 predon o fura,\n s'\u00e8 liberato, e' torna a prima usanza.\n 160 In questo modo la legge assecura\n el viver lieto e i buoni e vertuosi,\n e li cattivi scaccia ed impaura.\n Se questi detti miei tu ben li chiosi,\n concluderai che la legge fu fatta\n 165 pe' trasgressor al buon viver noiosi,\n e fu da' virtuosi in prima tratta.--\nCAPITOLO XIII\nDove trattasi singolarmente della virt\u00fa dell'equit\u00e1 e della verit\u00e1\ne de' valenti canonisti e legisti.\n --Domanda--aggiunse Astrea--de' regni miei;\n omai di' ci\u00f2 che vuoi, e ben t'accerta\n e delle dame mie tutte e sei.--\n Quando mi vidi far tanta proferta,\n 5 con quella parte io la ringraziai,\n che chiede Dio all'uom per prima offerta.\n E poi con riverenzia domandai:\n --Perch\u00e9 la Verit\u00e1, la quinta sposa,\n che Equit\u00e1 ancor nomata l'hai,\n 10 la veggio singulare in una cosa,\n ch\u00e9 porta la bilancia ed ella sola\n tra la sua schiera \u00e8 la pi\u00fa gloriosa?--\n Rispose Astrea a questa mia parola:\n --Da questo nome \u00ab_ius_\u00bb, se noti bene,\n 15 come si espone in la civile scola,\n Iustizia \u00e8 detta, a cui tener pertiene\n egual bilance. \u00c8 ver che 'n alcun caso\n ei non si puote ovver non si conviene;\n ch\u00e9 'l don di Dio accolma tanto il vaso,\n 20 e de' parenti a' figli, ch\u00e9 chi rende,\n non p\u00f2 render appien, ma men che a raso.\n Cos\u00ed all'uom, che di vert\u00fa risplende,\n piena mesura non si rende ancora,\n ch\u00e9 nullo ben terren tanto s'estende;\n 25 ch\u00e9 la virt\u00fa \u00e8 s\u00ed degna, s\u00ed decora\n e s\u00ed eccellente, ch'ogni volta eccede\n ogni ben temporal, che lei onora.\n Ed a colui che 'l benefizio diede,\n render si puote egual; ma chi \u00e8 grato,\n 30 anche pi\u00fa oltra al dato stende il piede.\n E cos\u00ed la vendetta del peccato\n merita egual; ch\u00e9 quanto fu 'l delitto,\n tanto ognun merta d'esser tormentato.\n Ma, com'io dissi sopra e trovi scritto,\n 35 iustizia punitiva \u00e8 crudelt\u00e1,\n se la piet\u00e1 non mitiga l'editto.\n Per\u00f2 null'altra in man le bilance ha,\n se non la quinta dama di mia schiera,\n chiamata Equitate e Verit\u00e1;\n 40 ch\u00e9 a lei sola appartien che la statera\n tegna diritta e che in detto e 'n fatto,\n in quel che tratta, sia trovata vera.\n Ogni ristoro e ci\u00f2 che si fa a patto,\n ella pertratta e grida che si renda\n 45 quanto la froda o forza hanno suttratto.\n Perch\u00e9 tu queste cose meglio intenda,\n pensa se alcun rifar dovesse diece,\n ed egli a nove a ristorar si estenda.\n Costui non pienamente satisfece,\n 50 ch\u00e9 convien sempre che 'l ristor sia eguale\n al danno ed all'iniuria, ch'altrui fece.\n Ell'\u00e8 che grida non far altru' il male,\n che non vorresti tu; e quanto hai offeso,\n tanto restituisci ed altrettale.\n 55 D'esto nome Equitate assai ha' inteso;\n or, perch\u00e9 Verit\u00e1 ella si chiama,\n io ti dir\u00f2, ch'ancor non l'hai compreso.\n Dopo il ristoro, questa quinta dama\n pertratta ci\u00f2 ch'insieme si patteggia:\n 60 questa \u00e8 la sua materia e la sua trama.\n A lei pertien che guidi e che proveggia\n che ci\u00f2 che si promette o mercatanta,\n che sia corretto, quando si falseggia,\n e che la mercanzia sia quella e tanta,\n 65 che \u00e8 promessa, e quando, dove e come\n e qual, se quella \u00e8 guasta o troppo schianta.\n E per\u00f2 Verit\u00e1 \u00e8 l'altro nome;\n ed ha duo nomi, perch\u00e9 ha duo offici,\n ch\u00e9 usa il vero ed eguaglia le some.\n 70 L'altra domanda, la qual tu mi dici,\n \u00e8, da che porta singular insegna,\n s'ella \u00e8 maggior tra le dame felici.\n Ogni vert\u00fa tanto \u00e8 eccellente e degna\n --rispose a questo,--quanto \u00e8 di pi\u00fa pregio\n 75 il fine intento, al qual venir s'ingegna.\n Al fin pi\u00fa glorioso e pi\u00fa egregio\n ingegnasi Latr\u00eda; per\u00f2 l'aspetto\n ha pi\u00fa splendente in tutto il mio collegio.\n Ella \u00e8 che sale al ciel con l'intelletto\n 80 e, dimorando in terra sua persona,\n ella sta innanzi al divino cospetto;\n e l\u00ed, orando, con Dio si ragiona;\n poi si mesura e pon s\u00e9 in la bilancia,\n nell'altra li gran ben, che Dio ne dona.\n 85 E vede i don di Dio di tanta mancia,\n e tanto grandi, che a rispetto a quelli\n ci\u00f2 che l'uom render pu\u00f2, \u00e8 una ciancia.\n E, bench\u00e9 vegga Dio cogli occhi belli,\n nientemen le bilance non porta,\n 90 ancora che ella, orando, a Dio favelli;\n ch\u00e9 ogni gratitudo \u00e8 lieve e corta,\n rispetto al don di Dio; e, se si pesa,\n troppo andarebbe la statera torta.\n E con questa ragion, ch'or hai intesa,\n 95 sappi che quanto \u00e8 natural l'amore,\n tanto, negletto o tronco, \u00e8 di pi\u00fa offesa.\n E nullo vinclo debbe esser maggiore,\n e nullo amor pi\u00fa stretto e pi\u00fa eccellente\n che dalla creatura al suo Fattore.\n 100 Per\u00f2 chi 'l tronca e chi v'\u00e8 negligente,\n veder si puote in quanta offesa cade,\n chi nol frequenta o chi non gli \u00e8 obbediente.\n Questo primaio amor prima pietade\n disson gli antichi, e che 'l culto divino\n 105 \u00e8 la prima vert\u00fa, prima bontade.\n Per\u00f2 il re Pri\u00e1mo e 'l buon Quirino,\n ed Alessandro in pria fenno li tempii,\n e Salomone el copr\u00edo d'oro fino.\n Ed, offerendo, al vulgo dienno esempii;\n 110 e chi non frequentava il divin c\u00f2lto,\n chiamavano crudeli, iniqui ed empii.\n Ma ora \u00e8 s\u00ed negletto e s\u00ed rivolto\n a Satanasso per diverse vie,\n che, pi\u00fa che a Dio, a lui si volta il volto.\n 115 Con superstizioni e con malie\n or son fatti teatri i sacri lochi\n a vagheggiarvi e farvi ruffianie.\n Quanti Iasoni e quanti re Anti\u00f2chi\n lo imbruttano ora, e Dionisi e Varri\n 120 son stupratori degli eterni fochi!\n I filistei riposono in sui carri\n l'arca di Dio, per non inviziarse,\n e tanto mal che di lor non si narri.\n La barbaresca man, che sangue sparse\n 125 gi\u00e1 tanto in Roma, che destrusse e incese\n i gran palagi e il Capitolio arse,\n fu reverente ai tempii ed alle chiese;\n ch\u00e9 chiunque fugg\u00ed a quelli de' romani,\n fu libero da morte e dall'offese.\n 130 Io ho toccati questi esempli strani\n degl'infideli, e questo ho posto solo\n per emendar li crudeli cristiani.\n L'altr'\u00e8 l'amor, il qual debbe il figliolo\n a' genitori, la piet\u00e1 seconda,\n 135 ed alla patria del nativo suolo.\n Ed ogni amor, che la natura fonda,\n \u00abpiet\u00e1\u00bb si chiama, e cos\u00ed per opposto\n \u00abcrudel\u00bb \u00e8 detto chiunque el confonda.--\n Tacette poi che questo ebbe risposto.\n 140 Allor vidi venir molti col vaio\n ver' noi col lume in su la testa posto.\n --Iustinian son io--disse il primaio,\n --che 'l troppo e 'l van secai f\u00f2r delle leggi,\n ora subiette all'arme ed al denaio.\n 145 Iurisconsulti e gran dottori egreggi\n vengon qui meco da stato giocondo,\n perch\u00e9 tu gli odi e perch\u00e9 tu li veggi.\n Questo, che mi sta a lato, \u00e8 fra' Ramondo\n predicatore, a cui papa Gregoro,\n 150 quand'egli dimorava gi\u00fa nel mondo,\n fe' compilar il nobile lavoro\n de' Decretali, e per questo vien esso\n insieme meco in questo sacro coro.\n Bartol Sassoferrato \u00e8 l'altro appresso,\n 155 con la lettura sua, la cara gioia,\n come dimostra il suo chiaro processo;\n e Baldo perusin, che l'ebbe a noia;\n poi 'l dottor Cino, ch'ebbe il gran concorso\n nel tempo suo e l'onor di Pistoia;\n 160 poi Ostiense e 'l fiorentino Accorso,\n che fe' le chiose e dichiar\u00f2 'l mio testo\n ed alle leggi diede gran soccorso.\n Giovanni Andrea, le Clementine e 'l Sesto\n il qual chios\u00f2, sta qui con la Novella,\n 165 s\u00ed come il lume a te fa manifesto.\n E sempre il ciel rinfresca e rinnovella\n l'opinioni e li novi dottori;\n e quel che ha detto l'un, l'altro cancella.\n Azzo e Taddeo gi\u00e1 funno li maggiori;\n 170 ed ora ognun \u00e8 oscuro e tal appare\n qual \u00e8 la luna alli febei splendori.--\n Io vidi poi color tutti levare\n inverso il cielo, come fa 'l falcone,\n quando la preda sua prende in su l'are.\n 175 In questo, Astrea mi disse esto sermone:\n --Tu hai veduto appien del regno mio\n quanto dir puossi in rima od in canzone.--\n Poscia colle sue dame indi spar\u00edo.\nCAPITOLO XIV\nL'autore vede il tempio della fede, e gli appare san Paolo,\nil quale gli ragiona di questa virt\u00fa.\n In su 'l partir che fe' la bella Astrea,\n mi disse la primaia di sue dame,\n fulgurando una luce come dea:\n --Se tu l'aiuto pria da Dio non chiame,\n 5 non ti sperar potere andar giammai\n alle Vertudi del quinto reame.--\n Per questo gli occhi al cielo io dirizzai,\n dicendo:--O Maiest\u00e1, sempre invocanda\n nelli principi e negli atti primai,\n 10 chiunque verso alcun fin senza te anda,\n siccome cieco convien che cammine,\n se pria l'aiuto da te non si manda.\n Dell'altre tre vert\u00fa tu sei il fine\n e segno o \u00abAlfa\u00bb ed \u00abO\u00bb; e son per questo\n 15 \u00abteologiche\u00bb ditte ovver \u00abdivine\u00bb.--\n Allor vid'io uno splendor celesto\n venirmi al volto alquanto da lontano,\n che quel ch'or dico, mi fe' manifesto.\n La statua grande vidi in un gran piano,\n 20 che vide gi\u00e1 Nabucodonosorre,\n significante ogni regno mundano.\n Er'alta vieppi\u00fa assai che nulla torre\n e forse pi\u00fa che non fu quel cavallo,\n che fe' da' greci la gran Troia t\u00f4rre.\n 25 E di fin oro aveva il capo giallo,\n le braccia e l'orche e 'l petto aveva bianco\n di puro argento senza altro metallo.\n Le reni, il ventre e l'uno e l'altro fianco\n eran di rame rubro e resonante,\n 30 e quel, con che si siede, ramengo anco.\n Le cosce e gambe insin giuso alle piante\n eran di ferro e i pi\u00e8 di terra cotta,\n parte non cotta, e su quelli era stante.\n Poi una pietra men ch'una pallotta\n 35 se stessa si ricise e si remosse\n d'un alto monte e venne a valle in frotta.\n E nelli piedi all'idolo percosse\n e sminuzzollo e prostrollo confratto,\n s\u00ed che appena parea che stato fosse.\n 40 Quella petruccia in questo crebbe ratto\n e fecesi un gran monte, e su la cima\n tosto un tempio alto ed ampio vi fu fatto.\n Dal loco, ove quell'idolo era prima,\n io mi partii e salsi il monte tanto,\n 45 ch'andai tre miglia e pi\u00fa, alla mia estima.\n Quel tempio risplendea da ogni canto,\n e, quando vidi com'era costrutto,\n ne sospirai con lacrime e con pianto,\n ch'era di corpi morti fatto tutto;\n 50 e per calcina v'era il sangue posto\n recente s\u00ed, ch'ancor non era asciutto.\n Vapore acceso nel mese d'agosto\n mai non trascorse il ciel tanto veloce,\n n\u00e9 polsa da balestro va s\u00ed tosto,\n 55 come scese dal ciel con una croce\n donna vestita in bianco, e, gi\u00fa discesa,\n benigna a me proferse questa voce:\n --Il tempio sacro \u00e8 questo, ovver la Chiesa,\n fermata in su la pietra; e ferma siede,\n 60 bont\u00e1 del fundamento, ond'\u00e8 difesa.\n Ed io, che or ti parlo, son la Fede:\n a me con tanto sangue e con mart\u00edro\n fu fatto il tempio, che quass\u00fa si vede.\n E questi santi su di giro in giro\n 65 mi fenno il fundamento l\u00e1 gi\u00fa in terra\n colla vertude del superno spiro.\n Questi per me si misero alla guerra,\n armati di vertude e cogli scudi\n di quella verit\u00e1, che mai non erra.\n 70 Essendo agnelli tra li lupi crudi,\n combatteron per me li forti atleti,\n come per 'manza gli amorosi drudi.\n E, se lor corpi f\u00fbn morti e deleti\n di quella vita, che, vivendo, more,\n 75 nell'alma f\u00fbn vittoriosi e lieti.--\n E, ditto questo, con grande splendore\n ritorn\u00f2 al cielo, ed io rimasi solo,\n ancor chiamando aiuto a Dio col core.\n Allor apparve a me l'apostol Polo,\n 80 mostrando blando aspetto e lieto viso;\n e poscia disse a me come a figliolo:\n --Hai vista quella che del paradiso\n venne con Cristo e fondossi nel sasso,\n che dal celeste monte fu exciso?\n 85 Fu impugnata pria da Satanasso,\n il qual commosse scribi e farisei\n per atterrarla, ovver per darla al basso.\n Allora Pietro e li compagni miei\n gli funno defensori in ogni corte,\n 90 innanzi a' prenci e innanzi alli gran r\u00e9i.\n E pensa quanto a noi pareva forte\n a suader che l'uomo a Dio s'unisse\n ed incarnasse e sostenesse morte,\n e che, resuscitando, rivestisse\n 95 glorificato il corpo, ch'avea pria,\n e poi per sua virt\u00fa ch'al ciel salisse.\n E, bench\u00e9 questo paresse pazzia\n e che li predicanti fusson v\u00f2ti\n d'umana possa e di vana sofia,\n 100 nientemen da pochi ed idioti,\n colla vert\u00fa del sacrosanto foco,\n che dal ciel venne in lor petti devoti,\n semin\u00f4n questo vero in ogni loco;\n e questo \u00e8 tal miracol, se ben miri,\n 105 ch'ogni altro respective a questo \u00e8 poco,\n pensando che tra morti e tra mart\u00edri\n corse alla fede il mondo, e li fedeli\n non si curavan de' tormenti diri.\n Ed onde esser porr\u00eda, se non da' cieli,\n 110 che 'n cos\u00ed poco tempo tanta schiera\n credesse a noi tra le pene crudeli?\n E, per provare ancor la fede vera,\n permise Dio che 'l maladetto drago,\n che sempre adopra che la fede p\u00e8ra,\n 115 unisse la sua possa a Simon mago\n e mostrasse miraculi e gran segni,\n non per\u00f2 ver, ma 'n apparente imago,\n e ch'egli commovesse in molti regni\n pi\u00fa altri nigromanti e suoi satelli\n 120 contra la fede con forza ed ingegni.\n Allor li cavalier pochi e novelli,\n dodici e pochi pi\u00fa, f\u00ean resistenza\n tal, ch'elli confut\u00f4n tutti i ribelli.\n E, perch\u00e9 sappi di quant'\u00e8 eccellenza,\n 125 quanto a Dio piace e quanto merto acquista\n la vera fede con ferma credenza,\n ella \u00e8 che 'nsino al ciel alza la vista\n e vede il premio, il qual alla fatiga\n fa esser forte, perch\u00e9 si resista.\n 130 Ella \u00e8 che vince la triplice briga\n del mondo, del dimonio e sensuale;\n e la vittoria \u00e8 ben che 'l mondo affliga.\n Ell'\u00e8 che mostra la pena infernale\n a' peccatori e col timor gl'induce\n 135 a far il bene ed a lassare il male.\n E, come la Prudenza \u00e8 guida e luce\n alle vert\u00fa moral, cos\u00ed questa anco\n alle vert\u00fa divine \u00e8 scorta e duce.\n E, come senza gli occhi nullo \u00e8 franco\n 140 fra' suoi nemici, ed \u00e8 persona stolta\n quella, in cui al tutto ogni prudenza \u00e8 manco;\n cos\u00ed colui, al qual la fede \u00e8 tolta,\n va come cieco, e l'avversario el mena\n unque gli piace e come vuole el volta.\n 145 E, se saper tu vuoi la pi\u00fa serena\n loda ch'ell'abbia, attendi e fa' ch'impari\n di quanto merto questa fede \u00e8 piena.\n Se promettesse alcun tutti i denari\n ad alcun altro, acci\u00f2 che gli credesse\n 150 alcuni effetti a suoi sensi contrari,\n non ser\u00eda mai che credere el potesse;\n nientemeno el creder\u00eda per fermo,\n senza denari ovver senza promesse,\n se fusse ditto a lui dal divin sermo.\n 155 Allora quel che non puote natura,\n a creder l'intelletto non \u00e8 infermo.\n E questo solo avvien, se ben pon' cura,\n ch\u00e9 la mente fedel si fonda in Dio,\n onde ha autorit\u00e1 Sacra Scrittura.\n 160 E, se tu ben attendi al parlar mio,\n nulla \u00e8 maggior offerta e pi\u00fa eccellente,\n nullo olocausto \u00e8 pi\u00fa efficace e pio,\n che quando volont\u00e1 stringe la mente,\n che tanto crede a Dio, ch'assente quello\n 165 che pare a' sensi suoi contradicente.\n Chi questo fa, non \u00e8 a Dio rubello.--\nCAPITOLO XV\nDi coloro che col lor sangue fondarono la fede,\ne delle cose che dobbiamo credere.\n Paulo mi mise poi nel tempio sacro,\n fatto di sangue e fatto di fortezza\n di santi, morti a duolo acerbo ed acro.\n Parea ch'andasse al cielo la sua altezza,\n 5 edificato in dodici colonne,\n e quattro miglia o quasi nell'ampiezza.\n N\u00e9 Capitolio mai, n\u00e9 Ilionne\n fu di bellezze e gioie tanto adorno,\n n\u00e9 'l tempio, che 'l gran saggio fe' in Sionne,\n 10 quante questo n'avea intorno intorno;\n di mille luci splendea in ogni parte,\n s\u00ed come luce il sol di mezzogiorno.\n Mai Policleto, n\u00e9 musaica arte,\n neanco Giotto fe' cotal lavoro,\n 15 qual era quel di quelle membra sparte.\n Parean i lor capelli fila d'oro,\n e lor vermiglie ven parean coralli,\n e purpuresche le ferite loro.\n La carne e l'ossa chiar pi\u00fa che cristalli,\n 20 tutte ingemmate a pietre preziose,\n pien di iacinti e di topazi gialli.\n Mostr\u00f2 a me Paulo tra le belle cose\n prima san Pietro e poi pi\u00fa altri assai,\n che Cristo in pria per fundamento pose.\n 25 Mostrommi cento e pi\u00fa papi primai,\n i quai f\u00fbn morti per la santa fede,\n ch'ora risplende di cotanti rai.\n Per la qual cosa a chi saliva in sede\n si trasse dirli:--Vuoi esser pastore\n 30 con quella valentia, che si richiede?--\n Ci\u00f2 era a dire:--Hai tu tanto valore,\n che sia costante a sostener la morte\n per santa fede senza alcun timore?--\n Poi disse:--Or mira il giovinetto forte,\n 35 il qual inverso il cielo alza la faccia\n e per me prega con le braccia sporte.\n Stefano \u00e8 quel, che disse:--O Dio, a te piaccia\n che facci agnello del lupo rapace,\n che li tuoi cristian s\u00ed mette in caccia.--\n 40 Allor refulse in me lume verace,\n e caddi in terra e poi risposi a Cristo:\n --Chi se', Signor? far\u00f2 ci\u00f2 ch'a te piace.--\n Laurenzio e poi Vincenzio ed anco Sisto\n mostrommi poi ed il mio Feliciano\n 45 tra le gemme pi\u00fa chiare ivi permisto:\n li martiri sepolti in Vaticano,\n in via Salaria, Callisto e Priscille,\n ognun lucente, chiaro e diaf\u00e1no.\n Io vidi poi le fortissime ancille,\n 50 Lucia, Agnese, Marta e Caterina,\n Cecilia, Margherita e pi\u00fa di mille;\n e quelli che refulsono in dottrina\n in santa Chiesa con tanti splendori,\n quanti ha nel ciel la stella mattutina;\n 55 e, sopra a tutti, li quattro dottori,\n intra li quali risplende Augustino\n tanto, ch'ecclissa li raggi minori.\n Tra quelle luci sta Tomas d'Aquino,\n Anselmo ed Ugo, Ilario e Bernardo,\n 60 quasi carbonchi posti in oro fino.\n Isidoro, Boezio e 'l buon Riccardo,\n Crisostomo ed Alano era ivi inserto,\n splendente ognun, che mi vincea lo sguardo.\n Il tempio, che di sopra era scoperto,\n 65 avea per tetto il raggio delle stelle,\n e 'l ciel ogni splendor v'avea aperto.\n Mentr'io mirava queste cose belle,\n Paulo mi disse:--Se tu hai diletto\n altro sapere, perch\u00e9 non favelle?--\n 70 Risposi a lui:--Quantunque io abbia letto\n che cosa \u00e8 fede, ancor non son contento,\n se meglio nol dichiari al mio intelletto.\n --Fede \u00e8 substanza ovvero fundamento\n delle cose non viste e da sperare,\n 75 ferma chiarezza ovver fermo argumento.--\n Cos\u00ed egli rispose al mio parlare;\n e poi subiunse che qui la substanza\n vien da quel verbo, che sta per substare.\n E, perch\u00e9 tutto l'esser di speranza\n 80 sta su la fede e dietro gli seconda,\n e senza lei ogni vert\u00fa ha mancanza,\n fede \u00e8 substanza, perch\u00e9 'n lei si fonda\n spene e vert\u00fa e vanno dietro poi\n quasi accidenti ovver cosa seconda.\n 85 Se d'argumento ancor tu saper vuoi,\n ci\u00f2 \u00e8 chiarezza, ch\u00e9 la fede \u00e8 chiara,\n come chi vede ben cogli occhi suoi.\n E fa' che 'ntendi bene, e questo impara:\n ch'alcuna fede \u00e8 viva, alcuna \u00e8 morta,\n 90 e sol la fede viva appo Dio \u00e8 cara,\n perch\u00e9 nell'operare \u00e8 sempre accorta;\n e cos\u00ed \u00e8 vert\u00fa da lei produtta,\n come da pianta che buon frutto porta.\n La fede morta \u00e8 quella che non frutta\n 95 l'opere virtuose e non si guarda\n n\u00e9 dalli vizi, n\u00e9 da cosa brutta.\n E questa fede \u00e8 morta, a chi risguarda;\n ch\u00e9, bench\u00e9 dica con parol ch'ell'ama,\n nell'opere si mostra poi bugiarda.\n 100 Per\u00f2, se cristiano alcun si chiama\n ovver fedele, e vuoi veder la prova,\n guarda se 'l frutto porta in su la rama.\n Crede il demonio e teme, e non gli giova,\n perch\u00e9 null'atto senza caritate\n 105 esser di frutto buon giammai si trova.--\n Poi vidi scritto: \u00abO voi che 'l tempio intrate,\n leggete questo e ben ponete mente,\n e, come dice qui, cos\u00ed crediate\u00bb.\n Io lessi: \u00abIo credo in Dio onnipotente,\n 110 e tre persone in un essere solo,\n e che fe' l'universo di niente.\n E credo in Ies\u00fa Cristo, suo figliuolo\n e nato di Maria e crucifisso,\n morto e sepolto con tormento e duolo;\n 115 e ch'and\u00f2 al limbo e trasse dall'abisso\n i santi padri, e laggi\u00fa di quel fondo\n quass\u00fa di sopra li men\u00f2 con isso;\n il terzo d\u00ed poi florido e giocondo\n risuscit\u00f2, e poscia al ciel sal\u00edo\n 120 per sua vert\u00fa, partendosi del mondo;\n e siede in forma d'uomo a lato a Dio,\n e verr\u00e1 a iudicare all'ultim'ora,\n salvando i buoni e dannando ogni rio.\n Nello Spirito santo io credo ancora,\n 125 e ch'egli \u00e8 Dio; e credo in santa Chiesa,\n che 'n tre persone un solo Dio adora.\n Credo il battismo, che lava ogni offesa,\n col cor contrito la confessione,\n se a satisfar si tien la man distesa.\n 130 Credo nel pane della comunione\n essere Cristo, quando \u00e8 consacrato,\n in segno che e' giammai non ci abbandone;\n e che, finito il temporale stato,\n che 'l ciel produce, mentre sopra volta,\n 135 dal qual \u00e8 ogni effetto generato,\n credo che verr\u00e1 Cristo un'altra volta,\n e che ognun rivestir\u00e1 sua carne,\n quantunque sia disfatta e sia sepolta;\n allora egli verr\u00e1 a giudicarne\n 140 con pompa trionfante e con mai\u00e8sta,\n col corpo che fu offerto a liberarne;\n e ch'alla tromba della sua richiesta\n verranno innanzi a lui i vivi e i morti\n alla sentenza della sua pod\u00e8sta;\n 145 e quelli poi divider\u00e1 in due sorti,\n e mandar\u00e1 li rei a valle inferna\n e li suo' eletti agli eterni conforti.\n Credo i beati e credo vita eterna,\n che solo a' virtuosi Dio la dona,\n 150 che hanno fede e carit\u00e1 fraterna;\n ch\u00e9, come la Scrittura ne ragiona,\n Dio non vuole, n\u00e9 v\u00f2lse aver mai seco\n se non vert\u00fa perfetta e cosa buona;\n E per\u00f2 comand\u00f2 che 'l zoppo e 'l cieco,\n 155 leproso e brutto non intrasse al tempio,\n n\u00e9 fusse offerto a lui infetto pieco;\n e questo fu nel sopradetto esempio\u00bb.\nCAPITOLO XVI\nDella resurrezione de' nostri corpi dopo il Giudizio.\n Inver' l'apostol poscia mi voltai,\n e dissi a lui:--Questa scrittura letta,\n di nostra fede articuli primai,\n bench'io la creda, ancora mi diletta\n 5 udir come suade la Scrittura\n la resurrezion, la qual s'aspetta.--\n Ed egli a me:--A due cose pon' cura:\n una \u00e8 ch'ognun ritorner\u00e1 in vita,\n ch\u00e9 non va a morte, ma per sempre dura,\n 10 e che de' buon la carne rivestita\n ser\u00e1 immortale ed ar\u00e1 l'altre dote,\n che fia impassibil, lieve e fia polita;\n l'altra cosa \u00e8 che le celesti rote,\n che ora giran s\u00ed veloce e forte,\n 15 non voltaranno pi\u00fa, n\u00e9 fien pi\u00fa mote,\n e per questo seran chiuse le porte\n al futur tempo, e non fia pi\u00fa Carone,\n che ora ognun, che nasce, mena a morte.\n Se vuoi di questo persuasione,\n 20 sappi che 'l moto, quando il fine acquista,\n convien che cessi dalla sua azione.\n E cos\u00ed 'l ciel convien ch'anco desista,\n quando fie giunto al fin, pel qual si move,\n come opra fatta fa posar l'artista.\n 25 Or gira il ciel, perch\u00e9 le cose n\u00f2ve\n produce e figlia e corrompe l'antiche,\n mentre fa state qui e verno altrove;\n produce uccelli e quel, del qual nutr\u00edche\n gli animal suoi, e produce ogni pomo,\n 30 mentre il sol volge tra le rote obliche.\n E tutto questo \u00e8 fatto a fin dell'uomo;\n e l'uomo \u00e8 fatto a rifar le ruine\n di que' che su da ciel cad\u00earo a tomo.\n Per\u00f2 convien che 'l ciel tanto cammine,\n 35 sinch\u00e9 tanta ruina si ristora;\n e poi il moto suo aver\u00e1 fine.\n Allor cessar\u00e1 il tempo, che divora\n ci\u00f2 che produce il primo moto, il quale\n fa ci\u00f2 ch'e' figlia, che vivendo mora.\n 40 In questo, Cristo alt\u00e8ro e triunfale\n dir\u00e1:--Surgete, o morti, della fossa:\n venite alla sentenzia eternale.--\n Allor ripiglieran la carne e l'ossa\n li rei oscuri, e i buoni con splendori\n 45 per la vert\u00fa della divina possa.\n S\u00ed come gli arbor, che perdon li fiori\n nell'autunno e perdono ogni foglia\n e paion morti e senza vivi umori,\n talch\u00e9 'l coltivatore anco n'ha doglia\n 50 che paion secchi, e quasi si dispera\n che mai su d'elli pi\u00fa frutto ne coglia:\n poi la vert\u00fa del sol di primavera\n li fa di frondi e fiori adorni e belli,\n e rivivisce in lor la morta c\u00e8ra;\n 55 cos\u00ed li corpi sfatti negli avelli\n resurgeranno in istato felice\n co' membri interi insino alli capelli.\n Come di polve nasce la fenice,\n che arde s\u00e9 e del cenere stesso\n 60 giovin resurge, s\u00ed come si dice;\n e cos\u00ed 'l corpo, sotto terra messo,\n suo spirito aver\u00e1 da quel che viene\n da prima infuso ed al corpo concesso.\n Ancora alla iustizia s'appartiene\n 65 render secondo l'opera a ciascuno\n il mal al male, e 'l premio dar al bene;\n ch\u00e9 ogni atto moral sempre \u00e8 comuno\n allo spirito e al corpo, e insieme vanno\n ad ogni atto splendente ed anco al bruno.\n 70 Se sol del mal lo spirto avesse affanno,\n potrebbe dire:--O Dio, se tu se' iusto,\n perch\u00e9 io solo del peccar n'ho 'l danno?\n perch\u00e9 solo sto io nel fuoco adusto?\n perch\u00e9 no' 'l corpo, dacch\u00e9 la dolcezza\n 75 ebbe degli occhi, del tatto e del gusto?--\n Cos\u00ed li santi, i quali ebbon fortezza\n tanta, che i sensi fenno consenzienti\n alli mart\u00edri, affanni ed all'asprezza,\n potrebbon dire:--O Dio, ch\u00e9 non contenti\n 80 noi delli corpi nostri, ch'a' mart\u00edri\n ne segu\u00eer volentieri ed a' tormenti?--\n Quando questo dicea, gravi sospiri\n udii nel tempio; e parve ch'ogni morto\n avesse a suscitar mille desiri.\n 85 85--Vendica il nostro sangue, sparto a torto\n --diceano,--o Dio, non v\u00e9i ch'ognun desia\n di rivestirsi i corpi omai 'l conforto?\n Non ch'in noi voglia di vendetta sia,\n cos\u00ed preghiam; ma per aver la vesta\n 90 de' corpi, a noi natural compagnia.\n Acci\u00f2 ch'elli con noi abbian la festa,\n perch\u00e9 'l Iudizio, o Signor, non affretti?\n perch\u00e9 non fai la vendetta pi\u00fa presta?--\n Risposto fu:--Da voi tanto s'aspetti,\n 95 che il numero si compia di coloro,\n che son da Dio con voi nel cielo eletti,\n insin che fatto sia tutto il ristoro\n de' piovuti da ciel primi arroganti,\n che f\u00fbn cacciati dal celeste coro.--\n 100 Poi miglia' d'alme m'apparson innanti,\n ed un angelo die' splendide stole,\n in scambio delli corpi, a lor per manti.\n S\u00ed come un'altra cosa dar si suole\n per consolar alquanto chi pur chiede,\n 105 quando non puote aver quel ch'egli vuole;\n cos\u00ed l'agnol le vesti bianche diede\n e disse a lor:--Queste vestite, intanto\n che d'uomin s'\u00e9mpian le superne sede.--\n Quell'alme allora andonno in ogni canto,\n 110 cercando il tempio, e lor corpi mirando\n con tal desio, che mi mossono a pianto.\n --Il corpo mio \u00e8 questo: o Dio, oh! quando\n lo mi rivestir\u00f2?--dicevan molti.\n Alquanti il sangue lor givan basciando;\n 115 alquanti dimostravan li loro volti\n e le ferite e le lor membra sparte,\n le braccia e i pi\u00e8 intra li ferri involti.\n Po', come fa l'amico, che si parte\n dall'altro amico, e, perch\u00e9 amor dimostri,\n 120 sospira e dice:--A me incresce lasciarte;--\n cos\u00ed dissono quelli:--O corpi nostri,\n dormite in pace, e tosto Dio ne doni\n voi venir nosco alli beati chiostri.--\n Poi se n'and\u00f4n con pi\u00fa dolci canzoni,\n 125 e sol rimase meco il Vaso eletto,\n il qual proferse a me questi sermoni:\n --Se d'altro vuoi ch'io informi il tuo intelletto,\n mentr'io son teco, perch\u00e9 non domandi?--\n Ed io, che il domandar av\u00ede concetto,\n 130 risposi:--O dottor mio, da che 'l comandi,\n dichiara a me in qual et\u00e1 li morti\n resurgeranno e quanto parvi o grandi.--\n Ed egli a me:--Di lor saran due sorti,\n com'io ho detto, ed una de' captivi,\n 135 l'altra di quei ch'a ben far funno accorti.\n Quei che son morti buon, poich\u00e9 fien vivi,\n trentaquattro anni in apparente etade\n dimostreranno floridi e giulivi.\n Quella \u00e8 di umana vita la metade;\n 140 ogn'uom, che ci esce prima, ha mancamento,\n e quando cala inver' l'antichitade.\n Se parvit\u00e1 ovver troppo augumento\n non fie per mostro o natura peccante,\n ognun di sua statura fie contento;\n 145 s\u00ed che, se alcun fu nano, alcun gigante,\n questo ed ogni altra cosa mostruosa\n ridurr\u00e1 a forma il divino Operante.\n Ed anco noterai un'altra cosa:\n che ogni dota, che 'l corpo riceve,\n 150 gli vien dall'alma sua, ch'\u00e8 gloriosa;\n s\u00ed che l'esser sottile, illustre e lieve,\n non l'ha 'l corpo da s\u00e9, se ben pon' mente;\n ch'egli \u00e8 da s\u00e9 oscuro, grosso e grieve.\n Ma, quando fie rifatto risplendente,\n 155 dall'anima verr\u00e1 quello splendore\n e 'l mover, che far\u00e1 subitamente.\n E, perch\u00e9 l'alme ree questo valore\n in s\u00e9 non averanno, per\u00f2 elle\n non potran dar al corpo tal onore.\n 160 Non seran liete e non seranno belle:\n tutti i difetti in lor averanno anco,\n ch'ebbon per caso o per corso di stelle,\n e di letizia e luce averan manco.--\nCAPITOLO XVII\nCome Paolo apostolo men\u00f2 l'autore al reame della Speranza.\n --Apostol mio, che al terzo delli cieli\n tirato fosti alle celesti cose,\n perch\u00e9 di quelle a me tu non reveli?--\n Cos\u00ed diss'io; ed egli a me rispose:\n 5 --Perch\u00e9 son s\u00ed supreme e tanto immense,\n e son s\u00ed alte e s\u00ed maravegliose,\n che non \u00e8 cor terren, che mai le pense;\n n\u00e9 mente che le creda ovver discerna,\n se non le gusta in le superne mense.\n 10 Come avverria, se un nella caverna\n fusse nutrito, e poi gli dicesse uno\n ovver la sua nutrice, che 'l governa,\n come nasce la rosa su nel pruno,\n e come 'l sol il d\u00ed rischiara il giorno,\n 15 e poi la sera cala e f\u00e1llo bruno,\n e quanto il ciel di stelle \u00e8 fatto adorno,\n e come piove, e che per l'alto mare\n le navi vanno a vento intorno intorno,\n appena el creder\u00eda; e, poi che chiare\n 20 ei le vedesse, dir\u00eda nel pensiero,\n stando egli stupefatto ad ammirare:\n --Or veggio ben che a s\u00ed supremo vero\n non alzava io la mente, e ci\u00f2 ch'i'ho creso\n \u00e8 stato diminuto e non intero;\n 25 e per questo io, dal terzo ciel disceso,\n parlar non volli tra li saggi e sciocchi,\n che per superbia non m'arebbon 'nteso,\n stolti appo Dio e saggi ne' lor occhi,\n pien d'ignoranza e s\u00ed di senno v\u00f3ti,\n 30 che suonan, beffeggiando, unque li tocchi.\n Ma a quei, che alla fede eran divoti,\n a Dionisio ed a molt'altri ancora\n li secreti del ciel io feci noti.\n Quel che tu chiedi ch'io ti riveli ora,\n 35 tosto fia manifesto al tuo intelletto,\n quando di questo tempio serai fuora.--\n D'un porfido polito, terso e netto\n una via mi mostr\u00f2 poi 'ns\u00fa distesa,\n girante intorno al tempio insin al tetto.\n 40 --Per questa \u00e8 la salita ed \u00e8 la scesa\n di dea Speranza; e chi vuol veder lei,\n convien che saglia sopra questa chiesa.--\n Cos\u00ed dicendo, ins\u00fa mosse li piei;\n ed io, che sue vestigie mai non lasso,\n 45 dirieto a lui mossi li passi miei.\n E, perch\u00e9 ogni monte \u00e8 assai pi\u00fa basso,\n che non \u00e8 'l monte, ove quel tempio \u00e8 sito,\n per\u00f2 ratto ch'io salsi il primo passo,\n l'apostol disse a me:--Or sei uscito\n 50 fuor del terrestre mondo, e chi s\u00fa sale\n e di voltarsi addietro \u00e8 poscia ardito,\n diventa marmo o statua di sale:\n per\u00f2 fa' che non volti, ch\u00e9 tu forsi\n potresti divenir in tanto male.--\n 55 Per questo detto, mentre alla 'ns\u00fa corsi,\n dieci miglia salendo insino a cima,\n il viso mio addietro mai non torsi.\n E, quando sopra il tetto giunsi in prima,\n inverso il mondo ingi\u00fa chinai la fronte,\n 60 come chi d'una torre il viso adima.\n Per l'altezza del tempio e poi del monte\n il mondo parve a me un piccol loco,\n e 'l mare intorno quasi parvo fonte.\n --Tu se' appresso alla spera del foco\n 65 --disse a me Paulo;--e, perch\u00e9 'l foco in alto\n riscalda molto, e sotto scalda poco,\n per\u00f2 non arde questo adorno smalto\n di questo tetto, ed anco a te non cuoce,\n degli incendi suoi facendo assalto.--\n 70 Non credo mai ch'andasse s\u00ed veloce\n coll'ale aperte il nunzio Cilleno\n quando il gran Iove a lui comanda a voce,\n che non venisse a me ancora in meno\n la santa Fede, spargendo li raggi\n 75 intorno intorno per l'aer sereno.\n E, giunta a me, mi disse:--Accioch\u00e9 aggi\n tuo' intendimenti, e che tu la Speranza\n possi vedere e sua dolcezza assaggi,\n io venni a te e solo ebbi fidanza\n 80 ch'io la possi mostrar, se mi t'accosti,\n s\u00ed che tra te e me non sia distanza.\n Ed abbi li pi\u00e8 tuoi su li miei posti,\n il petto al petto; ed alza la pupilla\n al ciel, come l'arcier ch'al segno apposti.--\n 85 Cos\u00ed udii che fece la sibilla,\n quando mostr\u00f2 al grande imperadore\n col figlio in braccio l'umiletta ancilla,\n dentro in un cerchio in ciel pien di splendore,\n quando il popol roman (tanto era errante)\n 90 volea di sacrificio fargli onore.\n Allor Sibilla gli disse davante:\n --Altro signor ne viene, Octaviano,\n a cui degno non se' scalzar le piante,\n ch\u00e9 unir\u00e1 'l celeste coll'umano.\n 95 Egli \u00e8 che far\u00e1 'l secolo felice,\n ed al ciel tirer\u00e1 'l regno mundano.--\n Allora Cristo e la sua genitrice\n gli fe' vedere e disse:--Quegli \u00e8 'l figlio,\n di cu' i profeti e Virgilio dice.--\n 100 Cos\u00ed ed io, al cielo alzando il ciglio,\n un'agnol vidi, ch'era innanzi a Dio,\n il qual dicea per modo di consiglio:\n --Ritorna, o peccatore, al Signor pio,\n il qual perdona a chiunque si converte,\n 105 purch\u00e9 si penta e non voglia esser rio.\n Egli t'aspetta colle braccia aperte,\n come padre il figliuol che si desvia,\n che poi l'abbraccia, quando a lui reverte.\n Perch\u00e9 ti parti ed obliqui la via?\n 110 Ritorna a tua citt\u00e1 e alla tua corte\n coll'agnol diputato in compagnia.\n Non vedi tu che quella vita \u00e8 morte\n che corre a morte, e quella vita \u00e8 vita\n che al vivere giammai serra le porte?\n 115 Non vedi tu che l'alto Dio t'invita,\n e, se ti penti e domandi perdono,\n ti dar\u00e1 'l cielo e la vita infinita?\n Egli dell'esser uom ti fece dono,\n perch\u00e9 suo fossi, e suo esser non puoi,\n 120 se non ti mendi e non diventi buono.\n E, se tu 'l tuo voler seguitar vuoi,\n serai perduto; ch\u00e9 nulla ha fermezza,\n se non in quanto ha 'l fundamento in lui.\n Egli \u00e8 quel padre che nullo disprezza,\n 125 che a lui ritorni.--E, quando questo intesi,\n della speranza io sentii la dolcezza,\n e lacrimoso in terra mi distesi,\n dicendo:--O padre, priego mi perdoni,\n se mai io fui superbo e mai t'offesi.--\n 130 Mille tripudi allor, mille canzoni\n io vidi in ciel far della penitenza\n del peccator e mille dolci suoni.\n Ed una donna con gran refulgenza\n dal ciel discese a me dal destro lato\n 135 a consolarmi della sua presenza,\n e disse:--Al cor contrito ed umiliato\n la porta Dio della piet\u00e1 mai serra:\n s\u00ed quello sacrifizio a lui \u00e8 grato.\n E, quando il peccator si getta in terra,\n 140 di ogni pace Dio gli \u00e8 grazioso,\n quantunque pria con lui avesse guerra;\n ch\u00e9 non \u00e8 altro l'esser vizioso,\n se non contra sua legge andar superbo,\n contra l'ordin di Dio ire a ritroso.\n 145 Per la superbia di chi 'l pomo acerbo\n gust\u00f2 e stupefe' a' figli i denti,\n fece umanare Iddio l'eterno Verbo,\n a satisfar per quelle giuste genti,\n ch'eran nel limbo; e con martirio amaro\n 150 fe' che dal suo Figliol fusson redenti.\n Or pensa quanto Dio ha l'uomo caro,\n da che ordin\u00f2 che tanta maiestade\n a sua perdizion f\u00easse riparo.--\n Quand'ella disse a me tanta pietade\n 155 e che Dio fece l'uom non per suo merto,\n ma per parteciparli sua bontade,\n io presi ardire e leva'mi s\u00fa erto\n e dissi:--Io non son servo, ma figliuolo\n del padre Dio, che tanto amor m'ha offerto.--\n 160 Poi mi rivolsi per veder san Polo;\n e vidi lui e la Fe' con gran luce\n salir al cielo; e non mi lass\u00f4n solo,\n insin che dea Speranza ebbi per duce.\nCAPITOLO XVIII\nDe' peccati nello Spirito santo, i quali sono opposti alla speranza.\n Nel levar s\u00fa, ch'io fei, cotanto ardito,\n ch\u00e9 presa forse av\u00ede troppa fidanza\n per quel parlar, che pria aveva udito:\n --Risguarda ben--mi disse dea Speranza,--\n 5 che 'n null'altra virt\u00fa si pu\u00f2 errar tanto,\n quanto in la spen per troppo o per mancanza;\n ch\u00e9 la presunzion sta dall'un canto,\n dall'altro estremo sta il disperare,\n ognun peccato in lo Spirito santo.\n 10 N\u00e9 l'un n\u00e9 l'altro si pu\u00f2 perdonare\n in questa vita o nel secol futuro,\n s\u00ed come dice a noi 'l divin parlare.\n E, perch\u00e9 questo passo \u00e8 molto oscuro,\n se a quel, che or dir\u00f2, attento bade,\n 15 io tel dichiarer\u00f2 aperto e puro.\n Sappi che la clemenzia e la pietade\n allo Spirito santo \u00e8 attribuita,\n e ch'e' la porge a chi torna a bontade;\n ch\u00e9, bench\u00e9 sia la sua piet\u00e1 infinita,\n 20 non la debbe donar, n\u00e9 mai la dona,\n se no' a chi torna dalla via smarrita.\n Per\u00f2, s'alcun nel mal far s'abbandona,\n credendo che, peccando, Dio 'l sovvegna,\n cotal presunzion mai si perdona;\n 25 ch\u00e9 colpa non \u00e8 mai di perdon degna,\n se non si pente; e chi pecca sperando,\n chiude la porta, onde aiuto gli vegna,\n ch\u00e9 Dio, il qual \u00e8 giusto, non \u00e8 blando\n mai alla colpa, ma contra s'adira,\n 30 sinch\u00e9 si emenda e torna al suo comando.\n All'altra estremit\u00e1 della spen mira,\n che ha quattro spezie, e contra piet\u00e1 vera\n pecca 'n Colui ch'eternalmente spira.\n La prima \u00e8 quando alcun s\u00ed persev\u00e9ra\n 35 in far il mal, che tornar a virtude\n o d'emendarse al tutto si dispera.\n Costui alla piet\u00e1 la porta chiude\n dello Spirito santo ed a' suoi doni,\n dacch\u00e9 non vuol lassar l'opere crude.\n 40 L'altra \u00e8 quando non crede che perdoni\n a lui mai Dio, e pel peccato grande\n crede che Dio pietoso l'abbandoni,\n e non avvien che mai perdon domande.\n Chi si dispera, chiude anco la porta,\n 45 ch\u00e9 chi sovvenir vuol, a lui non ande.\n La terza \u00e8 'n chi la ragion \u00e8 s\u00ed torta,\n che loda il mal per bene, e s\u00ed gli piace,\n che s\u00e9 ed altri nel mal far conforta.\n E, come agli occhi infermi il lume spiace,\n 50 cos\u00ed a lui vert\u00fa; e chiunque l'usa,\n persegue in fatti e con lingua mordace.\n Costui ancora tien la porta chiusa\n alla piet\u00e1; e non ch'egli si penta,\n ma chi torna a vert\u00fa biasma ed accusa.\n 55 La quarta spezie \u00e8 morte violenta\n data a se stesso; ch\u00e9, mentr'egli more,\n di se medesmo omicida diventa.\n Or chiunque in altro modo \u00e8 peccatore\n per ignoranza ovver per impotenza,\n 60 fatto il peccato, alquanto n'ha dolore.\n E dentro nel rimorde coscienza,\n s\u00ed ch'ancor serva in s\u00e9 la via e 'l lume,\n per la qual pu\u00f2 tornar a penitenza,\n e per cui possa intrar il sacro nume\n 65 a suaderli ch'a virt\u00fa s'induca\n e che lassi ogni vizio e mal costume.\n E, perch\u00e9 ben la speme in te riluca,\n io la diffinir\u00f2 chiara ed aperta,\n acciocch\u00e9 dietro a lei tu ti conduca.\n 70 Speranza \u00e8 un attender fermo e certo\n delle cose celesti ed eternali,\n che vengon per buoni atti e per buon merto.\n Questa \u00e8 l'\u00e1ncora data alli mortali\n fermar dentro al mar la navicella,\n 75 mentre \u00e8 in fortuna tra cotanti mali.--\n Qui poscia pose fine a sua favella;\n ed io alzai la testa e tenni mente,\n perch\u00e9 lass\u00fa ud\u00eda cosa novella.\n Io udii voci 'n quella spera ardente\n 80 del foco, il qual appresso soprastava,\n e sospir gravi d'una afflitta gente.\n Ed ella a me:--Lass\u00fa si purga e lava\n il satisfar non fatto, e l\u00ed \u00e8 'l ristoro\n del tepido, commesso in vita prava.\n 85 In quella spera s\u00fa sta il purgatoro,\n parte del regno mio: l\u00ed sta la Spene,\n e pi\u00fa lass\u00fa che altrove io dimoro.\n Io son che li conforto tra le pene,\n perch\u00e9 hanno speranza di venire,\n 90 quando che sia, all'infinito Bene.\n Vero \u00e8 che la lor doglia e 'l gran mart\u00edre,\n per buone orazioni e per indolto\n di sante chiavi, si pu\u00f2 sobvenire.--\n Ed io a lei:--Or qui dubito molto;\n 95 ch\u00e9, se 'l peccato sta su nella voglia,\n come senza 'l pentir pu\u00f2 esser tolto?\n Se l'uom non \u00e8 contrito e non ha doglia,\n avvenga ben che Dio perdonar possa,\n senza 'l pentir giammai non \u00e8 che 'l toglia.\n 100 Or come, adunque, l'orazione mossa\n laggi\u00fa dal mondo fa che perdonato\n sia il vizio qui e l'offesa rimossa?--\n Ed ella a me:--Due cose ha 'n s\u00e9 'l peccato:\n prima \u00e8 la colpa, ovver deformit\u00e1,\n 105 cio\u00e8 far contra il ben da Dio ordinato.\n E questa colpa \u00e8 nella volont\u00e1,\n la qual, se non si pente per se stessa,\n Dio la pu\u00f2 perdonar, ma mai nol fa.\n E solo questa colpa gli \u00e8 demessa\n 110 al peccator, che corre al sacerdote,\n quando divotamente si confessa.\n L'altra \u00e8 la pena e satisfar si puote;\n e questa ancora il peccator, se vuole,\n con la contrizion da s\u00e9 la scuote;\n 115 ch\u00e9, quando del peccato egli si duole,\n tanto che contrizion sia tutta piena,\n morendo, allor convien che su al ciel vole.\n Onde, se ognun come la Maddalena\n satisfacesse, bagnando la faccia,\n 120 non ser\u00eda 'l purgatoro, n\u00e9 sua pena.\n Ma, quando \u00e8 alcun, il qual non satisfaccia\n integramente, il prete che l'assolve,\n da colpa e non da pena lo dislaccia.\n E per\u00f2 'l peccator che a Dio si volve,\n 125 se 'l convertirsi \u00e8 tardo o freddo o poco,\n nel purgat\u00f2r la pena poi persolve.\n E tanto tempo sta in questo loco,\n quanto ha negletto, se non lo fa brieve\n il papa santo, offerta o iusto invoco.--\n 130 Ed io a lei:--Questo credere \u00e8 grieve,\n che a chi non satisfece ed \u00e8 defunto,\n il papa od altra offerta pena li\u00e8ve.--\n Rispose a questo:--Il membro, ch'\u00e8 coniunto,\n da suoi coniunti membri \u00e8 sobvenuto,\n 135 quando si duole o quando egli \u00e8 trapunto.\n Se questo a' suoi coniunti ha provveduto\n la nobil e magnifica natura,\n cio\u00e8 che un membro dall'altro abbia aiuto,\n dacch\u00e9 la grazia \u00e8 di maggior altura,\n 140 che non \u00e8 ella, e nobil e suprema,\n siccome affirma e prova la Scrittura,\n ben pu\u00f2 supplire alla mesura scema\n del satisfar con quei che son consorti\n in carit\u00e1 nella partita estrema.\n 145 Cos\u00ed li vivi sobvengono a' morti\n con satisfar per lor el pentir lento,\n ch\u00e9 'l tempo d'ire al cielo a lor s'accorti.\n Per questo il Maccabeo mand\u00f2 l'argento\n e fece al tempio offerta e nobil dono\n 150 per lo esercito suo, di vita spento.\n Adunque \u00e8 santo, pio, salubre e buono\n pregar pe' morti; e pel prego concede\n a lor del satisfare Dio 'l perdono.\n E, quando Cristo a Pier le chiavi diede\n 155 d'aprire e di serrare, e capo el fece\n di tutti i membri uniti in santa fede,\n il ben, che i membri fanno, ed ogni prece\n commise a lui, e pu\u00f2 participarlo\n ed applicarlo a chi non satisfece.\n 160 Il ben participato, di cui parlo,\n non per\u00f2 a chi l'ha fatto, s'amminora,\n n\u00e9 papa a lui porr\u00eda giammai levarlo;\n sicch\u00e9, quand'un digiuna ovver che ora\n per quei che son in purgat\u00f2r puniti,\n 165 fa prode a lui ed a coloro ancora.\n E, dacch\u00e9 li purgati sonno uniti\n in grazia con noi e sonno in via,\n perch\u00e9 a lor patria ancor non son saliti,\n il papa, ch'esti beni ha 'n sua bal\u00eda,\n 170 del ben universal della sua greggia\n ne pu\u00f2 far parte a lor e cortesia.\n Ed ogni capo, ch'alcun corpo reggia,\n del merito de' membri, ch'e' governa,\n ne pu\u00f2 far parte, pur che altri el chieggia,\n 175 in quanto sia accetto, in vita eterna.--\nCAPITOLO XIX\nCome la Speranza conduce l'autore a parlare con la Carit\u00e1.\n Come la Fede la santa speranza\n mi demostr\u00f2, cos\u00ed poscia la Spene\n la carit\u00e1, ch'ogni vertude avanza.\n Considerai che Dio \u00e8 sommo bene,\n 5 e che da lui ogni altro ben deriva\n prima ne' cieli, e poscia in terra v\u00e8ne.\n Considerai che me fe' cosa viva,\n poi animal, e poi mi diede in dono\n libero arbitrio e vert\u00fa intellettiva.\n 10 E ci\u00f2, che s'ama, s'ama in quanto e buono;\n ed egli \u00e8 'l Ben supremo e s\u00ed cortese,\n ch'ogni pentir in lui trova il perdono.\n Questo di tanto amore il cor m'accese,\n che fe' di piombo ogni aurato dardo,\n 15 che mai Cupido folle in me distese.\n Allor inverso il ciel alzai lo sguardo,\n e venne un raggio a me dal primo Amore,\n che tanto mi scald\u00f2, che ancora io ardo.\n Ond'io gridai:--O alto Dio Signore,\n 20 che render posso a tanti benefici,\n se non ch'io ami te con tutto il core?\n Era niente, ed alli ben felici\n tu mi creasti; e, mentre servo io era,\n per grazia, mi facesti de' tuo' amici.--\n 25 Quando questo dicea, di luce vera\n resperso fui; ond'io mirai pi\u00fa fiso,\n per veder onde uscia quella lumiera.\n E donna vidi dentro al paradiso\n bella e lucente tanto quanto il sole,\n 30 se non che pi\u00fa acceso aveva il viso.\n E, come aquila fa 'nanti che vole,\n che mira in alto prima che gi\u00fa vegna\n inver' la preda, che prendere v\u00f2le,\n cos\u00ed scese ella e disse a me benegna:\n 35 --Del purgat\u00f2r convien che 'l foco passi,\n anzi che venghi ove per me si regna.--\n Li polsi miei, gi\u00e1 faticati e lassi,\n se sgoment\u00f3ro un poco a tanta impresa;\n ond'io per questo un gran sospir fuor trassi.\n 40 Ma, dacch\u00e9 Muzio nella fiamma accesa\n spontaneamente porse quella mano,\n ch'a dare il colpo avea commessa offesa,\n e dacch\u00e9 sol per un onor mundano\n Pompeo il dito s'arse dentro al foco,\n 45 a mostrar forte a non aprir l'arcano;\n come temenza in me potea aver loco\n con Spene e Carit\u00e1, che ogni amaro\n fanno esser dolce e fannol parer poco?\n Per\u00f2, mostrando il viso allegro e chiaro,\n 50 risposi:--Io venir voglio, e, con voi due,\n star dentro al purgatoro a me fia caro.\n Come Abacuc ins\u00fa levato fue,\n quando soccorse a Daniel profeta,\n cos\u00ed allora io fui levato insue.\n 55 E fui nel purgatoro; e grande pi\u00e8ta\n d'anime vidi in quelle fiamme ardenti,\n che tra' mart\u00edri avean sembianza lieta;\n ch\u00e9, bench\u00e9 fusson tra li gran tormenti,\n la speranza addolcisce in lor la pena,\n 60 ch\u00e9 speran ire alle beate genti.\n --Ave, Maria di grazia piena\n --cantavan molti dentro della fiamma,--\n _Dominus tecum_, o stella serena.\n Soccorri tosto, o dolce nostra mamma,\n 65 ed a piet\u00e1 ver' noi il Signor piega\n per quello amor, che te di lui infiamma.\n Quando, o Regina, la tua voce priega,\n nel cospetto di Dio \u00e8 tanto accetta,\n che nulla a tua domanda mai si niega.\n 70 O donna sopra ogni altra benedetta,\n fa' ch'a noi venga il benedetto Frutto,\n che con tanto disio da noi s'aspetta.--\n Io stava ad ascoltar, attento tutto,\n le lor parole e le piatose note,\n 75 mostranti insieme l'allegrezza e 'l lutto.\n E parte ancor dell'anime divote\n a coro a cor dic\u00eden le letanie\n con pianto tal, che mi bagn\u00f2 le gote.\n Ed alcun gl'inni, alcun le psalmodie,\n 80 alcuni il Deprofundo e 'l Miserere\n dic\u00eden con pianti e dolci melodie.\n Poi un grid\u00f2:--Oh! venite a vedere\n un, che 'ns\u00fa sale ed ha viva persona:\n e' dentr'al foco ha le sue membra intiere.--\n 85 Come a messaggio, c'ha novella bona,\n corre la gente ed ognuno el domanda,\n ed ei risponde alquanto e non ragiona;\n cos\u00ed corr\u00edeno a me da ogni banda\n spiriti eletti quivi a farsi belli,\n 90 sin ch'a felice stato Dio li manda.\n --Noi ti preghiam--dic\u00eden--che ne favelli;\n dacch\u00e9 tu sei colle benigne scorte,\n non hai timor sentir nostri fragelli.\n Se tu non hai gustata ancor la morte,\n 95 dinne se ancor al mondo tornerai,\n acci\u00f2 che l\u00e1 di noi novella porte.--\n La Spene e Carit\u00e1 addomandai\n se vol\u00eden ch'io parlasse, ed assent\u00eero:\n ond'io mi volsi a loro e m'arrestai.\n 100 E vidi li tre, posti a gran martiro,\n che dentro al foco portavan gran some\n con grande ansiet\u00e1 e gran sospiro.\n Il primo addomandai come avea nome,\n e che dicesse a me degli altri doi,\n 105 e delle some loro il perch\u00e9 e 'l come.\n In prima sospir\u00f2, e disse poi:\n --Io fui il padre di questo secondo,\n ed egli al terzo, ed io avo gli foi.\n Si come spesso avvien del mortal mondo,\n 110 che l'uno all'altro la gran soma lassa\n de' mal tolletti e frode il carco e 'l pondo,\n in quella vita che, morendo, passa,\n io lassa' al figlio e 'l figlio all'altro ancora,\n che si rendesse il mal riposto in cassa,\n 115 ed egli all'altro che 'n vita dimora;\n e 'l pronepote mio non ce n'aita,\n si che una soma gi\u00e1 tre n'addolora.\n Ahi, quanto \u00e8 saggio chiunque in sana vita\n provvede a questo e fa con Dio ragione,\n 120 e non l'indugia infino alla partita!\n Ch\u00e9 far non p\u00f2 la satisfazione,\n e spesso a satisfar il mal ablato\n un altro erede rubator ci pone.\n Sabello nella vita fui chiamato,\n 125 e fui di Roma, e 'l mio figliol fu Carlo,\n e Lelio \u00e8 'l mio nipote, che gli \u00e8 a lato.\n --Dacch\u00e9 concesso m'\u00e8 che io ti parlo\n --diss'io a lui,--un dubbio, in che m'hai messo,\n dechiara a me, se tu sai dechiararlo.\n 130 Se fu a tuo figlio il satisfar concesso,\n perch\u00e9 'l peccato suo in te redonda,\n s'egli ha negletto quel che gli hai commesso?--\n Ed egli a me:--Se vuoi ch'io ti risponda,\n sappi che 'l pentir tardo, freddo e lento\n 135 e 'l non ben satisfatto qui si monda.\n E, se alcuno avesse il pentimento,\n come il ladron, che 'n croce si pent\u00e9o,\n senz'altra pena al ciel andr\u00eda contento;\n ch\u00e9 chi, come san Pietro e san Matteo,\n 140 in vita o nello estremo ben si pente,\n prima vorr\u00eda morir ch'esser pi\u00fa reo.\n Ma questo ben pentir, se tu pon' mente,\n \u00e8 raro s\u00ed, quanto ser\u00eda a rispetto\n all'assai 'l poco, ch'\u00e8 quasi niente.\n 145 E cos\u00ed 'l mio pentir non fu perfetto,\n ch'io 'l tardai e del mal far m'accorse,\n quand'era per morir su nel mio letto.\n E, s'io fusse guarito, sarei forse\n tornato al mal di prima o, come 'l figlio,\n 150 a satisfar arei chiuse le borse:\n siccome chi sta in mare a gran periglio,\n che fa gran voti e par tutto contrito\n e dassi al petto ed al ciel alza il ciglio;\n e, quando il tempo turbo s'\u00e8 partito,\n 155 ovver ch'egli \u00e8 disceso fuor del mare,\n muta proposto e muta l'appetito.\n Pel freddo pentimento e pel tardare\n e perch\u00e9 'l satisfar lascia' a costoro,\n allor che meco io nol potea portare,\n 160 tanto star\u00f2 in questo purgatoro,\n che satisfatto sia, se 'l ben comuno,\n che fa la Chiesa, non mi d\u00e1 adiutoro.\n Di quelle messe e preci ha qui ognuno\n la parte sua, come d\u00e1 'l corpo il cibo\n 165 a' membri suoi, e pi\u00fa al pi\u00fa digiuno.--\n E poscia vidi ci\u00f2 che ora scribo.\nCAPITOLO XX\nDove trattasi pi\u00fa distintamente del purgatorio,\ne si risolvono certi dubbi.\n Io vidi poscia alquanti in purgatoro\n cantar nel foco:--_Expectans expectavi_,--\n a verso a verso, come si fa 'n coro.\n Ed alcun'altri con voci soavi\n 5 dicean anco, cantando:--O Agnus Dei,\n che i peccati del mondo purghi e lavi!--\n E--_Verba mea_--e--_Miserere mei_\n --diceano molti con s\u00ed duro pianto,\n che a lacrimar condusson gli occhi miei.\n 10 E, poscia che silenzio fenno alquanto,\n agnoli vidi su dal ciel venire\n con allegrezza e festa e dolce canto.\n E, giunti quivi, un cominci\u00f2 a dire:\n --D'este pene esci fuori, o Pier Farnese,\n 15 ch\u00e9 Dio ha posto fine al tuo mart\u00edre.--\n E quel, ch'egli chiam\u00f2, ratto s'accese\n di luce chiara e tanto benedecta,\n che dal fuoco e da incendio lo difese.\n E cominci\u00f2 a cantar:--_O quam dilecta\n 20 tabernacula tua_, o Dio Signore!\n Beato chi 'n te spera e chi t'aspecta!--\n E l'agnol disse:--Da questo dolore\n Ugolin d'Ancaran ora ti slega,\n e d'esto purgat\u00f2r ti cava f\u00f2re.\n 25 Ogni volta ch'egli \u00f2ra, per te priega:\n il digiunar e 'l lacrimar, che ha fatto,\n ha mosso Dio, che a piet\u00e1 si piega.\n E prete Bonzo ha per te satisfatto\n el dever tuo, ed ito tre viaggi;\n 30 e le sue messe ancor ti tran pi\u00fa ratto.--\n Resperso tutto di celesti raggi,\n con quegli angeli insieme in ciel sen g\u00edo\n al Ben supremo e sempiterni gaggi.\n E prete Bonzo ben conosceva io\n 35 per peccatore; e per\u00f2 ammirai\n che Dio esaudisse un cos\u00ed rio.\n Per questo la Speranza domandai:\n --Come chi 'n carit\u00e1 non \u00e8 fundato,\n pu\u00f2 satisfar per queste pene e guai?--\n 40 Ed ella a me:--Tu sai ben che 'l peccato\n \u00e8 fare o ir contra divina voglia:\n per\u00f2 giammai a Dio p\u00f2 esser grato.\n Come che pianta mai frutto n\u00e9 foglia\n potrebbe far, remossa la radice,\n 45 cos\u00ed chiunque \u00e8 che carit\u00e1 si spoglia.\n E, se fa ben alcuno ovver che 'l dice,\n giovar li p\u00f2 al ben, ch'\u00e8 temporale,\n ma non mai all'eterno ovver felice.\n E, quando alcuno, ch'\u00e8 in pecca' mortale,\n 50 prega per quel ch'\u00e8 'n carit\u00e1 unito,\n a quello, per cui prega, giova e vale;\n ch\u00e9 non per s\u00e9 da Dio \u00e8 esaudito,\n ma per colui che prega e satisface,\n che gi\u00e1 \u00e8 eletto all'eterno convito;\n 55 ch\u00e9 spesse volte il messo, che dispiace,\n si esaudisce per colui che 'l manda,\n o perch'e' chiede cosa ch'altrui piace.\n E spesse volte la buona vivanda,\n perch\u00e9 all'infermo si darebbe invano,\n 60 negata gli \u00e8, quand'egli la domanda;\n la qual, se fusse data a chi \u00e8 sano,\n ed ei la prenda, el robora e conforta\n in tutti i membri del suo corpo umano.\n Ad alcun anco, in cui carit\u00e1 \u00e8 morta,\n 65 del ben, che fa, gli avviene ex consequente\n che 'l premio eterno e felice ne porta;\n ch\u00e9, quando egli \u00f2ra o dona all'indigente,\n prega per lui, e la somma Piatade\n spesso per questo gl'illustra la mente,\n 70 s\u00ed ch'ei torna a vert\u00fa ed a bontade:\n ond'io conchiudo ch'atto virtuoso\n innanzi a Dio giammai in fallo cade.\n --Se tu pervegni al superno riposo\n --un disse a me,--innanzi che tu monti,\n 75 star meco alquanto non ti sia noioso.\n Se vuoi che 'l nome mio pria ti racconti\n e la freddezza mia, la qual io mondo\n e che, penando, qui convien ch'io sconti,\n Toso Benigno fui detto nel mondo:\n 80 fui piacentino, e da me fu commesso\n ad un per me di satisfar il pondo.\n Romper la fede a Dio \u00e8 'l primo eccesso,\n e poscia al morto, il qual, quando decede,\n lascia il suo successor quasi un se stesso.\n 85 Cos\u00ed un mio compagno io lassa' erede:\n e' di quel ch'io volea, niente fece,\n s\u00ed come spesso fa chiunque succede.\n Per\u00f2 ti prego, se tornar ti lece,\n che dichi al fratel mio che satisfaccia\n 90 e che per me vada a Roma in mia vece.--\n Risposi a lui:--Ci\u00f2, che vorrai ch'io faccia,\n el far\u00f2 volentier; ma resta un poco,\n ed a me un punto dichiarar ti piaccia.\n Io lessi gi\u00e1 che sta in altro loco\n 95 il purgatoro e ch'\u00e8 parte d'inferno;\n ed ora el veggio qui tra questo foco.--\n Ed egli a me:--Colui, che 'n sempiterno\n mai non si muta ed ogni cosa move\n e tutto l'universo ha 'n suo governo,\n 100 ha qui il purgatoro ed anco altrove,\n e nell'inferno puote dar gran festa\n e fare il paradiso in ogni dove.\n Basta che qui a te si manifesta\n che cosa \u00e8 'l purgatoro e che 'l fece anco\n 105 prima Iustizia, ovver prima Mai\u00e8sta,\n e che l\u00ed si ristora ci\u00f2 che ha manco\n la penitenzia, e che nullo va al cielo,\n se prima non si purga e fassi bianco.\n Ric\u00f2rdite dell'alma, che nel gielo\n 110 al vescovo grid\u00f2:--Io son qui messa\n sol per purgarmi, e questo ti rivelo:\n ch'un mese vogli dir per me la messa,\n ch\u00e9 cos\u00ed spero uscir di questo ghiaccio,\n e che indulgenza mi ser\u00e1 concessa.--\n 115 Ric\u00f2rdite il pastor quant'ebbe impaccio\n nel dir le messe, e come Paulino\n gi\u00e1 si purg\u00f2, e molti di quai taccio.--\n Gi\u00e1 le mie scorte avean preso il cammino\n su verso il ciel tra l'anime, che stanno\n 120 nel foco, come argento a farsi fino,\n ed allo 'ndugio ed alle pene, c'hanno,\n con lacrime chiedean merc\u00e9 da nui,\n ricordando l'arsura e 'l loro affanno.\n E, quando presso al cielo io giunto fui,\n 125 sentii maggior l'incendio; e per riparo\n le scorte mie m'abbracci\u00e2ro amendui,\n ch\u00e9 'l foco l\u00ed \u00e8 pi\u00fa attivo e chiaro,\n e, perch\u00e9 tocca il cielo, in gi\u00fa reflette:\n per\u00f2 'l caldo raddoppia ed \u00e8 pi\u00fa amaro.\n 130 Quelle parti del ciel son s\u00ed perfette,\n che non temono arsura ed han vantaggio\n a trasmutazion non star subiette.\n Non so in qual modo, n\u00e9 per qual viaggio,\n mi trova' intrato nel ciel della luna,\n 135 assai 'n men tempo che detto non l'aggio.\n E di due scorte meco era sol una,\n cio\u00e8 la Carit\u00e1, che risplendea\n s\u00ed, che ogni luce arebbe fatta bruna.\n E questa dolce guida ed alma dea\n 140 disse:--Alla quinta essenza io t'ho condotto\n dall'altra trasmutabile e s\u00ed rea.\n Ci\u00f2 che sta a questo ciel laggi\u00fa di sotto,\n subiace al tempo e convien vada e vegna\n in non niente ed in stato corrotto.--\n 145 E poi soggiunse quella dea benegna:\n --'Nanti che trascorriam noi questi cieli\n ed ogni intelligenza che qui regna,\n conviene che il mio offizio ti disveli,\n acci\u00f2 che, quando torni tra' mortali,\n 150 gli atti miei lor insegni e lor riveli.--\n Risposi:--O sacra dea, tra tanti mali\n per veder le vertudi io son venuto;\n e tu a salire qui m'hai dato l'ali.\n Per\u00f2 te invoco ed a te chiedo aiuto,\n 155 che tu m'insegni te, sicch\u00e9, allora\n ch'al mondo narrer\u00f2 ci\u00f2 c'ho veduto,\n del regno tuo io possa dir ancora;\n e che vert\u00fa in tanto \u00e8 vertuosa,\n in quanto amor la 'nforma ed avvalora:\n 160 non amor di Cupido o d'util cosa,\n ma quel, che 'l sommo Ben ferma per segno,\n e fa l'anima a Dio fedele sposa,\n s\u00ed ch'ogni amor, ch'\u00e8 fuor di lui, ha a sdegno.--\nCAPITOLO XXI\nDella carit\u00e1 e dell'opere della misericordia corporali e spirituali.\n --Amor--diss'ella--\u00e8 la cagione e 'l fine\n d'ogni vert\u00fa e d'ogni atto morale\n e delle cose umane e di divine.\n E tanto ogni vert\u00fa appo Dio vale,\n 5 quanto ha d'amore; e quanto d'amor manca,\n convien che la vert\u00fa da bont\u00e1 cale;\n ch'amore \u00e8 volont\u00e1 accesa e franca\n a voler fare; e, mentre l'amor dura,\n nell'operar la volont\u00e1 mai stanca.\n 10 E questo amor va sempre a dirittura,\n quando elegge per fine e per suo porto\n il Creatore e non la creatura.\n E cos\u00ed alcuna volta anco va torto,\n quando elegge per fine e per suo segno\n 15 cosa che manca e che ha l'esser corto;\n onde, s'alcun prudenza, ovver lo 'ngegno,\n ovver iustizia, ovver mostri fortezza,\n ovver clemenza con atto benegno,\n e ci\u00f2 facesse a fin d'aver ricchezza,\n 20 non sar\u00eda questo il buon amor, ch'i' ho detto,\n n\u00e9 quella carit\u00e1, che Dio apprezza;\n ch\u00e9 carit\u00e1 \u00e8 un amor perfetto,\n ed \u00e8 dilezion contemplativa,\n che 'n ci\u00f2, che ama, ha Dio per suo obietto;\n 25 ed ogni cosa, o che sia morta o viva,\n ama ed apprezza, in quanto \u00e8 buona in Dio,\n e sopra tutto Lui, donde deriva.\n E questa carit\u00e1, ch'ora dico io,\n ama il demonio, in quanto da Dio pende\n 30 per creatura, e non in quanto \u00e8 rio.\n Cos\u00ed di grado in grado ella descende,\n amando pi\u00fa e men, secondo i gradi;\n e quanto trova il ben, tanto s'accende.\n Ma, perch\u00e9 amor, se tu diritto badi,\n 35 sta in congiunzion stretta e perfetta,\n quando \u00e8 onesta e fuor degli atti ladi\n questa coniunzion cos\u00ed costretta,\n chiunque la rompe, separa o disparte,\n convien che grave offesa egli commetta.\n 40 Per\u00f2, mirando quanto a questa parte\n la carit\u00e1 \u00e8 altramente ordita,\n ed altramente il suo amor comparte,\n prima ama Dio, che l'esser e la vita\n dona alla mente, e poi ama se stesso,\n 45 ch\u00e9 nulla cosa ha l'uom pi\u00fa che s\u00e9 unita;\n poi ama i genitor dopo s\u00e9 appresso,\n e li figli, la donna e li nepoti,\n secondo il grado loro ovver processo.\n In questo amor, se tu attento noti,\n 50 vert\u00fa, natura e caso altrui coniunge,\n quando \u00e8 onesto e con atti divoti.\n E, quando questo amor va alla lunge,\n se carit\u00e1 lo scalda e f\u00e1llo grande,\n a' peccatori ed a' nemici adiunge.\n 55 Non ch'a lui piaccian l'opere nefande,\n ma, 'nquanto uomini, gli ama e per essi \u00f2ra,\n ed a ben far ancor la man lor spande.\n La carit\u00e1 appar perfetta allora\n laggi\u00fa nel mondo, quando \u00e8 s\u00ed accesa,\n 60 che del suo iniuriante s'innamora.\n E, perch\u00e9 la vertude s'appalesa\n nell'operar, cos\u00ed si manifesta\n nell'operar la carit\u00e1, c'hai 'ntesa,\n che 'l pover pasce e che dona la vesta\n 65 a chi \u00e8 nudo, e visita e d\u00e1 aiuto\n a quello, il qual l'infermit\u00e1 molesta;\n e va al prigion, che 'n carcere \u00e8 tenuto,\n e che sia liberato e sia disciolto\n s'adopra con favore e con tributo;\n 70 anco \u00e8 da lei 'l pellegrin raccolto,\n e fa che 'l morto di terra si copre,\n facendo aiuto perch'e' sia sepolto.\n E fuor di queste sonno anco sette opre\n di spirital piet\u00e1 laggiuso in terra,\n 75 che per grandezza a queste van di sopre.\n Prima riprende il prossimo, quando erra,\n soavemente; e, s'e' non si corregge,\n d'asprezza e poi d'accusa gli fa guerra.\n L'altra consiglia con senno e con legge,\n 80 il prossimo drizzando in la via dritta,\n quando sta in dubbio e non sa che si elegge.\n L'altra conforta poi la mente afflitta,\n l'animo roborando a pazienza,\n che vince, se a terra non si gitta.\n 85 La quarta d\u00e1 il dono della scienza\n allo ignorante, il nobile tesoro,\n che pi\u00fa che la ricchezza ha d'eccellenza.\n La quinta prega per tutti coloro\n che sonno viator nel mortal mondo,\n 90 e per color che stanno in purgatoro.\n L'altra sopporta il gravissimo pondo\n de' viziosi e chi mal si nutr\u00edca\n col mal costume e col vivere immondo;\n ch\u00e9, dacch\u00e9 'l vizio ha la vert\u00fa nemica\n 95 e fagli sempre oltraggio, or quinci pensa\n se a sopportar li rei \u00e8 gran fatica.\n L'altra rimette e perdona ogni offensa.\n Queste due sempre son l'opre pietose,\n che Carit\u00e1 gi\u00fa nel mondo dispensa.\n 100 Alza la mente omai all'alte cose,\n ch'io ti dir\u00f2, ch'agl'intelletti bassi\n per troppa sottigliezza son nascose.\n Sappi che amor sempre move li passi\n dietro al conoscimento; e, se ben note,\n 105 senza esso gli atti del voler son cassi;\n ch\u00e9 amar si posson ben cose rimote\n dagli occhi e dalli sensi, ma non mai\n s'aman le cose all'intelletto ignote.\n Quanto \u00e8 'l conoscimento, o poco o assai,\n 110 del ben, che move ed ha 'l voler piacente,\n tanto s'accende amor, di cu' udito hai.\n E, perch\u00e9 'l mondo ovver la mortal gente\n non ben conosce le cose del cielo,\n per\u00f2 non l'ama ben perfettamente;\n 115 ch\u00e9 non posson veder se non col velo\n de' sensi lor, s\u00ed come vede il vecchio\n al lume fioco d'un piccol candelo.\n E, perch\u00e9 veggion Dio sol nello specchio,\n il Creator nelle sue creature,\n 120 per\u00f2 l'amor laggi\u00fa non ha parecchio\n a questo di quass\u00fa, che aperte e pure\n vede este cose e che da Dio procede\n ogni altro bene e tutte altre nature.\n Or veder puoi ch'amor sempre col piede\n 125 va dietro al bene, e tanto ha 'n s\u00e9 augumento,\n quanto el conosce e quanto in bont\u00e1 eccede.\n Or mira ben a quel ch'ora argumento:\n che, quando amor pervien col suo desire\n al sommo Ben, che 'l posa e fa contento,\n 130 giammai da quello amor si pu\u00f2 partire,\n ch\u00e9 nulla displicenzia \u00e8 che 'l rimova,\n ed ogni complacenzia ha nel fruire.\n E, dacch\u00e9 ogni dolcezza quivi trova\n e che quel sommo Bene \u00e8 infinito,\n 135 sempre la mente trova cosa nova.\n Cos\u00ed contentasi il doppio appetito,\n in pria la mente e poi la volontade,\n ch\u00e9 l'uno e l'altro ha ci\u00f2, che ha concupito.\n La mente ve' la prima veritade\n 140 nella prima cagion, dalla qual v\u00e8ne\n ogni altro effetto ed ogni altra bontade.\n La volont\u00e1, che ha sete d'aver bene,\n lo gusta e beve quivi in la sua fonte,\n ch'eternit\u00e1 e securt\u00e1 contiene.\n 145 Per\u00f2 chi vede Dio a fronte a fronte,\n convien che abbia carit\u00e1 compiuta,\n se ben ha' inteso le parole c\u00f3nte.\n Ma giuso in terra \u00e8 fredda e diminuta,\n sinch\u00e9, illustrata di lume sereno,\n 150 alzar\u00e1 'nsino a Dio la sua veduta.\n Per satisfarti ancora ben appieno,\n bench\u00e9 sia in cielo amare Dio necesse,\n non per\u00f2 il libero arbitrio \u00e8 qui meno;\n per\u00f2 che quei, che stan nel beato esse,\n 155 amano Dio con volont\u00e1 amorosa,\n se ben hai 'nteso le parole espresse;\n ch'amor e volont\u00e1 \u00e8 una cosa,\n ed a quel pasto, ove l'amor si pone,\n il voler anco libero si posa.\n 160 E, perch\u00e9 'n Dio \u00e8 tutta la cagione,\n che ad amar la volontade move,\n la qual si move sempre a cose bone,\n per\u00f2, quand'ella ha lui, non va altrove,\n s\u00ed come fa la pietra ovvero il foco,\n 165 quand'egli giunge al suo proprio dove,\n ch\u00e9 ogni cosa ha posa nel suo loco.--\nCAPITOLO XXII\nLa Carit\u00e1 mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne.\n Il grato e bel parlar, ch'ella facea,\n mi fu interrotto da dolci armonie\n d'un canto d'angel dentro una corea.\n Per questo ad alto alzai le luci mie,\n 5 mosso dal cantar dolce e s\u00ed giocondo,\n che mai in terra simile s'ud\u00ede.\n Veder mi parve allora un miglior mondo\n e tanto bello, che questo, a rispetto,\n \u00e8 una stalla ed un porcile immondo;\n 10 ch\u00e9 questo \u00e8 brutto, e quel polito e netto:\n lass\u00fa son le cagion, qui son gli effetti:\n quel signoreggia, e questo qui \u00e8 subietto.\n Quando tra canti e tra tanti diletti\n trovarmi vidi ed essermi concesso\n 15 di vedere tanti angel benedetti,\n venne la mente mia quasi in eccesso\n pel iubilo soave e tanti balli\n di miglia' d'angel, ch'io mi vidi appresso.\n --Fa', fa' che tosto le ginocchia avvalli\n 20 --disse la scorta mia,--e riverente\n va', come a suo signor vanno i vassalli.--\n Allor m'avvidi e non tardai niente;\n e, quando appresso fui, m'inginocchiai\n prostrato in terra tutto umilemente.\n 25 Un angel bello, ch'era de' primai,\n mi die' la mano, e, quando mosse il riso,\n di luce sparse intorno mille rai.\n --Noi siam qui posti, e sempre in paradiso\n vediamo Dio; e l\u00ed la nostra vista\n 30 sempre contempla il suo eternal viso.\n Per volont\u00e1 del nostro primo Artista\n agli uomini del mondo siam custodi,\n che ancor combatton nella vita trista\n contra il prince mundan, che 'n mille modi\n 35 lor d\u00e1 battaglia, el drago Satanasso\n con suoi satelli e con sue false frodi.\n Da noi \u00e8 retto ci\u00f2 che sta gi\u00fa abbasso:\n ci\u00f2, che consiglia il senno di Parnaso,\n se noi vogliam, s'adempie o viene in casso;\n 40 ch\u00e9 ci\u00f2, che \u00e8 laggi\u00fa fortuna o caso,\n vien di quass\u00fa da quel primo consiglio,\n che mai ebbe orto, n\u00e9 avr\u00e1 occaso.\n E, se in terra, ch'\u00e8 un granel di miglio\n rispetto al ciel, son s\u00ed le cose belle,\n 45 talch\u00e9 fan lieto il core ed anco il ciglio,\n che debbe esser quass\u00fa, onde son quelle?\n Qui son gran regni e spiriti divoti,\n rettor di questi cieli e delle stelle.\n Non fece Dio li lochi ad esser v\u00f2ti,\n 50 ma per empirli; ed adorn\u00f2 ciascuno,\n ratto che gli ebbe fatti, se ben noti.\n Sub terra pose il fratel di Neptuno\n e li metalli e l'anime nel duolo\n tra lochi sulfurigni e l'aer bruno,\n 55 e gli animali nel terrestre suolo\n e l'erbe e i frutti, acciocch\u00e9 nutricare\n possa la madre terra ogni figliolo.\n E fece l'acque ed adunolle in mare,\n e poscia l'adorn\u00f2 di vario pesce,\n 60 che va notando tra quell'acque chiare.\n E fece Dio che ogni fiume n'esce,\n ed anco v'entran tutti i fiumicelli;\n n\u00e9 per\u00f2 manca il mar giammai, n\u00e9 cresce.\n E su nell'aer pose i belli uccelli,\n 65 e, dove fa la grandine, in quel loco\n parte di que' che funno a Dio ribelli.\n Nel quarto regno, elemento del foco,\n fe' il purgatoro, dove li fedeli\n ristorano il pentir, il qual fu poco.\n 70 Fe' dieci regni poi tra questi cieli\n e gl'ordini degli angel quass\u00fa pose,\n pien di fervore e d'amorosi zeli.\n E l'universo in tal modo dispose,\n che, quanto pi\u00fa si sale inver' l'altura,\n 75 pi\u00fa grandi e pi\u00fa perfette son le cose.\n Tra gli elementi il foco ha men mistura;\n tra i cieli quei c'han maggiori contegni\n insino al primo, il qual \u00e8 forma pura.\n Di sopra a noi sono amplissimi regni\n 80 di Troni e Principati e di Cher\u00fabi;\n e, quanto stan pi\u00fa su, pi\u00fa sonno degni.\n Tu li vedrai, se tanto alla 'ns\u00fa subi;\n ed ogni regno n'ha mille migliaia,\n ed hanno il paradiso in ciascun ubi.--\n 85 E poscia tutta quella turba gaia\n ricominci\u00f4n lor canti e lor tripudi\n con splendore, che 'l sol par ch'ognun paia.\n O uomini mundan, mortali e rudi,\n perch\u00e9 tardate su al ciel venire\n 90 per la via aspra e dolce di vertudi?\n La scorta mia a me cominci\u00f2 a dire:\n --Se altro vuoi veder qui, presto mira,\n ch\u00e9 omai debbiamo ad altro ciel salire.--\n Allor mirai e vidi come gira\n 95 la figlia di Latona il Zodi\u00e1co\n e come gi\u00fa sopra gli umori spira,\n e, come quando \u00e8 'n coda o in co' del draco,\n che per la terra il suo fratel non sguarda,\n il lume suo si oscura e fassi opaco.\n 100 Vidi quando \u00e8 veloce e quando tarda,\n e come a poco a poco si raccende,\n e come per vapor par pur ch'ell'arda.\n Poscia al secondo ciel, che pi\u00fa risplende,\n dall'amorosa scorta io fui condotto;\n 105 e questo l'altro circonda e comprende.\n L\u00ed sta Mercurio, e l'animo fa dotto\n nell'eloquenza ed anco signoreggia\n sopra agli attivi nel mondo di sotto.\n E, perch\u00e9 l'epiciclo suo attorneggia\n 110 il volto al Sole, il suo lume minore\n fa Febo che nel mondo non si veggia;\n ch\u00e9 sempre mai la luce e lo splendore\n convien ch'offuschi, manchi e che s'appochi\n alla presenza del lume maggiore.\n 115 Angeli e santi io vidi in mille lochi\n giranti su e gi\u00fa ed ire a danza,\n con canti dolci ed amorosi invochi:\n canto, che tanto quel di quaggi\u00fa avanza,\n che, poi che io torna' al mondo diserto,\n 120 ogni dolce armonia m'\u00e8 dissonanza.\n E, perch\u00e9 ben ridir non posso aperto\n quello ch'io vidi, vuol per\u00f2 la musa\n ch'io ponga fine al mio parlar coperto.\n Il suo comando a me far\u00e1 la scusa,\n 125 e che nel mondo il ben non \u00e8 inteso,\n dove la 'nvidia la vertude accusa.\n Dacch\u00e9 san Paulo, quando fu disceso\n dal terzo ciel dell'amorosa stella,\n di quell'arcano, il qual avea compreso,\n 130 a' mortali non disse altra novella,\n se non:--Io fui e vidi ed io udii\n cosa, che di quaggi\u00fa non si favella;--\n chi dir potrebbe degli angeli pii\n e della venust\u00e1, che 'n lor si spande,\n 135 che, a rispetto dell'uom, paiono dii?\n O palazzo di Dio, tanto se' grande,\n che mille miglia e pi\u00fa 'l Zenitte muta,\n quando avvien ch'un quaggi\u00fa un sol passo ande.\n E, poscia che ogni sfera ebbi veduta\n 140 e l'anime salvate e i Serafini,\n de' quai narrare appien la lingua \u00e8 muta,\n tra le lor vaghe rime e soavi ini,\n tra l'allegrezze e modulosi canti,\n tra dolci suoni e pi\u00fa vari tint\u00edni,\n 145 la scorta mia mi fe' salir s\u00ed avanti,\n che io pervenni a quel supremo regno,\n ove pi\u00fa splende Dio e li suoi santi.\n --O sommo Ben--diss'io,--a cui io vegno,\n bench\u00e9 sia verme e vilissima polve,\n 150 non mi scacciare e non mi aver a sdegno.\n Risguarda al peccator, ch'a te si volve;\n e, s'\u00e8 rimaso in lui anco alcun rio,\n sola la tua piat\u00e1 \u00e8 che l'absolve.--\n Quando questo ebbi detto, io vidi Dio\n 155 e chiar conobbi ch'era il sommo Bene,\n il qual contentar pu\u00f2 ogni disio;\n e che era il primo prince, da cui viene\n ogni verace effetto, e sua potenza\n ha fatto tutto, e solo egli el mantiene.\n 160 La sua grandezza e sua alta eccellenza\n sol egli la comprende e tanto abonda,\n che nulla mente n'ha piena scienza.\n Chi pi\u00fa a contemplarlo si profonda\n nel mar di Dio, e chi pi\u00fa addentro beve,\n 165 ancora si ritrova in su la sponda.\n E, perch\u00e9 'l corpo l'anima fa grieve,\n non molto stetti, che, pel suo comando,\n in terra fui posato lieve lieve.\n Cogli occhi lacrimosi e sospirando,\n 170 io mi ricordo di quei lochi adorni;\n e 'l volto alzando al cielo, i' dico:--Oh quando\n ser\u00e1, mio Dio, il d\u00ed che a te retorni!\nNOTA\nI\nIl poema frezziano, composto tra la fine del sec. XIV e il principio\ndel XV, ebbe non meno di trenta trascrizioni e non pi\u00fa di dieci\nristampe.\n\u00c8 inutile che io parli di cinque trascrizioni, che sono o irreperibili\no assolutamente perdute; n\u00e9 vale la pena di tener conto di due\nbrevissimi frammenti di codici, che si trovano uno a Firenze e l'altro\na Oxford. Gli altri ventitr\u00e9, per la maggior parte, furono redatti nel\nsec. XV, e tra essi quelli di data certa sono sette, cio\u00e8:\n1\u00b0 il cod. 989 della Biblioteca Universitaria di Bologna, col titolo\n_Liber de Regnis_, con l'attribuzione a Niccol\u00f2 Malpigli a principio e\ncon la data del 1430;\n2\u00b0 il cod. Conv. Soppr. C. I. 505 della Nazionale Centrale di Firenze,\ncol titolo aggiunto _Quatriregio del decursu della vita umana_, con\nl'attribuzione a \u00abFederico vescovo della citt\u00e1 de Foligni\u00bb e con la\ndata del 1449;\n3\u00b0 il cod. Ashb. 565, della Laurenziana, con in fine l'indicazione di\n_Libro de quatro reami_, la stessa attribuzione precedente e la data\n4\u00b0 il cod. Cappon. n. 70 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo\nLibro de' regni, adespoto e con la data del 1464;\n5\u00b0 il cod. Ashb. 372 della Laurenziana, col titolo precedente,\nadespoto e con la data del 1469;\n6\u00b0 il cod. Magliab. II. II. 35 della Naz. Centr. di Firenze, col\ntitolo precedente, adespoto e con la data del 1474;\n7\u00b0 il cod. Class. n. 124 di Ravenna, col titolo precedente, adespoto\ne con la data del 1476.\nAppartengono anche al sec. XV i seguenti 12 codici del Quadr. senza\ndata, cio\u00e8:\n1\u00b0 il cod. Ottobon. 2862 della Vaticana, con in fine l'indicazione\n_Liber de quattuor regnis_ e l'attribuzione a Federico vescovo di\nFoligno;\n2\u00b0 il cod. Palat. 343 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo\nmarginale _Quatriregio del decursu della vita umana_, con\nl'attribuzione precedente;\n3\u00b0 il cod. Class. n. 231 di Ravenna, col titolo _Libro di regni_ e con\nl'attribuzione precedente;\n4\u00b0 il cod. Ashb. 1287 della Laurenziana, col titolo _Quadriregio del\ndecurso della vita umana_ e con l'attribuzione precedente;\n5\u00b0 il cod. Riccard. 2716, col titolo _Libro de' regni_ e senza nome\nd'autore;\n6\u00b0 il cod. Magliab. II. II. 34, col titolo precedente e adespoto;\n7\u00b0 il cod. 1346 della Biblioteca Pubblica di Lucca, col titolo moderno\n_Quadriregio_ e con uguale attribuzione a Federico Frezzi;\n8\u00b0 il cod. ora Cora di Torino, col titolo _Federghina_, gi\u00e1 posseduto\ndal Convento di S. Michele presso Venezia;\n9\u00b0 il cod. 1454 dell'Angelica di Roma, col titolo _Liber magistri\nFederici_;\n10\u00b0 il cod. Canonic. n. 37 della Bodleiana di Oxford, col titolo\n_Libro de Regni_ e adespoto;\n11\u00b0 il cod. 10424 del British Museum di Londra, col titolo precedente\ne adespoto;\n12\u00b0 il cod. Hamilton 265 della R. Bibl. di Berlino, col titolo\nprecedente e adespoto.\nAppartengono al sec. XVI:\n1\u00b0 la trascrizione Gaddiana contenuta nel cod. XXXII, plut. LXXXX\ndella Laurenziana, col solito titolo _Libro de Regni_, senza nome\nd'autore e con la data d'un esemplare precedente perduto (1493);\n2\u00b0 il cod. Segniano XIX della stessa biblioteca fiorentina, col titolo\nsuddetto e senza data.\nAppartiene al sec. XVII la trascrizione contenuta nel cod. C. X. 16\ndella Comunale di Siena, col titolo _Quadriregio_, con l'erronea\nattribuzione a _Ludovico Frezza_ e mutila in fine.\nIn ultimo, appartiene al sec. XVIII il cod. Palat. 344 della Naz.\nCentr. di Firenze, col titolo _Libro de Regni_, adespoto, senza data\ned esemplato sull'Ashb. 372.\nNaturalmente, fra tutti codesti codici, i pi\u00fa importanti sono quelli\nredatti nel 400, di cui occorrerebbe stabilire la genealogia, per\npoter rintracciare il pi\u00fa antico e il pi\u00fa vicino all'autografo\nfrezziano, che non si conosce; ma l'impresa \u00e8 per molte ragioni\ndifficile, e non so se trover\u00e1 mai uno studioso di buona volont\u00e1, che\nse l'assuma e l'assolva.\nQuanto poi alle stampe del poema, la serie cominci\u00f2 alla fine del sec.\nXV con la Perugina, fatta da Stefano Arns, nel 1481, in caratteri\ngotici, intitolata _Quatriregio del decurso della vita umana_,\nesemplata sul cod. Palat. 343 e fornita dell'attribuzione a Federico\nvescovo di Foligno: bella, ma non poco scorretta. La seconda \u00e8 quella\napparsa nel 1488 a Milano pei tipi di Antonio Zarotto, anch'essa in\ncaratteri gotici, con lo stesso titolo e con la stessa attribuzione, e\nquindi figlia legittima della Perugina precedente. Segu\u00ed quasi\ncertamente un'edizione fiorentina senza data e senza nome\nd'impressore, in caratteri rotondi, con titolo e attribuzione uguali\nalle altre, ma con indizi di affinit\u00e1 maggiore alla Perugina e con\nqualche notevole novit\u00e1, di cui non si pu\u00f2 stabilire la provenienza.\nLa quarta ristampa si ebbe nel 1494 a Bologna per opera di Francesco\nDe Regazonibus, che non fece altro se non ricalcare le orme\ndell'anonimo editore fiorentino, e di suo aggiunse soltanto il titolo\nisolato nel r. della prima carta: _Libro chiamato Quatriregio del\ndecorso della vita umana in terza rima_.\nAlle quattro edizioni quattrocentesche tennero dietro tre altre nel\nprimo 500, e sono: quella impressa nel 1501 a Venezia da Piero da\nPavia e discendente dalla Bolognese, quantunque presenti molti errori\ntipografici ed abbreviature in pi\u00fa; quella uscita a Firenze nel 1508\nper cura intelligente di Piero Pacini da Pescia, col titolo\n_Quatriregio in terza rima volgare, cio\u00e8 del Reame temporale e mondano\ndi questo mondo_ etc., in caratteri rotondi e con la stessa\nattribuzione delle altre, ma anche con molte pregevoli silografie e\ncon molti utili richiami in margine, e assai pi\u00fa corretta e moderna\ndella Fiorentina senza data, che l'editore sembra abbia tenuto\npresente; e la seconda ristampa veneziana del 1511, fatta da editore\nignoto, scorrettissima e con indizi manifesti di discendenza diretta\nda quella del 1501.\nDopo codeste edizioni, il poema giacque dimenticato per pi\u00fa di due\nsecoli, e solo nel 1725 apparve una nuova ristampa pei tipi di Pompeo\nCampana di Foligno, in due volumi e col doppio titolo di _Quadriregio\no poema de' quattro regni di monsignor Federigo Frezzi_ etc., che,\ncondotta con metodo affatto nuovo, pur non rispondendo a tutte le\nesigenze della critica moderna, super\u00f2 tutte le altre. Di essa, che fu\nl'unica edizione del poema nel 700, dir\u00f2 meglio in s\u00e9guito. Baster\u00e1\nqui ricordare che, quando si volle nel secolo successivo ridare alla\nluce il _Quadriregio_, non si fece che riprendere il testo folignate e\nripresentarlo quasi tal quale sotto una veste tipografica pi\u00fa moderna.\nCos\u00ed si ebbero i due _Quadriregi_, pubblicati nel 1839 dall'Antonelli\ndi Venezia e inseriti, con lievi differenze, nella doppia collezione\nin formato diverso del suo _Parnaso classico italiano_.\nII\nLa fortuna di questo poema non \u00e8 tutta nelle sue redazioni manoscritte\ne nelle sue ristampe. Se nel sec. XVII esso non fu cos\u00ed letto e\nstudiato come nei secoli precedenti, sorse appunto in quel tempo la\nfamosa controversia sulla sua paternit\u00e1 per opera del Montalbani,\nallora possessore del codice ora 989 dell'Universitaria bolognese. E\nl'affermazione gratuita di lui, che il _Quadriregio_ fosse opera del\nMalpigli, passata dapprima inosservata, accolta poi senza discussione\nanche dai maggiori letterati del primo Settecento, provoc\u00f2 le pi\u00fa\nampie riserve da parte del Crescimbeni e suscit\u00f2 un grande rumore e\nuna grande attivit\u00e1 nel seno dell'accademia folignate dei Rinvigoriti,\nfintanto che il Canneti, che ne era _magna pars_, pubblic\u00f2 nel 1723 la\nsua nota Dissertazione, nella quale con abbondanza di argomenti\nrestituiva il poema al suo legittimo autore Federico Frezzi. Segu\u00ed a\nbreve distanza la ristampa folignate, cui si \u00e8 accennato, gi\u00e1\npreparata da gran tempo dalla stessa accademia con la collazione di\npi\u00fa codici ed edizioni precedenti, e accompagnata da un ricco corredo\ndi commenti del Pagliarini, del Boccolini, del Canneti stesso e\ndell'Artegiani, che diede anche il primo e maggiore impulso alla\nricerca delle fonti del poema frezziano. E si deve a quell'importante\ne raro lavoro collettivo del primo Settecento, se il poema torn\u00f2 ad\nessere oggetto di studio da parte del Palermo, del Marchese, del Rajna\ne del Mazzi, che ne parlarono nei loro scritti; se nel 1878 fu\ncompreso fra i testi spogliati e citati dalla Crusca nel suo\n_Vocabolario_; e se in s\u00e9guito si discorse di esso pi\u00fa ampiamente\nnelle opere di divulgazione letteraria e di critica, che sarebbe qui\ntroppo lungo ricordare. Venne poi il Fornaciari a fare in una rivista\nfiorentina del 1883 un'ampia esposizione del _Quadriregio_ messo in\nrelazione col poema dantesco; e pochi anni dopo il Faloci-Pulignani,\nnella sua monografia su _Le lettere e le arti alla corte dei Trinci_,\npresentava i frutti di speciali ricerche da lui compiute sulla vita e\nl'attivit\u00e1 letteraria del Frezzi. Si occup\u00f2, in s\u00e9guito, del poeta\nfolignate L. Frati nello scritto intorno a _Nicol\u00f2 Malpigli e le sue\nrime_, aggiungendo nuovi argomenti alle stringenti conclusioni del\nCanneti sulla paternit\u00e1 del poema; di lui si occup\u00f2 ancora il\nCrocioni, esaminando i _Dialettismi del Quadriregio_; e una serie di\nstudi diversi sull'opera frezziana pubblicava dal 1903 l'autore di\nquesta Nota. Ricorder\u00f2 fra essi: 1\u00b0 _I codici del Quadriregio_ (in\n_Boll. di storia patria per l'Umbria_, vol. X, fasc. III.); 2\u00b0 La\nmateria del _Quadriregio_ (Menaggio, Baragiola, 1905); 3\u00b0 Le edizioni\ndel _Quadriregio_ (in Bibliofilia, voll. VIII e IX); 4\u00b0 Il P. C.\nLodoli M. O. a proposito d'un codice del Quadr. da lui posseduto (in\nMiscellanea francescana del dicembre 1910); 5\u00b0 Un'accademia umbra del\nprimo Settecento e l'opera sua principale (in Boll. di storia patria\nper l'Umbria, voll. XIII-XVIII, pubbl. anche a parte in due volumi con\naggiunte e indici speciali). Un nuovo e notevole contributo allo\nstudio delle fonti frezziane diede L. F. Benedetto nel volume _Il\nRoman de la Rose e la letteratura italiana_, pubblicato nel 1910 ad\nHalle, in cui dedicava alcune pagine importanti alle relazioni tra la\nprima parte del _Quadriregio_ e il libro francese. Nel 1911 B. Gilardi\ndava alla luce alcuni suoi _Studi e ricerche intorno al Quadriregio_\ndi Federico Frezzi (Torino, Lattes), che veramente ben poco di nuovo e\ndi esatto contengono. Poco dopo, chi scrive riuniva sotto il titolo di\nVariet\u00e1 frezziane (Udine, Vatri, 1912) alcuni saggi sullo stesso poema\ngi\u00e1 sparsamente pubblicati, a cui aggiungeva una monografia su\nL'ottava edizione del _Quadriregio_ nel carteggio fontaniniano (da lui\nconsultato nella Capitolare di Udine), colmando cos\u00ed una lacuna del\ncitato lavoro sull'Accademia folignate dei Rinvigoriti. Ed ora si\nannunzia una monografia di A. Pellizzari _Riflessi danteschi nel\nTrecento_, in cui si discorrer\u00e1 a lungo dell'imitazione della\n_Commedia_ nel poema frezziano.\nIII\nGli editori del 1725, come ho gi\u00e1 detto, non si contentarono di\nriprodurre il testo di una delle vecchie ristampe del poema, e per la\nprima volta ne costituirono uno nuovo, che riusc\u00ed molto diverso e\nmigliore. A questo giunsero con l'esame del cod. Palat. 343 (allora\nBoccoliniano), dei due codd. Class. 124 (allora Estense) e 231, del\ncod. Bol. Univ. 989 (allora Beccariano), nonch\u00e9 delle edizioni\nprecedenti (meno la Milanese, che non conoscevano), e specialmente\ndella Perugina, facendo conoscere agli studiosi anche le varianti non\naccettate. Ma quel lavoro critico, certamente faticoso e in gran parte\nlodevolissimo, se piacque agli eruditi del tempo, non poteva\naccontentare in tutto e per tutto quelli di epoca pi\u00fa a noi vicina,\nche vedevano in esso troppo ingentilito l'aspetto linguistico del\npoema rispetto alla rozzezza dialettale delle precedenti edizioni, e\nvi trovavano ancora molti luoghi oscuri, una punteggiatura spesso\ninesatta e altri difetti minori. Se quell'edizione insomma ha maggiore\nimportanza delle altre, non pu\u00f2 avere il valore di definitiva, anche\nper il limitato numero di codici consultati dal Canneti, che pi\u00fa\ndirettamente degli altri si occup\u00f2 della critica del testo.\nCi\u00f2 posto, sarebbe stato conveniente, nell'apprestare una nuova\nristampa del _Quadriregio_, non curarsi pi\u00fa che tanto della Folignate\ne procedere alla formazione d'un nuovo testo su altri manoscritti\nautorevoli. Ma questo avrebbe imposto una fatica tutt'altro che lieve\n(si tratta di 12101 verso!); n\u00e9 lievi sarebbero state le difficolt\u00e1\nper riunire e consultare in un luogo solo il maggior numero possibile\ndi codici appartenenti a tante biblioteche italiane e straniere.\nMiglior partito, quindi, mi \u00e8 sembrato quello di riprendere ora come\nbase del nuovo il testo del poema edito nel 1725 e correggerlo col\nsoccorso di altre lezioni non esaminate o non apprezzate da quegli\neditori, e coll'uso dei mezzi suggeriti dalla moderna critica\nfilologica. E questo \u00e8 ci\u00f2 che io ho fatto scrupolosamente libro per\nlibro, canto per canto, verso per verso.\nFra i codici del _Quadriregio_ ancora inosservati e tuttavia\nimportanti ho scelto quello segnato Conv. Soppr. C. I. 505 della\nNazionale Centrale di Firenze e l'Ashb. 372 della Laurenziana, che\nsono dei pi\u00fa antichi e meglio redatti. E li ho tenuti presenti dal\nprincipio alla fine del poema, ma specialmente in quei luoghi, in cui\nil Canneti accenna alle varianti dei codici da lui consultati. Per i\nluoghi poi pi\u00fa oscuri e dove non credevo sufficiente codesto materiale\na stabilire una lezione persuasiva, son ricorso anche ad altri\nmanoscritti, e precisamente agli Ashb. 565 e 1287 e all'Angel. 1454.\nCi\u00f2 per\u00f2 non vuol dire che in molti altri casi, in cui il Canneti non\nci ha dato le varianti dei quattro codici da lui esaminati, io non\nabbia fatto appello anche ad essi, com'era necessario.\nAlla collazione dei codici suddetti ho creduto opportuno aggiungere\nquella di qualche antica ristampa. E poich\u00e9 il Canneti non aveva\ntenuto conto della Milanese del 1488, pensai subito di metterla a\nprofitto io; ma, oltrech\u00e9 questa non differisce, come ho detto dianzi,\ndalla Perugina, \u00e8 anche rarissima, e credo che in Italia non si trovi\nche la copia posseduta dall'Ambrosiana di Milano. Pi\u00fa vantaggioso,\ncertamente, sarebbe stato tener presente la Fiorentina del 1508; ma\nanche questa \u00e8 divenuta molto rara e di difficile consultazione. Dato\nquindi lo scarso valore della Fiorentina senza data, della Bolognese e\ndelle due Veneziane, del 1501 e del 1511, non restava che servirmi\ndella Perugina, che, per quanto gi\u00e1 studiata dal Canneti nel 1725,\npoteva essermi utilissima e illuminarmi su molte cose da lui\ntrascurate. Infatti essa conserva pi\u00fa genuina la forma dialettale\ndelle parole umbre e quella umanistica delle parole derivate dal\nlatino, e, pur essendo irta di errori d'interpretazione e di stampa,\npur mancando di qualche terzina e di ogni segno d'interpunzione, pur\navendo versi incompleti o troppo lunghi e rime inesatte, offre ancora\nuna quantit\u00e1 notevole di varianti, oltre quelle gi\u00e1 notate dal\nCanneti. Io l'ho esaminata con grandissima cura e me ne sono valso in\nnumerosi luoghi, che qui indicherei, se non dovessi impormi una certa\nbrevit\u00e1. Ho tenuto anche conto delle scarse correzioni apportate al\ntesto del poema dalle due edizioni del 1839, che non sono per\u00f2\nneanch'esse prive di nuovi errori.\nA tutti codesti testi mss. e stampati devo se in molti luoghi il senso\n\u00e8 stato chiarito o semplificato con l'uso prudente delle varianti, con\nl'inversione delle parti di alcune frasi, con l'aggiunta di qualche\nparola, che nella edizione folignate non si trova, e con la\nsoppressione di altre, che il Canneti aveva creduto di conservare o\nd'inserire. Ecco un elenco sommario di versi, che hanno subito pi\u00fa o\nmeno notevoli cambiamenti di codesto genere:\nLibro I, cap. I, vv. 9, 26; cap. III, v. 142; cap. IV, v. 147; cap.\nLibro III, cap. I, v. 119; cap. II, v. 70; cap. III, v. 28; cap. IV,\nL'elenco sarebbe molto pi\u00fa lungo, se avessi voluto tener conto di\ntutti i versi, nei quali furono soppressi molti \u00abe\u00bb, \u00abio\u00bb, \u00abe'\u00bb ed\n\u00abin\u00bb (davanti a \u00abpria\u00bb), di cui le edizioni del 1725 e 1839 son piene,\ne che ho ritenute inutili e ingombranti o che non erano nei testi\nprecedenti. Cos\u00ed non vi ho compreso quelli, nei quali tutti i pronomi\n\u00able\u00bb sono stati cambiati in \u00abgli\u00bb e gli articoli e i pronomi \u00abil\u00bb\nhanno ceduto il posto ad \u00abel\u00bb, secondo i testi mss. e stampati pi\u00fa\nantichi, n\u00e9 quelli in cui sono state ritoccate le rime.\nPi\u00fa numerosi mutamenti ho introdotti nel _Quadriregio_ per ci\u00f2 che\nriguarda la forma, ora dialettale ora umanistica delle parole. Sotto\nquesto aspetto si dir\u00e1 che il poema frezziano ora riappare invecchiato\nin paragone delle ultime ristampe, che avean cercato di ringiovanirlo\nrispetto a quelle pi\u00fa antiche. Ma che importa ci\u00f2, se esso, senza\nritornare alla rozzezza delle prime edizioni, riacquista un aspetto\npi\u00fa confacente alla sua origine, al luogo, cio\u00e8, ed ai tempi in cui fu\ncomposto? A me insomma \u00e8 parso che, date le condizioni del poeta, il\nquale visse molto tra la sua Umbria e la Toscana in quel periodo di\ntransizione dal sec. XIV al XV, l'opera sua dovesse risentire, pi\u00fa di\nquanto non risulti dall'edizione cannetiana, degl'influssi esercitati\nsu lui dal natio dialetto e dall'umanesimo fiorentino. Del resto, se\nsi leggono i codici e le prime edizioni del _Quadriregio_, vi si\ntrovano moltissime parole dialettali umbre e moltissime altre di forma\nassolutamente latina; e se le prime sono talvolta frutto e conseguenza\ndelle abitudini dei copisti e dei tipografi, non si pu\u00f2 dire lo stesso\ndelle altre. Io non ho preso dai testi consultati tutto ci\u00f2 che avrei\npotuto mietere in questo doppio terreno: tanto \u00e8 vero che qua e l\u00e1 il\nlettore potr\u00e1 incontrare le stesse parole ora riprodotte in una forma\nora in un'altra; ma tutte le volte che ho trovato pi\u00fa testi concordi o\nquasi nella riproduzione dialettale o latineggiante d'un vocabolo, io\nl'ho accettato e introdotto nella stampa. Un glossario spiegher\u00e1 in\nfondo le parole umbre meno facili a comprendersi, e vi si terr\u00e1 conto,\nfin dove sar\u00e1 possibile, delle Dichiarazioni del Boccolini e delle\nosservazioni del Crocioni sui dialettismi frezziani.\nCos\u00ed ho cercato di dare al testo del _Quadriregio_ una forma pi\u00fa\ngenuina, o, per lo meno, pi\u00fa corrispondente a quella antica. Inoltre\nho tolto il maggior numero di maiuscole inutili; ho disteso molte\nforme verbali e mutato molte \u00abe\u00bb in \u00abed\u00bb; ho stabilito una\npunteggiatura pi\u00fa esatta e meno capricciosa; ho curato, per quanto ho\npotuto, l'ortografia delle parole e l'esattezza metrica dei versi, che\nspesso sciolgono i dittonghi ed escludono l'elisione, ed ho corretto\ntutti gli errori tipografici sfuggiti agli editori del 1725 e del\nDopo ci\u00f2 che son venuto dicendo fin qui, ben pochi sono i versi del\npoema frezziano che in questa edizione abbiano conservato in tutto e\nper tutto l'aspetto che avevano nelle ultime. Esporr\u00f2 ora alcune\nosservazioni ed avvertenze che riguardano versi e terzine speciali.\nLibro I, cap. III, v. 8: Ho conservato la lezione della Folignate,\nsebbene nella Perugina se ne abbia un'altra: \u00abche tu non l'abbia avuta\nal tuo desire\u00bb; v. 126: Ho tolto il secondo \u00abcon\u00bb della Folignate,\nperch\u00e9 non \u00e8 necessario e del resto non si trova nella Perugina.--Cap.\nVI, v. 109: Noto che nella Perugina invece di \u00abAlconia\u00bb si legge\nchiaramente \u00abMeonia\u00bb. Il Canneti, non registra questa variante ed io,\nper essermene accorto troppo tardi, non so se si trovi anche in\nqualche codice; ma si pu\u00f2 ritenere per certo che almeno nel cod.\nPalat. 343, che serv\u00ed a quella prima edizione, non manchi.--Cap. VIII,\nv. 47: Aggiungo un \u00abe\u00bb, che, se non \u00e8 estremamente necessario, non sta\nmale e del resto si trova nella Perugina.--Cap. XVIII, v. 22: Della\ndoppia lezione \u00abquarta-quinta\u00bb parla lungamente l'Artegiani nel suo\ncommento del 1725 (cfr. _Quadr_., vol. II, pagg. 28-29). Il suo\nragionamento molto persuasivo mi ha indotto a conservare la lezione\n\u00abquarta\u00bb della Folignate, confermata anche dal cod. Conv. Soppr. c. I.\n505 della Naz. Centr. di Firenze, sebbene io abbia letto \u00abquinta\u00bb nel\ncod. Ashb. 372.\nLibro II, cap. I, v. 101: \u00c8 chiaro che qui si parla della leggendaria\nArianna. La forma \u00abAdriana\u00bb, che io prendo dalla Folignate, si trova\ngi\u00e1 nella Perugina e forse anche nei codici osservati dal Canneti, che\nnon aggiunge varianti. A me \u00e8 toccato di leggere nei codici anche\n\u00abAndriana\u00bb e \u00abDadriana\u00bb. Del resto, il Petrarca scriveva \u00abAdrianna\u00bb\n(cfr. _Trionfo d'Amore_), da cui forse viene la forma frezziana.--Cap.\nVI, vv. 16-21: Ho tolto la \u00abe\u00bb al v. 19, sebbene si trovi anche nei\ntesti da me consultati, ed ho punteggiato diversamente dal Canneti\ntutto il periodo, per renderlo meno oscuro e pi\u00fa spedito.--Cap. X, v.\n6: Ho cambiato il \u00abnullo\u00bb in \u00abnulla\u00bb, sebbene i testi confermino\nquella lezione, perch\u00e9 essa non ha senso.--Cap. XI, v. 20: Il verbo\n\u00abpon\u00bb sembra una corruzione di \u00abson\u00bb, che darebbe maggior chiarezza al\nconcetto; ma io non l'ho mutato, perch\u00e9 esso pu\u00f2 accordarsi con uno\nsolo dei soggetti precedenti, e perch\u00e9 \u00e8 scritto proprio \u00abpon\u00bb nei\ntesti da me veduti.--Cap. XV, v. 153: Non credo si debba leggere \u00abSer\nVagnone\u00bb, come legge il Canneti, perch\u00e9 bisognerebbe ammettere che\nquel gran delinquente fosse un signore rispettabile; meglio conservare\nla forma unita, quale si trova nelle prime edizioni, come se fosse\ntutto un nome.--Cap. XVI, v. 36: I codici da me visti e la stampa\nperugina hanno \u00abgani\u00bb - \u00abganni\u00bb - \u00abinganni\u00bb invece di \u00abGiani\u00bb (cfr. su\nquesta questione il mio cit. lavoro _Un'accademia umbra_ ecc., I,\n263). Del resto, il famoso traditore di Maganza \u00e8 ricordato anche\naltrove dall'autore del _Quadriregio_ (cfr. la pag. 315 di questa\nristampa).--Cap. XVIII, v. 11: Sebbene i testi da me visti non abbiano\nl'articolo \u00ab'l\u00bb davanti a \u00absesto\u00bb, ho creduto necessario aggiungerlo;\nvv. 115-118: Tutti i testi da me consultati, anche il Class. 124,\nhanno \u00abAi miseri\u00bb invece di \u00abI miseri\u00bb, che leggiamo nella Folignate;\nio ho creduto opportuno di riprender quella costruzione, perch\u00e9, se\nnon si accorda col verbo \u00abn'han diletto\u00bb, si collega meglio dell'altra\ncon l'ultimo verso--Cap. XIX, v. 159: Sostituisco \u00abm\u00e9zze gelse\u00bb a\n\u00abmore gelse\u00bb, perch\u00e9 cos\u00ed leggo in due codici e nell'ediz. perugina, e\nperch\u00e9, significando in questo luogo \u00abmore molto mature\u00bb,\nl'espressione \u00e8 pi\u00fa propria dell'altra.\nLibro III, cap. III, v. 26: Conservo la lezione cannetiana \u00abE 'l sesto\nprete grande\u00bb, sebbene sembri pi\u00fa logico dire \u00abdel sesto\u00bb ecc.; ma di\ncinque testi antichi nessuno mi autorizza a fare questo cambiamento;\nv. 83: Aggiungo una \u00abd'\u00bb a principio, senza il consenso dei testi; v.\n96: Invece della lezione \u00abchi le \u00e8 legge\u00bb, i testi da me consultati\nhanno \u00abchi lo reggie\u00bb-\u00abchi li leggie\u00bb-\u00abchi glitegge\u00bb: io ho sostituito\nla prima variante col combiamento del \u00ablo\u00bb in \u00abla\u00bb come pi\u00fa\nlogica.--Cap. IV, v. 71: In qualche testo antico manca \u00abaddietro\u00bb, ed\nio lo tolgo, svolgendo il verbo, che nel testo perugino \u00e8 \u00abritraea\u00bb, e\naggiungendo l'articolo \u00able\u00bb; v. 72: L'ultima parola, nel testo\nfolignate, non rima coi versi precedenti; quindi correggo \u00abse\nn'addette\u00bb in \u00abse n'addetta\u00bb, sebbene la Crusca non registri un verbo\n\u00abaddettarsi\u00bb.--Cap. VI, v. 161: Correggo \u00abrimettea\u00bb in \u00abrimette\u00bb senza\nil consenso del testo perugino, perch\u00e9 questa forma verbale si collega\nmeglio con quella che segue, e anche il verso ci guadagna.--Cap. VII,\nvv. 7-9: Per l'abbondanza dei \u00abche\u00bb e dei \u00absuo\u00bb in questa terzina,\ncredo conveniente sostituire a due di queste forme, nel secondo verso,\ngli articoli relativi ai nomi.--Cap. X, v. 27: Io non credo che in\nquesto verso si debba leggere \u00abbionde danze\u00bb, come si legge nella\nFolignate e in alcuni testi antichi: il verso dev'essere guasto:\nquesta lezione non star\u00e1 per \u00abbiondanze\u00bb?--Cap. XI, v. 72: Cinque\ncodici da me consultati e la Perugina hanno \u00abagazza\u00bb-\u00abaggaza\u00bb, invece\ndi \u00abaggrada\u00bb, che si legge nella Folignate: io riprendo la prima\nforma, sebbene la Crusca non la registri; v. 110: la Folignate ha\n\u00abfonno\u00bb (per \u00abfondo\u00bb), le Veneziane del 1839 hanno \u00absonno\u00bb, perch\u00e9 gli\neditori credettero che quello fosse un errore di stampa, mentre il\nBoccolini giustificava \u00abfonno\u00bb nelle sue Dichiarazioni. I codici e la\nPerugina hanno sempre \u00absonno\u00bb.--Cap. XII, v. 1: Conservo il \u00abnon\u00bb,\nsebbene io non l'abbia trovato n\u00e9 nei codici consultati per la prima\nvolta da me, n\u00e9 in quelli gi\u00e1 studiati dal Canneti, n\u00e9 nella Perugina.\nNoto che solo il cod. Angel. 1454, fra quanti ne ho esaminati, lo\nregistra.--Cap. X, v. 89: \u00c8 strano che il Canneti non abbia capito la\nnecessit\u00e1 di correggere \u00abla man\u00bb, che ha trovato in qualche testo ed\nanche nella Perugina, in \u00abl'aman\u00bb, che io ho letto chiaramente nel\ncod. Ashb. 372 e non mi son curato di cercare in altri codici: tanto\nmi pare esatta questa forma per il concetto. Ma pi\u00fa strano ancora \u00e8\nche neanche gli editori del 1839 si sieno accorti dell'errore.--Cap.\nXIV, vv. 128-129: Ho chiuso questi versi in parentesi per la forma\nsingolare degli aggettivi e dei verbi, che essi contengono e che non\nsi accordano con quelli dei vv. 127 e 130. L'edizione perugina e il\ncod. Palat. 343 hanno nel v. 128 forme plurali, che sarebbero\naccettabili, se poi non seguisse il singolare \u00abvoli\u00bb nel v. 129.--\nLibro IV, cap. I, v. 29: Contiene nelle stampe precedenti un \u00abdolci\u00bb,\nche si ripete nel verso seguente: per questo io ho tolto di mezzo\nquesto aggettivo e messo in principio del verso un \u00abe\u00bb, che non mi\npare sia fuori di luogo; v. 60: I testi da me confrontati d\u00e1nno\nragione alla lezione cannetiana \u00abe letizia\u00bb; ma il senso diventa pi\u00fa\nchiaro, mi pare, spostando la \u00abe\u00bb; v. 65: Mi son permesso di allungare\n\u00abopposto\u00bb in \u00abopposito\u00bb per dare al verso una pi\u00fa giusta misura.--Cap.\nIV, v. 39: Anche qui mi son permesso di aggiungere un articolo, che\nsolo nel cod. Ashb. 372 ho trovato e che mi pare necessario; vv.\n112-117: Il plurale verbale dell'ultimo verso, che si legge nei testi\nantichi forse per attrazione della parola \u00abbraccia\u00bb del penultimo,\ndiscorda col soggetto \u00abpiet\u00e1\u00bb del primo: per questo ho creduto di\ncambiare \u00absariano\u00bb in \u00abfariale\u00bb.--Cap. V, v. 13: Sebbene i testi\nantichi confermino la lezione cannetiana \u00aba lei le\u00bb, ho tolto il \u00able\u00bb,\nche \u00e8 un'inutile ripetizione.--Cap. VI, v. 139: Nella Folignate si\nlegge \u00abson le\u00bb con una prolessi di \u00aba lei\u00bb: nella Perugina abbiamo\nugualmente \u00absongli\u00bb: io ho tolto il \u00able\u00bb e compiuto il verbo. Cap.\nVII, v. 144: La lezione folignate \u00abquel testo\u00bb, che pure si trova nei\ncodici e nelle altre stampe, non si accorda col senso della frase: per\nquesto l'ho ritenuta falsa correzione di \u00abnel testo\u00bb.--Cap. VIII, v.\n27: Invece di \u00abnon lor d\u00e1\u00bb alcuni testi hanno \u00abnon lo d\u00e1\u00bb, che \u00e8\nlezione meno chiara: io mi son permesso di invertire le parole della\nlezione folignate; v. 147: Al Canneti sfugg\u00ed la variante della\nPerugina \u00abnell'arte di Gano\u00bb, che trovo confermata da due codici e che\nmi sembra migliore della lezione, da lui accolta, \u00abnell'arte\nd'ingano\u00bb.--Cap. IX, v. 50: In tre codici e nella Perugina invece di\n\u00abFarsaglia\u00bb si legge \u00abTesaglia\u00bb: la variante, che non fu registrata\ndal Canneti, si sarebbe potuta anche accettare, se la lezione\nfolignate non fosse pi\u00fa determinata; v. 64: La variante \u00abtolosano\u00bb,\ngi\u00e1 registrata dal Canneti, si trova anche in altri testi, che egli\nnon vide, e nella Perugina, che non cita; vv. 101 e 110: In nessuno\ndei testi da me consultati mi \u00e8 occorso di leggere le varianti errate\ndel cod. Bol. 989 \u00abNiccol\u00f2 dalla Fava gentile\u00bb e \u00abfigliuolo\u00bb invece di\n\u00abMastro Gentile\u00bb e \u00abFolegno\u00bb, su cui si fonda principalmente la\nrivendicazione cannetiana del _Quadriregio_ a F. Frezzi.--Cap. XII, v.\n107: Della opportunit\u00e1 del verbo \u00abs'attosca\u00bb in questo luogo\ndiscussero gi\u00e1 il Boccolini (cfr. le sue _Dichiarazioni_, p. 231) e il\nCanneti (cfr. la sua _Dissertazione_, p. 75), che pensarono a una\npossibile corruzione della parola originaria; ma io non ho trovato\nalcuna variante che giustifichi quei dubbi; v. 140: Ho cambiato la\npreposizione \u00aba\u00bb nel verbo \u00abha\u00bb, che per\u00f2 non ho letto in alcun testo\nantico.--Cap. XIII, v. 61: Ho ridotto di mia iniziativa \u00abappartien\u00bb a\n\u00abpertien\u00bb; v. 77: Negli altri testi invece di \u00abingegnasi\u00bb si legge \u00absi\ningegna\u00bb.--Cap. XIV, v. 132: Non avendo trovato varianti o correzioni\nal verso oscuro della Folignate \u00abe la vittoria bench\u00e9 'l mondo\naffliga\u00bb, ho creduto di chiarirlo aggiungendo un \u00ab\u00e8\u00bb e separando le\ndue parti di \u00abbench\u00e9\u00bb.--Cap. XVI, v. 119: Mi \u00e8 parso necessario\naggiungere un \u00abe\u00bb, che nella Folignate e nei testi antichi da me\nconsultati manca; v. 140: Il verbo \u00abcresce\u00bb della Folignate non d\u00e1 un\nsenso chiaro; io gli ho sostituito \u00abci esce\u00bb, che mi \u00e8 stato molto\nopportunamente suggerito dal cod. Ashb. 372.--Cap. XVII, v. 140:\nScegliendo la variante \u00abad ogni pace\u00bb, che ho trovato in altri quattro\ncodici, invece di \u00abad ogni parte\u00bb, ho cambiato di mio l'\u00abad\u00bb in\n\u00abdi\u00bb.--Cap. XVIII, v. 80: Il Canneti, stampando \u00abil qual l\u00ed sopra\nappresso stava\u00bb, non vide la lezione perugina \u00abel qual appresso\nsoprestava\u00bb, che \u00e8 confermata anche dal cod. Conv. Soppr. C. I. 505 di\nFirenze, e che io credo sia da preferirsi all'altra.--Cap. XIX, v. 38:\nNella Folignate si legge \u00abisgomentaro\u00bb; ma nella Perugina si ha\n\u00absgomentorono\u00bb e nel cod. fiorentino or ora indicato \u00abe sgomentoro\u00bb,\ndove par di vedere un resto di \u00abse\u00bb, che io ho creduto opportuno\nrestituire.--Cap. XX, v. 150: La lezione folignate \u00abdegli atti miei lo\n'nsegni e lo riveli\u00bb non \u00e8 esatta; e, sebbene essa sia confermata da\naltri testi, ho ritenuto necessaria la correzione dei due \u00ablo\u00bb in\n\u00ablor\u00bb.--Cap. XXII, v. 137: \u00c8 evidente che qui \u00abZenit\u00bb, che si legge\nnella Folignate, si deve compiere in \u00abZenitte\u00bb, ed io l'ho fatto senza\ntrovare il consenso dei testi antichi.\nCodesto elenco dimostra anzitutto che, se l'editore del 1914 si \u00e8\npermesso di commettere sul testo del _Quadriregio_ qualche coraggioso\narbitrio, ci\u00f2 avvenne soltanto per amore di esattezza e di chiarezza.\nInoltre esso dimostra che nel poema restano ancora punti oscuri, che\nforse anche un esame pi\u00fa largo dei testi antichi non riuscirebbe a\nchiarire. Cos\u00ed vi restano parecchi versi un po' zoppicanti, che la\ncollazione dei codici e delle stampe non \u00e8 bastata a rabberciare: tali\nsono, per es., i vv. 90 del cap. IV, 19 e 91 del cap. V del libro I;\n40 del cap. VIII e 35 del cap. X del libro III; 120 del cap. IV, 39\ndel cap. XII, 128 del cap. XV, 167 del cap. XVIII, 35 del cap. XXI del\nlibro IV, ed altri. Non sarebbe stato difficile dar loro un'andatura\nmigliore con spostamenti, soppressioni ed aggiunte di parole; ma io\nnon ho voluto farlo e non l'ho fatto.\nE basti per il testo poetico. Ora occorre che io dica qualcosa intorno\nal titolo del poema, alla distribuzione dei capitoli ed ai sommari che\nli precedono. Chi ha letto l'elenco dei codici e delle ristampe, con\ncui si apre la presente Nota, avr\u00e1 visto una certa variet\u00e1 di titoli\nassegnati dagli amanuensi e dagli editori all'opera frezziana. Io\nignoro se la parola _Quatriregio_ o _Quadriregio_ sia stata proprio\nconiata dall'autore: i codici pi\u00fa antichi di data certa ci presentano\naltre intitolazioni, e, tra quelli del 400 senza data, non sappiamo\nquale sia il pi\u00fa vicino all'autografo perduto. Ma sta il fatto che,\nsebbene quel nuovo vocabolo non sia di buona lega (sarebbe stato\nmeglio dire _Quadriregno_, come pensava anche il Canneti), esso si\ntrova gi\u00e1 in testa all'Ashb. 1287 e alla prima edizione, e fu accolto\nanche dai dotti editori del 1725: sarebbe quindi fuori di luogo\ntroncare ora una tradizione letteraria cos\u00ed radicata. Per questo io ho\ncreduto conveniente conservare inalterato questo titolo, spogliandolo\nper\u00f2 del secondo, che ha nella Folignate e che mi sembra inutile.\nMolto pi\u00fa gravi si presentavano le altre questioni. Tutti i codici e\nle edizioni del _Quadriregio_, ad eccezione dell'Angel. 1454,\nassegnano a questo poema non meno di 74 capitoli. Ma, se quel ms. ne\nha uno di meno rispetto agli altri, non \u00e8 detto perci\u00f2 che questi\nsiano completi. A me, dopo tante letture dell'opera frezziana, sembra\nognora pi\u00fa strano il passaggio dal capitolo 52\u00b0 al 53\u00b0, cio\u00e8 dal\ndiscorso di Sardanapalo, con cui quello si chiude, alla descrizione\ndel viaggio verso il paradiso terrestre, con cui questo si apre:\npassaggio che contrasta assolutamente, per mancanza di naturalezza,\ncogli altri precedenti da un regno ad un altro, e che \u00e8 tanto pi\u00fa\nbrusco, in quanto nelle prime terzine del cap. 53\u00b0 si richiamano cose\ne fatti, che non si trovano prima neppure accennati. Spinto quindi dal\ndubbio che tra quei due capitoli l'autore ne avesse scritto un altro,\nche le diverse edizioni non ci hanno tramandato, io ho cercato di\nrintracciarlo in qualche codice dei pi\u00fa antichi; ma le mie ricerche\nsono state vane. Forse quel capitolo si sarebbe potuto trovare in\nqualcuna delle trascrizioni che sono definitivamente perdute.\nOra questi 74 capitoli, che nelle ristampe sono ugualmente\ndistribuiti, nei codici hanno una ripartizione affatto diversa. Su\nquindici, che io ne ho potuti esaminare, otto (cio\u00e8 il Bol. 989,\nl'Ashb. 565, il Class. 124, l'Ottobon. 2862, il Class. 231, il\nMagliab. II. II. 34, il Lucch. 1346 e il cod. Cora) assegnano 18 capp.\nal l. I, 19 al II, 17 al III e 20 al IV; altri sei (cio\u00e8 il Fiorent.\nConv. Sopp. C. I. 505, l'Ashb. 372, il Palat. 343, l'Ashb. 1287,\nl'Angel. 1454 e il Palat. 344) assegnano 18 capp. al l. I, 19 al II,\n15 al III e 22 al IV; ed uno (cio\u00e8 il Segn. XIX) assegna 18 capp. al\nl. I, 19 al II, 18 al III e 19 al IV. Mentre quindi codesti codici\nsono tutti d'accordo sul numero dei capitoli che costituiscono i primi\ndue libri del poema, sono in gran disaccordo su quello degli altri\ndue. E poich\u00e9 la concorde distribuzione dei capitoli dei primi due\nlibri risponde esattamente alla partizione voluta dal poeta, su di\nessa non occorre discutere; ma, per ci\u00f2 che riguarda le ultime due\nparti, sorgeva necessariamente la questione: Quale delle tre maniere\ndi distribuzione si doveva introdurre nella presente ristampa? Si\ndoveva accettare senz'altro la distribuzione tradizionale delle dieci\nedizioni, che fa capo a quella del secondo gruppo di codici? Certo la\ntradizione \u00e8 un argomento molto valido, ma in questo caso non \u00e8\ndecisivo: quante tradizioni non sono basate su errori iniziali? Se\nquindi questo argomento non fosse suffragato da altri, la\ndistribuzione gi\u00e1 consacrata nelle stampe avrebbe dovuto cedere il\nposto a quella del primo gruppo di codici, che \u00e8 rappresentata da un\nmaggior numero di manoscritti. Ma tanto questa quanto quella\ndell'unico cod. Segniano non si conciliano affatto con la partizione\ngenerale del poema, poich\u00e9 i capp. 16, 17 e 18, che quegli amanuensi\nincludono nel l. III, parlano del paradiso terrestre e del regno della\nTemperanza, che sono indubbiamente materia del l. IV. All'assurdit\u00e1 di\nquelle due maniere di distribuire i capitoli degli ultimi due libri\ndel _Quadriregio_ si oppone la razionale esattezza dell'altra, e\nsoprattutto per questo ho seguito anche qui la tradizione.\nQuanto ai sommari, \u00e8 notevole il fatto che gi\u00e1 il Canneti aveva\nlasciato da parte quelli, sempre uguali, delle stampe precedenti e ne\naveva introdotti di nuovi e pi\u00fa brevi. Donde egli traesse questi\nsommari, cos\u00ed diversi dagli antichi, non ci ha detto in nessuno\nscritto. Ma \u00e8 facile supporre che il Canneti, desideroso di pubblicare\nargomenti chiari e concisi ad un tempo, si servisse soprattutto di\nquelli che trovava nei due codd. Classensi e che rispondevano meglio\ndegli altri al suo intento, e li adattasse qua e l\u00e1 al gusto dei suoi\ntempi: cos\u00ed ho desunto da un confronto, che ho potuto fare tra i due\ncodici e la stampa folignate. Forse codesti sommari non sempre\nsoddisfano a tutte le esigenze, perch\u00e9 non sempre ci dicono tutto ci\u00f2\nche i vari capitoli del poema contengono; ma io non ho voluto\nsostituir loro altri tratti da qualche codice non esaminato dal\nCanneti, per la semplice ragione che non si sa se il Frezzi abbia\nlasciato coi versi anche le rubriche, e quale sia, tra le diverse\nforme che ne abbiamo, la pi\u00fa antica. Riproducendo per\u00f2 gli argomenti\ncannetiani, ne ho ritoccato l'ortografia e l'interpunzione e ne ho\neliminato le lettere maiuscole non necessarie.\nLa numerazione marginale dei versi e l'indice analitico dei nomi e\ndelle cose notevoli, che ho aggiunto alla presente ristampa del poema\nfrezziano, ne renderanno, spero, pi\u00fa facile l'uso agli studiosi.\nGLOSSARIO\n_Abbrusci\u00f2_, bruci\u00f2\n_addovagliava_, uguagliava\n_alz\u00f4n_, alzarono\n_andonno_, andarono\n_arroscia_ - _arrosci\u00f2_, arrossa - arross\u00f2\n_attura_ - _atturi_, ottura - otturi\n_bambace_, bambagia\n_basci_ (n. e v.), baci\n_biastema_ (n.), bestemmia\n_biastimante_ - _biastemi_ - _biastim\u00f2_, bestemmiante - bestemmi - bestemmi\u00f2\n_biastimatore_, bestemmiatore\n_breglia_, briglia\n_cambra_, camera\n_catarcione_, catorcio\n_ceneraccio_, sedimento\n_colcasse_, coricasse\n_comincionno_, cominciarono\n_como_, come\n_corr\u00eda_ - _corrisse_ - _corson_, correva - corr\u00e9sse - corsero\n_crepaccio_, rottura rumorosa\n_crese_ - _creso_, credette - creduto\n_crista_, cresta\n_daesse_, desse\n_denno_, devono\n_dinar_, denaro\n_enco_, incubo\n_fo_ - _foi_ - _f\u00fbn_ e _funno_ - _fusse_ - _fussono_,\n fu - fui - furono - fossi e fosse - fossero\n_fracido_, fradicio\n_fuline_, fuliggine\n_fume_, fumo\n_grillanda_, ghirlanda\n_groppoloni_, con la groppa in su\n_guizza_, vizza, sciupata\n_ingavicchiai_, intrecciai\n_logra_ (v.), logora\n_'manza_, amanza o innamorata\n_mossono_, mossero\n_none_, non\n_od\u00ede_, udiva\n_orche_, spalle\n_pasi_, lunghezze ottenute col distendere ambe le braccia\n_pieco_, pecora\n_pigli\u00f4n_, pigliarono\n_piobbe_, piovve\n_pioti_, lenti\n_polsa_, freccia\n_port\u00f4n_, portarono\n_presto_ (_in_), prestito (in)\n_puse_ - _pusono_, pose - posero\n_ra'ca_ e _raica_, radica o radice\n_robba_, ruba\n_roscio_, rosso\n_sacci_ e _saccia_ - _saccio_, sappi - so\n_salea_ - _salse_, saliva - sal\u00ed\n_sbaviglia_, sbadiglia\n_'sciuccava_ - _'sciuccando_ - _'sciucc\u00f2e_, asciugava - asciugando - asciug\u00f2\n_sed\u00eden_, sedevano\n_sent\u00e9a_, sentiva\n_siccomo_, siccome\n_smongono_ - _smonti_, smungono - smunti\n_so' - sonno_, sono (I. p. s.) - sono (3. p. p.)\n_solcoe_, solc\u00f2\n_soppresce_ (n.), soppresse\n_spoglio_, pelle squamosa\n_staccio_, vaglio\n_staesti_, stesti\n_statera_, stadera o bilancia a mano\n_stenno_, stettero\n_'sto_, questo\n_tennon_, tennero\n_testo_, cotesto\n_troglie_, sudicerie\n_Vagniel_, Vangelo\n_verchione_, chiavistello\n_vicenna_, vicenda\n_visson_, vissero\n_voglie_ (v.), volge e volga.\nINDICE DEI NOMI\nAbacuc, 369.\nAbstinenza (person.), 237-39.\nAcchilogo, 143.\nAccidia (person.), 297.\nAccorso (?), 118.\nAccorso fiorentino, 340.\nAcheronte, 111, 128.\nActeone e Atteone, 13, 24, 221.\nAdorno Antoniotto, 161.\nAdriana (Arianna), 100.\nAgnello (dell') Ioanni, 162.\nAgnese (santa), 348.\nAgnolo da Rieti, 118.\nAgone (campo d'), 240.\nAgosto (imperatore), vedi Ottaviano.\nAguto Ioanni, 186.\nAlano, 348.\nAlardo, 206.\nAlberto Magno, 319.\nAlcide, vedi Ercule.\nAlconia, 33.\nAlessandria, 176.\nAletto, 175.\nAlfea, vedi Pisa.\nAlpi, 123.\nAlterezza (person.), 144.\nAmasa, 174.\nAmazona, 301.\nAmbrosino (Visconti), 185.\nAmore (person.), vedi Cupido.\nAnania, 93.\nAnna (santa), 296.\nAnniballo (Annibale), 308.\nAnselmo (sant'), 348.\nAnteo, 198.\nAntiochi (Antioco re), 339.\nAntioco (prete), 234.\nAntonio (sant'), 174.\n_Apocalisse_, 127, 235.\nAppiano (d') Iacopo, 175, 182.\nArabia, 146.\nArchitofelle, 155.\nAretusa, 283.\nArgo (dai cento occhi), 62.\nArgo (nave), 190.\nArno, 248.\nArnoldo (da Rieti), 118.\nArtus (re), 308.\nAsia, 93.\nAsma (person.), 136.\nAssiria, 146.\nAssuero, 192.\nAstreo, 326.\nAtalante (Atlante), 16, 84.\nAtreo, 117.\nAugustino (sant'), 348.\nAurora (person.), 87.\nAverois, 319.\nAvicenna, 135, 320.\nAzzo (da Casalmaggiore), 341.\nBabele, 207.\nBaldo (perugino), 340.\nBarnab\u00f2, vedi Visconti.\nBartolo (da Sassoferrato), 340 -- Lettura, id.\nBatista di Senso, 120.\nBatista (Il), vedi Ioanni B. (san).\nBellona, 184.\nBenci Giorgio, 224.\nBencio da Fiorenza, 224.\nBernardo (san), 348.\nBiastema (person.), 244.\nBoezio, 348.\nBoglione Gottifredo, 308.\nBollicame, 168.\nBonzo (prete), 374.\nBordone (san), 134.\nBretagna, 304.\nBruno (del) Francesco, 131.\nBruto, 330.\nBuonagiunta (pisano), 256.\nCadmo, 232.\nCallisto (catacombe di san), 348.\nCalabria, 283.\nCamilla, 301.\nCamillo, 308.\nCamollia, 259.\nCancro (costell.), 108.\nCaribdi, 128.\nCarlomagno, 308.\nCartago (Cartagine), 245, 308.\nCatalogna, 250.\nCatarro (person.), 136.\nCaterina (santa), 348.\nCatone, 307.\nCautela (person.), 324.\nCecilia (santa), 348.\nCesare Agosto (titolo imperiale), 306.\nCesare Agosto (imperatore), vedi Ottaviano.\nCherubi, 385.\nChirone, 184.\nCiaffo di Camollia, 259.\nCilleno, vedi Apollo.\nCincinnato, 308.\nCino (da Pistoia), 340.\nCipri (Cipro), 176.\nCiprigna, vedi Venere.\nCircumspezione (person.), 324.\nCitarea, vedi Venere.\nCiuola (monna), 259.\nClemenza, Mansuetudo e Virt\u00fa mansueta (person.), 250, 288, 293, 294.\nCloto, 302.\nCocito, 109.\nCola di Renzo, 161.\nColco, 214.\nColiseo, 171.\nColonna (famiglia), 161.\nConcupiscenza (person.), 91, 268.\nContinenza (person.), 291, 295.\nCopia (person.), 233.\nCortona, 249.\nCreusa, 86.\nCrisostomo (san Giovanni), 348.\n 353, 359, 366 -- chiamato Agnello e Agno celeste, 240, 279, 298;\n -- alto Emanuele, 116; -- Erede di Dio, 299; -- Figliuolo di Dio, 116,\n 298, 361; -- Frutto di Maria, 370; -- Ies\u00fa Salvatore, 179, 350;\n -- Verbo eterno, 361.\nCrudelt\u00e1 (person.), 104.\nCurio, 238.\nCurzio, 303.\nDafne, 263.\nDalida, 301.\nDaniele e Daniello (profeta), 297, 369.\nDanubio, 283.\nDario (re), 192.\nDavid, 198.\nDeianira, 185.\nDemostene, 318.\n_De profundo_ (preghiera), 370.\nDido e Didone, 3, 99.\n 291,339; -- Giudice supremo e del tutto, 112, 115; -- Iove, 298;\n -- Maestro del paradiso, 275; -- Mastro del mondo, 120; -- Monarca,\n Patriarca, 293; -- primo Prince, 244; -- Re del mondo, 215, 240,\nDiomede, 187.\nDionisio e Dionisi, 339, 358.\nDocilit\u00e1 (person.), 324, 325.\nDolore gridante ecc. (person.), 136.\nDomiziano, 253.\nEaco, 178.\nEbetudo (person.), 261.\nEgina, 140.\nEgitto, 307.\nElicona, 316.\nEpicuro, 261.\nErcolano (sant'), 164.\nEresia (person.), 144.\nErubescenza (person.), 292.\nEtiopia, 283.\nEzechiele, 312.\nFabricio e Fabrizio, 62, 205, 294.\nFagiola (della) Uguccione, 141.\nFalerno (vino), 258.\nFantasia (person.), 144.\nFarnese Piero, 373.\nFarsaglia, 317.\nFebbri (person.), 136.\nFeliciano (san), 348.\nFialte, 192.\nFiammegna, 93.\nFiandra, 81.\nFilomena (Filomela), 25.\nFineo, 146.\nFiorenza, 81, 224.\nFlamminea, 92, 93.\nFlegetonte, 168, 169.\nFleias, 154.\nFoligno e Folegno, 93, 319.\nFontebranda, 259.\nForteguerra da Lucca, 152.\nFrancesco (Casali) da Cortona, 249.\nFrenesia (person.), 135.\nFroda (person.), 104, 227.\nGabriello (arcangelo), 236.\nGalieno, 320.\nGambacorti (de') Piero, 176, 182.\nGange, 283.\nGanimede, 123, 205.\nGano (di Maganza) e Gani, 174, 315.\n_Genesis_, 321.\nGenova, 161.\nGentile (da Foligno), 319.\nGeone, 283.\nGerione, 10.\nGiotto, 347.\nGiovanni Andrea (del Mugello), 340 -- _Clementine, Novella_, Sesto, ivi.\nGiove, vedi Iove.\nGiovenale, 318.\nGiuda, vedi Iuda.\nGoliatte (Golia), 198.\nGomorra, 98, 293.\nGratitudine (person.), 334.\nGrecia, 307.\nGreco (vino), 259.\nGualterotto (Lanfranchi), 182.\nGuerra (person.), 104.\nIacchetto (re di Cipro), 176.\nIano (Giano), 307.\nIasone e Iasoni, 214, 339.\nIbero, 283.\nIcomica (person.), 321.\nIdropisia (person.), 136, 241.\nIeremia, 312.\nIgnazio (sant'), 179.\nIlario (sant'), 348.\nIlionne (Troia), 347.\nImbro, 185.\nImmania (person.), 244.\nImmondizia (person.), 261.\nInganno (person.), 104.\nInnocenza (person.), 267.\nIntelligenza presente (person.), 323.\nInumanit\u00e1 (person.), vedi Immania.\nIoab, 174.\nIoan d'Azzo, 186.\nIoanna (I, regina di Napoli), 161.\nIoanni Batista (san), 261, 295.\nIole, 10.\nIosef (ebreo), 215.\nIpocrate, 320.\nIpodria, 32, 33.\nIppolito, 24, 41.\nIsac, 116.\nIsidoro (sant'), 348.\nIsraele e Israelle, 116, 155.\nIssione, 160.\nIudi (come Iuda), 174.\n 331 -- chiamata Saturnia, 51.\nIustiniano (imperatore), 340.\nLaberinto e Labrinto, 172, 267.\nLanfranchi (famiglia), 182.\nLaterano, 259.\nLatria (person.), 334, 338.\nLaurenzio (san), 348.\nLeda, 3.\nLegge antica e nuova, 267.\nLeonina (citt\u00e1), 259.\nLicaona e Licaone, 98, 172.\nLico, 211.\nLieo, vedi Bacco.\nLotto e Lotte (Lot), 98, 256.\nLuca (san), 258.\nLucia (santa), 348.\nLucrezia (romana), 207.\nLuna (divin.), 181.\nLussuria (person.), 267, 269.\nMacario (san), 134.\nMaccabeo, 366.\nMaddalena (la), 293, 365.\nMaiest\u00e1 divina, 190, 342, 376.\nMagna (La), 123.\nMagnanimit\u00e1 (person.), 303.\nMal di fianco (person.), 135.\nMalizia (person.), 104, 239.\nMal podagrico (person.), 135.\nMal che par la carne arda (person.), 136.\nMamone e Mammone, 169, 170, 236.\nMargherita (santa), 348.\nMaria (santa), 299, 350, 369 -- chiamata Madre di Cristo, 236;\n -- Regina del cielo, 370.\nMarta, 296.\nMarta (santa), 348.\nMedea, 250.\nMedone, 185.\nMemoria (person.), 323.\nMenzogna (person.), 229.\nMichele (san), 116.\nMichelina (santa), 296.\nMida, 234.\nMinos, 178.\n_Miserere_ (preghiera), 370.\nModestia (person.), 292.\nMoises, 117.\nMollizia (person.), 238.\nMongardo Annichino, 185.\nMongibello, 71, 104.\nMorbi (person.), 135.\nMoriale (fra), 185.\nMusa (Dante), 204.\nMuzio (Scevola), 369.\nNabucodonosor, 207, 342.\nNegligenza (person.), 238.\nNembrotte, 207.\nNerone, 253.\nNesso, 185.\nNettuno, Neptuno e Nettunno, 9, 79, 104, 177, 251, 384.\nNilo, 283.\nNisa, 318.\nObservanzia, 334.\nOlimpo, 25, 48.\nOmero, 317.\nOnest\u00e1 (person.), 292.\nOpinione falsa (person.), 143, 144.\nOrazio (Coclite), 302.\nOrazio (poeta), 318.\nOriente, 306.\nOrigene, 136.\nOrlando, 232.\nOrse, 108.\nOssa, 191.\nOstiense (Arrigo da Susa), 340.\nOttaviano, Agosto e Cesare Agosto, 150, 192, 289.\nOvidio, 317.\nPalla e Pallade, vedi Minerva.\nPanfia, 76.\nPantasilea, 301.\nParche (le), 139.\nParcit\u00e1 (person.), 291, 295.\nParigi, 206.\nParmenide, 320.\nPatto (divino), 53.\nPaulino (san), 376.\nPazienza (person.), 304.\nPeloro, 191.\nPersia, 92.\nPersio (poeta), 318.\nPier d'Alborea, 131.\nPiet\u00e1 (person.), 324.\nPietro (re di Cipro), 176.\nPigmalione, 234.\nPirro, 180.\nPistoia, 340.\nPitagora, 320.\nPlatone, 319.\nPolicleto, 347.\nPolisena, 180.\nPolmonia (person.), 136.\nPovert\u00e1 (person.), 124, 224.\nPresagio (person.), 154.\nPrincipati, 385.\nPriscille (catacombe di santa), 348\nProserpina, 9, 76, 180.\nProvvidenza (person.), 323, 324.\nPrudenza e Prudenzia (person.), 313, 317-19, 321, 346.\nQuirino, vedi Romulo.\nRadamanto, 178.\nRamondo (fra'), 340 -- _Decretali_, ivi.\nRegulo Marco (Attilio), 302.\nRemo, 177.\nRiccardo (da san Vittore), 348.\nRieti, 118.\nSaba, 279.\nSabello, 371 -- Carlo figlio e Lelio nipote di S., ivi.\nSabina (regione), 307.\nSalamone e Salomone, 55, 268, 279, 339.\nSalaria (via), 348.\nSapienza (person.), 323.\nSardanapallo, 269.\nSaturnia, vedi Iuno.\nSaturno, 63, 77.\nScala (della) famiglia, 177.\nScala (della) Mastino e Mastini, 162, 176.\nSchirone, 119.\nScilla, 128.\n_Scrittura sacra_, 346, 351, 352.\nSdegno (person.), 144, 244.\nServagnone, 172.\nSesto (Tarquinio), 207.\nSibilla, 359.\nSicilia e Trinacria, 161, 283.\nSignoria (person.), 250, 251.\nSimon mago, 207, 345.\nSionne, 347.\nSirena (la), 25.\nSisifo, 148.\nSisto (san), 348.\nSocrate, 320.\nSogni (person.), 154.\nSolerzia (person.), 324.\nSonnolenza, 238.\nSoprasia (monte), 93.\nSospizione (person.), 144.\nSpello, 92.\nSpirito santo, 350, 362, 363 -- chiamato \u00abColui che eternamente\nStati, 288.\nStazio, 318.\nStefano (santo), 348.\nStige, 146.\nSuperbia (person.) 251, 285, 327.\nTaddeo (Pepoli), 341.\nTanai, 283.\nTantalo, 255.\nTarquinio (il superbo), 207.\nTarso, 242.\nTauro (costell.), 114.\nTebe, 248.\nTepidezza (person.), 238.\nTerenzio, 318.\nTerrasanta, 308.\nTesifone, 175.\nTessaglia, 248, 307.\nTieste, 177.\nTimia, 92.\nTimore (person.), 144.\nTirena, 32.\nTito Livio, 317.\nTitone, 87.\nTizio, 133.\nTomas d'Aquino (san), 348.\nTopino, 92, 98.\nTorquato (Manlio), 308.\nToscana, 161.\nTosco Piero, 256.\nToso Benigno, 375.\nTraiano, 289.\nTrieve (Trevi), 92.\nTrinacria, vedi Sicilia.\nTrincia e Trinci (famiglia), 93.\nTrinci, Trince, 309.\nTroni, 385.\nTullio (Cicerone), 317.\nUgo (cardinale), 348.\nUguccio (Casali) da Cortona, 249.\nUmbria, 98.\nUrbano (VI, papa), 309.\nUrsenna, 27, 28.\nVagniel, Vangelio e Vangelo, 167, 258, 312, 333.\nVarri (Varrone), 339.\nVaticano, 348.\nVecchiezza (person.), 134.\nVencioli (famiglia), 164.\nVendetta (person.), 335.\nVerit\u00e1 (person.), 336-38.\nVerona, 176.\nVesta, 268.\nVincenzio (san), 348.\nVirt\u00fa e Vertudi (person.), 326, 342.\nVizi (person.), 327.\nZefiro, 313.\nZenitte, 386.\nZenone, 320.\nZodiaco, 385.\nINDICE\nLIBRO PRIMO\nDEL REGNO D'AMORE\nI. Come all'autore apparve Cupido, e questi lo condusse\nnel regno di Diana, ove a' preghi del medesimo fer\u00ed\nII. Nel quale l'Amore prova per molti esempli che nessuno\npu\u00f2 far resistenza a lui ed alle sue saette \u00bb 9\nIII. L'autore vien tradito da un satiro, mentre cerca Filena,\nche, aspramente da Diana punita, in quercia si trasmuta \u00bb 15\nIV. Lamento dell'autore sopra la perduta Filena: promessa\ndi pi\u00fa bella ninfa fattagli da Cupido \u00bb 20\nV. Dell'avvenimento di Giunone invitata alla festa di Diana \u00bb 25\nVI. Della caccia del cervo per la gara della ghirlanda tra\nVII. Come la ninfa Lippea fu coronata della ghirlanda, che\nVIII. Come Cupido, irato con la ninfa Lippea, la fer\u00ed d'una\nIX. Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire \u00bb 45\nX. Nel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere\ncon l'autore, a cui da Venere vien promessa la\nXI. Come la dea Minerva discese e seco men\u00f2 Ilbina ninfa \u00bb 55\nXII. Come la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del\nXIII. Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale\ngli rende ragione di molti fenomeni \u00bb 65\nXIV. Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego\ndi Venere Giove discese dal cielo e pose pace fra loro \u00bb 70\nXV. Come l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia,\nla quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti \u00bb 75\nXVI. Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo\nreame dispiacquero all'autore, perch\u00e9 usavano atti\ndisonesti d'amore; onde Venere il men\u00f2 a ninfe pi\u00fa oneste,\nXVII. Dove si tratta dell'inganno, che fu fatto all'autore dalla\nXVIII. Dove si tratta del reggimento della casa de' Trinci e\nLIBRO SECONDO\nDEL REGNO DI SATANASSO\nI. Come la dea Pallade appare all'autore e gli descrive la\nII. Come l'autore narra a Minerva che e' si confida vincere\nIII. Come l'autore mediante la dea Minerva ritorn\u00f2 dell'inferno,\nIV. Dove trattasi del limbo e del peccato originale \u00bb 113\nV. Come l'autore trova certe anime, che stavano penando\nVI. Come l'autore, uscito dall'inferno, venne nel mondo\nVII. Dove trattasi del regno d'Acheronte \u00bb 128\nVIII. Dove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e'\nIX. Come l'autore trova la Morte, la quale parla acerbamente\nX. Dove l'autore discorre delle pene, che l'uomo d\u00e1 a se\nXI. Dove si tratta della pena di Sisifo \u00bb 148\nXII. Dove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona\nXIV. Dove trattasi della pena, che d\u00e1 l'Amore, quando ha\nXV. Come l'autore riconosce la citt\u00e1 di Dite in questo mondo,\ne quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini \u00bb 168\nXVI. Delle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani \u00bb 173\nXVII. Come l'autore vede il tempio di Plutone \u00bb 178\nXVIII. Dove si tratta delli centauri \u00bb 183\nXIX. Come l'autore trova Satan trionfante nel suo reame \u00bb 188\nLIBRO TERZO\nDEL REGNO DE' VIZI\nI. Come l'autore fu a battaglia con Satanasso e, umiliandosi,\nII. Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella \u00e8\nIII. Dichiaransi gli effetti della superbia \u00bb 207\nIV. Ove trattasi del vizio dell'invidia e della sua natura \u00bb 212\nV. Di tre spezie d'invidia e di Cerbero, dal quale l'autore\nVI. Dichiarasi come l'invidia si oppone alla virt\u00fa \u00bb 222\nVII. Ove trattasi del vizio dell'avarizia \u00bb 227\nVIII. Dove si ragiona del vizio dell'avarizia \u00bb 232\nIX. Del vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami \u00bb 237\nX. Del vizio dell'ira e delle sue specie \u00bb 242\nXII. Trattasi di certi che furono viziosi nell'ira, e si passa\nXIII. Delle specie e rami discendenti dal vizio della gola \u00bb 257\nXIV. Della lussuria e delle sue specie \u00bb 262\nXV. Trattasi pi\u00fa in particolare delle specie e de' rami discendenti\nLIBRO QUARTO\nDEL REGNO DELLE VIRT\u00da\nI. Del paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero\nII. Della condizione del paradiso terrestre e de' fiumi, che\nIII. Della vert\u00fa della temperanza e sue laudi \u00bb 285\nIV. Delle spezie e rami della temperanza \u00bb 290\nV. Della virt\u00fa della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza \u00bb 295\nVI. Della fortezza e delle sue spezie \u00bb 300\nVII. De' magnanimi e valentissimi, ne' quali risplendette la\nVIII. Nel quale la Fortezza scioglie un dubbio dell'autore, e\nappresso incominciasi a trattare della prudenza \u00bb 311\nIX. Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori \u00bb 316\nX. Delle specie ovvero delle parti della prudenza \u00bb 321\nXI. Della virt\u00fa della giustizia, e come e perch\u00e9 furono trovate\nXII. Trattasi delle parti della giustizia \u00bb 331\nXIII. Dove trattasi singolarmente della virt\u00fa dell'equit\u00e1 e della\nverit\u00e1 e de' valenti canonisti e legisti \u00bb 336\nXIV. L'autore vede il tempio della fede, e gli appare san\nPaolo, il quale gli ragiona di questa virt\u00fa \u00bb 342\nXV. Di coloro che col lor sangue fondarono la fede, e delle\nXVI. Della resurrezione de' nostri corpi dopo il Giudizio \u00bb 352\nXVII. Come Paolo apostolo men\u00f2 l'autore al reame della Speranza \u00bb 357\nXVIII. De' peccati nello Spirito santo, i quali sono opposti alla\nXIX. Come la Speranza conduce l'autore a parlare con la\nXX. Dove trattasi pi\u00fa distintamente del purgatorio, e si risolvono\nXXI. Della carit\u00e1 e dell'opere della misericordia corporali e\nXXII. La Carit\u00e1 mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori", "source_dataset": "gutenberg", "source_dataset_detailed": "gutenberg - Il Quadriregio\n"} +] \ No newline at end of file